Pubblichiamo — con lievi ritocchi redazionali — l'intervento che Oscar Sanguinetti ha tenuto in occasione del convegno Invasione francese e insorgenza popolare sanfedista, svoltosi a Corigliano Calabro (Cosenza) il 29 Ottobre 1999
I relatori che mi hanno preceduto hanno illustrato in maniera del tutto esauriente i fatti e le cause dell’Insorgenza italiana, così come essa si è presentata nel Mezzogiorno e nelle Calabrie, nonché in tutta la Penisola. Per parte mia, vorrei aggiungere all’ampio panorama che vi è stato disegnato solo alcune brevi considerazioni, che hanno per tema la memoria dell’Insorgenza, ovvero che cosa è rimasto di essa oltre l’arco cronologico che più le è proprio, cioè l’età napoleonica. Ciò significa vedere come essa ha agito nel determinare gli eventi essa successivi o quanto meno nell’influirvi; in particolare, significa capire che ruolo ha avuto nel processo di formazione dell’identità nazionale degl’italiani. Mi sembra poi non inutile riflettere su come si pone oggi,
hic et nunc, il problema dell’Insorgenza — che dunque è ancora un problema! —, cioè su che cosa oggi sopravvive della sua memoria e se vi è qualche novità oggi rispetto al passato nel modo in cui essa è presente ai nostri contemporanei. Infine, vorrei cercare di trarre da tutto questo indicazioni su quale atteggiamento e quali compiti si impongano a chi voglia interessarsene oggi.
1. L’INSORGENZA ITALIANA
Abbiamo visto che l’Insorgenza è un moto generale di reazione e di resistenza che moltissimi italiani di tutti i principati, province e «terre» della Penisola, hanno espresso contro gli effetti politici della Rivoluzione francese. Non sappiamo ancora quanti italiani vi abbiano preso parte, ma le prime stime inclinano per cifre dell’ordine delle centinaia di migliaia. Dicendo moto «generale» non intendo — è bene precisarlo — un moto «unanime», né un moto «sincronico», ma faccio riferimento al moto di una maggioranza, un moto che potremmo definire senz’altro «sinfonico» e «corale». Un moto che, da un lato, si esprime in ostilità e in lotta armata contro gl’invasori francesi repubblicani — contro i soldati, contro i commissari politici — e contro i loro partigiani italiani — i giacobini, odiati già quali intellettuali e politici collaborazionisti, ma ancor di più quando vestono la divisa di soldati al servizio delle repubbliche rivoluzionarie, con specifici compiti di repressione degl’insorgenti. Un moto che dall’altro lato, simmetricamente, si schiera in difesa militante del patrimonio di cultura, d’istituzioni e anche materiale della nazione italiana, che la Rivoluzione nega e conculca. Un patrimonio accumulato dagl’italiani nel corso dei secoli, alla luce e sotto la guida della fede cristiana, nel suo duplice aspetto di annuncio della buona novella e di proposizione positiva della legge naturale. Un patrimonio che esprimeva un ordine politico assai diverso dal sistema politico contemporaneo e il cui carattere distintivo potremmo vedere rappresentato emblematicamente dalla limitazione del potere del sovrano nei confronti della società. Anche in epoca di assolutismo e di dispotismo più o meno «illuminato», infatti, nell’Occidente cristiano il potere del principe trova il suo limite, in basso, nel patto, implicito o esplicito da esso stabilito per consuetudine con il popolo — un patto in cui il sovrano si impegna a salvaguardare i diritti acquisiti dai singoli e dalle comunità (o corpi) della nazione —, e, in alto, nella legge di Dio, sancita dalla Chiesa, cui anche l’autorità suprema deve obbedire. Un ordine politico e sociale, ancora, dove il modello delle istituzioni politiche sociali è la famiglia e dove la libera relazione fra persone prevale sul formalismo giuridico. Un filosofo cattolico colombiano del Novecento, Nicolás Gómez de Ávila, ha felicemente così sintetizzato l’evoluzione del rapporto fra Stato e società — cito a memoria —: «Nella società medioevale la società è lo Stato [ossia non esiste diritto pubblico]; nella società borghese Stato e società si fronteggiano; nella società comunista, lo Stato è la società [ovvero tutto è diritto pubblico]».
Capisco, che non è facile comprendere che si possa amare — e si possa amare fino a impugnare le armi — un modo di vivere che pare «condannato dalla storia», come si usa ormai dire, adottando senza accorgersene una terminologia hegeliana, ossia dialettica. Ma si deve peraltro ammettere che una società può vivere anche in condizioni diverse da quelle ormai ritenute «normali». Non vuol dire che queste condizioni siano migliori, ma non vuol dire nemmeno dire che siano peggiori, almeno in tesi. Una società può vivere fondandosi su valori diversi da quelli alla luce dei quali la nostra storia ci ha ormai abituati a vivere, cioè quelli dello Stato moderno, pluralistico, ma nemico delle libertà concrete, latentemente totalitario, sempre più secolarizzato e relativista sotto il profilo nella morale sociale. È già però importante, credo, capire che la nostra condizione attuale non è un dato di natura, bensì è il prodotto di un insieme di idee e di atti dispiegatisi nella storia e che, come tale, altre idee e altri atti possono mutarla.
Dunque, la Rivoluzione proveniente dalla Francia repubblicanizzata — è ormai accertato — non trova in Italia e nei paesi in cui si diffonde solo entusiastici ammiratori, ardenti apostoli ed eroiche spade che si pongono generosamente al suo servizio, ma incontra anche la dura opposizione e la tenace resistenza di coloro che ancora amano la cristianità europea al tramonto, quel mondo di valori, di istituti e di realtà materiali, che nasce dal Medioevo romano-germanico e approda a quello che, a partire dall’Ottocento, verrà detto l’«antico regime», attraversando tutte le crisi provocate dalla emergente modernità: il Rinascimento, la rivolta protestante, la nascita degli Stati moderni, le riforme «illuminate» del Settecento.
Davanti a questo declino, brutalmente accelerato dalla Rivoluzione parigina e dalla conquista francese, molti — chi per ragioni ideali, chi per esperienza diretta delle «novità» francesi, chi per abitudine, chi magari per interesse concreto — si trovano a rivendicare più o meno integralmente il vecchio mondo. Altri ne invocano una riforma, magari in senso anti-illuministico, ma nessuno, a parte le minoranze di rivoluzionari ex professo, i cosiddetti «giacobini», ne desidera l’abbattimento integrale, convinto che, nella vita dei singoli come nella storia dei popoli, non si costruisce niente partendo da zero, così come vorrebbe l’utopia rivoluzionaria.
Questo moto di resistenza e di difesa, come è noto, non coinvolge solo l’Italia, ma si manifesta in quasi tutte le nazioni europee, dovunque arriva la dominazione, o anche talora solo il semplice influsso, della Rivoluzione francese, dalla Spagna alla Russia, dal Belgio a Malta. In ciascun luogo esso si presenta con un volto differente, che ricalca il particolarismo territoriale e culturale dell’Europa dell’antico regime, ma rivela un insieme di motivazioni e spesso anche di forme comune e omogeneo, che fanno realmente di questo fenomeno, al di là della sua oggettiva frammentarietà, una dominante, almeno nel senso di «rovescio della medaglia», dell’epoca storica posta a cavallo fra Settecento e Ottocento, detta appunto «l’epoca della Rivoluzione».
I pochi dati che abbiamo a disposizione rivelano che l’Insorgenza degli anni 1796-1814 è stata un movimento di popolo che non ha eguali nella storia italiana. Né il Risorgimento e neppure la resistenza contro l’occupazione nazionalsocialista tedesca del 1943-45 — la Resistenza, che ci hanno insegnato a scrivere con la «R» maiuscola e che pure presenta caratteristiche fortemente analoghe, anche se ovviamente non identiche, all’Insorgenza — riusciranno a mobilitare così a lungo tanti italiani e conosceranno un numero di vittime tanto elevato. Per continuare il paragone con la Resistenza, non si può non rimarcare che l’Insorgenza non si è sviluppata dopo la sconfitta di Napoleone in Russia, ma è cominciata negli anni stessi in cui l’Italia — in primis il Regno di Sardegna — cade sotto il tallone della Francia rivoluzionaria, quando l’astro napoleonico inizia la sua parabola, e non si placa neppure quando questo astro è al suo apogeo. Fra il 1805 e il 1809-1810, fra il «sole di Austerlitz» e il trionfo di Wagram, anzi, l’Insorgenza divampa più violenta e disperata che mai, coinvolgendo «masse» enormi d’italiani, dalle valli alpine alle Calabrie.
2. L’INSORGENZA NELLA STORIA ITALIANA
Dopo questa premessa, che mi pareva utile per «collocare» meglio il tema, passo al tema della memoria dell’Insorgenza.
Devo tralasciare per ragioni di tempo due questioni non secondarie, ossia quanto è rimasto dell’Insorgenza e dello spirito che animò i suoi protagonisti, umili e meno umili, nella storia d’Italia e che ruolo ha il retaggio dell’Insorgenza — o meglio la sua assenza — nel determinarsi del senso di appartenenza nazionale degl’italiani.
Riguardo al primo punto, mi limito a osservare che l’Insorgenza in Italia, per cause svariate, che non ho il tempo di approfondire in questa sede, ha di fatto e in ultima analisi perso. Dico questo senza voler assolutamente sminuire il valore e il merito di un’epopea che amo e che ha conosciuto eroismi e sacrifici immani. Sconfitta sul campo — a parte la parentesi del 1799-1800 —, l’Insorgenza italiana subisce la sconfitta peggiore proprio a opera di quelli che sembravano i suoi alleati naturali, ovvero le potenze europee anti-napoleoniche e le classi dirigenti dei principati della Penisola, i quali, dopo il loro trionfo, non danno udienza alle istanze dei popoli insorti contro Napoleone. È una sconfitta dovuta a cause molteplici, ma riconducibile alla frattura culturale creatasi fra la mentalità della parte alta della società, permeata d’illuminismo e di filosofia moderna, e quella tradizionale dei ceti popolari e contadini. Per fare un esempio, il Piemonte fra il 1792 e il 1796 combatte contro la Francia repubblicana una lunga e dura guerra di difesa, che ha come teatro le Alpi occidentali. Ma i generali piemontesi e i loro alleati austro-imperiali non comprendono che la guerra francese è una guerra di tipo nuovo, una guerra rivoluzionaria. La combattono con i metodi e con la mentalità dell’ancien régime e quindi ne escono sconfitti. Il popolo invece si accorge di questa novità che l’invasione francese presenta e scende in campo «a massa» a fianco delle truppe regolari per fermare l’invasione. Una frattura, inoltre, acuita dal fatto che gl’insorgenti non di rado si propongono di andare al di là del puro ripristino dell’ordine politico precedente l’irruzione delle baionette francesi e sognano un ritorno della società a prima delle riforme «illuminate» della seconda metà del Settecento.
Da questo insieme di elementi consegue che l’Insorgenza come tale, dopo l’apparente trionfo dei princìpi e dei prìncipi contro-rivoluzionari, sancita dal Congresso di Vienna del 1815, non trova più spazio, non lascia un’eredità di sé, e apparentemente non ha più influsso sulle vicende italiane.
Ma non si può dire che non esista del tutto un retaggio dell’Insorgenza. Se l’Insorgenza come movimento popolare di resistenza armata scompare, essa assume altre forme. Il suo «spirito» — so di usare un termine che andrebbe meglio precisato, ma penso che m’intendiate — e i suoi valori entrano a far parte del patrimonio ideale di correnti culturali e politiche, che vengono a formarsi e ad agire all’interno del contesto sempre più pluralistico della vita pubblica italiana, in particolare di alcuni settori del movimento cattolico. L’Insorgenza in senso proprio conoscerà, invece, una vampata vecchio stile nel Mezzogiorno con il cosiddetto brigantaggio politico degli anni 1861-1865, che si scatena sì per innesto legittimista, ma soprattutto perché la Rivoluzione italiana torna a mostrare alle popolazioni meridionali il volto brutale, di autentica conquista «coloniale», che ha già svelato nel 1799 e ancora nel 1806-1809, quando da Napoli in giù si svolge una guerra civile tanto sanguinosa e crudele, quanto ignorata.
Questa sconfitta storica e di principio fa sì che una delle istanze implicite dell’Insorgenza, ossia la conservazione dei tratti di «nazione spontanea» che l’Italia aveva assunto nei secoli, vada perduta e si affermi invece una «idea di nazione» di stampo romantico-idealistico. Invece di innestarsi su quanto esisteva per conseguire un progresso autentico, il «movimento nazionale» ha preferito contrapporre al modello pre-unitario, pur con tutti i suoi limiti, un altro modello di società e di Stato, un modello astratto e ideologico, che rompe la continuità con il passato e rinnega le radici culturali della nazione, un modello che evidenzia, oggi come non mai, i suoi limiti. Per usare una metafora, si è confezionato agl’italiani un «abito» istituzionale solo sulla base di alcune misure e non di tutte, o — per usare un’altra immagine, tratta dalla medicina —, si è prescritta una terapia senza un’adeguata anamnesi e senza un seria diagnosi. E proprio dall’avere costruito lo Stato nazionale ignorando la realtà della resistenza popolare, dal non aver tenuto conto del profilo peculiare della nazione italiana, da questa amnesia e amnistia di colpe sulle quali sarebbe stato meglio indagare, è nato il problema, è nata quella che è stata detta la «questione nazionale», che culmina con le presenti difficoltà e con il blocco della rinascita del paese, da più parti invocata. Ma, oltre a questo, ignorare o amputare la memoria espone sempre a un rischio, in quanto non si possono operare scelte avvedute all’interno di una determinata situazione, se non si dispone della «storia» intera di come essa si è venuta a creare. Il possesso della memoria, di tutta la memoria — e questo vale per i singoli, come per i corpi sociali e per le nazioni —, è infatti presupposto essenziale per il retto esercizio della virtù della prudenza. Della prudenza detta «politica» e a, maggior ragione, per la prudenza del politico, dell’uomo politico. Un grande pensatore svizzero del nostro secolo, Gonzague de Reynold, ha scritto: «L’ignoranza del passato falsa la politica», e questo vale per l’ignoranza di fatto quanto, a maggior ragione, per l’ignoranza colpevole.
3. L'INSORGENZA NELLA CULTURA ITALIANA
Passo ora a come l’Insorgenza è stata recepita e ricordata nella cultura italiana. A questo proposito devo ripetere in via di premessa — mi scuso per le numerose premesse, ma il discorso non è facile, e non farle rischia di renderlo inutile — che, pur se in essa è presente tutta una serie di potenzialità favorevoli, la sua storia è storia di una sconfitta. E lo testimonia a fortiori e per diametrum proprio il fatto che essa è stata rimossa dalla memoria nazionale. A parte qualche barlume nel folklore piemontese — che ha conservato il ricordo dei cosiddetti «branda», gl’insorgenti seguaci del maggiore Branda de’ Lucioni — e qualche figura di brigante più o meno autentico rimasta nella letteratura e nelle ballate dei cantastorie, dell’Insorgenza italiana non è rimasta traccia, neppure nei tratti non poco deformati di matrice romantica e nazionalistica, coi quali si è conservata in Spagna, nel Tirolo e in Germania, che lodano la resistenza anti-napoleonica come epopea nazionale o come guerra di liberazione. Dipende dal fatto che la costruzione dello Stato nazionale italiano ha ricalcato pedissequamente il modello «prefettizio» francese e che quindi la Francia andava difesa a oltranza? O forse dal fatto che hanno prevalso in Italia correnti rivoluzionarie più «filo-giacobine»? Non lo sappiamo, ma è lecito, a mio avviso, porsi la domanda.
Sarebbe troppo lungo fare in questa sede una storia della pur magra storiografia sull’Insorgenza. Chi fosse interessato può trovare alcune indicazioni nel saggio che ho premesso alla nuova edizione del volume di Giacomo Lumbroso I moti popolari antifrancesi alla fine del secolo XVIII (1796-1800), pubblicato dall’editore Minchella di Milano nel 1997. In estrema sintesi, osservo che gli storici dell’Italia moderna e contemporanea si sono focalizzati prevalentemente sul processo di innovazione politica e sociale che inizia con il 1796 — ovvero su quella che è stata chiamata la Rivoluzione italiana —, lasciando in secondo piano le altre dimensioni della vita del paese. Se questa scelta si può comprendere, visto che si tratta effettivamente della dominante del periodo, non sembra invece corretto dare di questo processo in tutti i suoi aspetti, come hanno fatto gli storici, un giudizio e una interpretazione pregiudizialmente positivi e necessitanti. Questo atteggiamento ha fatto sì che le resistenze contro la Rivoluzione italiana, invece di essere studiate almeno per illuminare per contrasto l’oggetto principale, siano sempre e solo state giudicate in chiave negativa, come patologia dovuta all’arretratezza, vuoi culturale, vuoi sociale, o, peggio, come prodotto di un non meglio specificato «fanatismo» religioso, che viene poi spesso fatto coincidere con la fede cristiana tout court. È lecito leggere questo atteggiamento come una forma di gelosa custodia di una sorta di mito o di tabù per il timore che qualcuno possa mettere a nudo il limite di fondo del processo di costruzione dello Stato nazionale italiano, ovvero il suo scarso consenso popolare? Non lo so, ma mi sento di avanzare il dubbio, mentre rilevo che questo atteggiamento si manifesta ancora più amplificato nella divulgazione storica e quindi nel processo di formazione culturale del cittadino italiano.
Sempre in estrema sintesi si possono individuare cinque periodi nella storiografia dell’Insorgenza: quello, ancora pieno di passioni, contemporaneo al processo risorgimentale o a ridosso di esso — emblematizzato da storici come Carlo Botta o Pietro Colletta —; a esso segue la lettura più matura e «positivistica», che ne fa l’Italia unita verso la fine del secolo, quando vengono prodotti studi locali di pregio — come quello di Alfonso Lazzari sulla insorgenza di Lugo di Romagna, riedito nel 1996 a cura dell’Istituto, e tuttora testo metodologicamente assai valido — e appaiono volumi di sintesi non del tutto omissivi o deformanti — ho in mente i volumi di Augusto Franchetti e di Carlo Tivaroni; so bene che sono nomi che non dicono più nulla a nessuno: qualcuno magari pensa che il massimo storico italiano sia Indro Montanelli, ma questo prova la mia tesi… —; negli anni da Venti a Quaranta del nostro secolo ancora, la scuola nazionalistica interpreta l’Insorgenza come un movimento popolare che anticipa quello risorgimentale — gli autori principali sono Ettore Rota, Giacomo Lumbroso e, per il Mezzogiorno, Niccolò Rodolico —; infine, negli anni Sessanta e successivi appaiono alcuni studi italiani di orientamento filo-«giacobino» — di cui quelli di Carlo Zaghi sono un ottimo esempio — e alcuni lavori francesi — i libri di Jacques Godechot e di Maurice Vaussard —; negli anni Ottanta si arriva infine agli esordi della scuola detta dagli avversari «revisionistica», costituita da studiosi che si applicano alla materia senza lenti ideologiche deformanti, con le significative e pionieristiche opere di Jean Dumont e di Reynald Secher in Francia, e di Francesco Mario Àgnoli in Italia. Per inciso, quando parlo di storiografia o di «scuole», si badi bene, non intendo dire che vi sia stata una struttura che abbia fatto sistematicamente oggetto del proprio interesse l’Insorgenza. Al contrario: si tratta quasi sempre di studiosi e di contributi isolati, in quanto la cultura «ufficiale» o «egemone», ossia la cultura dei vincitori di allora e dei loro eredi intellettuali di ieri e di oggi, anche nei momenti di minore distanza fra gli storici e il potere — come durante il fascismo —, ha sempre avuto un atteggiamento fortemente negativo verso l’Insorgenza.
Semplificando, i Leitmotiv dell’atteggiamento della cultura egemone verso l’Insorgenza si possono ridurre sostanzialmente a tre, che sembrano venire attivati alternativamente.
Primo, dell’Insorgenza si preferisce non parlare affatto; secondo, la si studia solo nella misura in cui ciò è necessario al fine di «ridurne» la portata e il significato; infine, se ne parla anche, ma solo per diffamarla.
Non se vuole parlare — e si cerca di zittire o di «silenziare» chi intende farlo — perché l’Insorgenza è una pietra d’inciampo per la cultura egemone, in quanto mette in crisi la logica progressista, unilineare, deterministico-dialettica con cui si vuole leggere la storia italiana e, in particolare, e perché, come già detto, ridicolizza il mito del consenso e della partecipazione popolari al Risorgimento. L’Insorgenza rivela invece che c’è stato chi si è opposto al processo di costruzione di un’Italia secolarizzata e senza radici, e non sono stati quattro intellettuali, ma si è trattato del maggior movimento di massa dell’Italia moderna e contemporanea.
Questo «silenziatore» applicato all’Insorgenza si traduce nella mancata indagine sistematica delle fonti e in una insufficiente elaborazione storiografica. E di questo sono colpevoli tanto le università, sia «laiche» che cattoliche, quanto le deputazioni di storia patria e gli altri istituti che avrebbero la missione di custodire e incrementare la memoria storica degl’italiani. Non solo: chi vuole fare storia dell’Insorgenza — ma anche dell’età napoleonica tout court, per verità — oggi si trova a disagio, perché gli mancano i necessari «utensili» del lavoro dello storico: i dizionari storici, le biografie, le bibliografie, le pubblicazioni di fonti. Anche sul piano della divulgazione, letteraria e giornalistica vale con pochissime eccezioni lo stesso discorso. Eppure le fonti per scrivere la storia dell’Insorgenza, pur con i limiti intrinseci a questo periodo storico, abbondano: vi sono cronache, diari, documenti, studi particolari; si può dire che ogni giorno se ne scopre uno.
La tattica che potremmo definire «riduzionista» si esprime di norma attraverso la pubblicazione di lavori che danno un’interpretazione parziale dell’Insorgenza e riducono il fenomeno nello spazio e nel tempo. L’Insorgenza diventa così un fenomeno ristretto al Triennio Giacobino 1796-1799, e solo italiano, magari solo del Mezzogiorno sanfedista. Oppure la si riduce nelle cause, facendone una pura macchinazione nobiliare e clericale o un mero moto contadino locale, causato dall’atteggiamento predatorio dei francesi. La gamma delle scelte è ampia: si può ridurre l’Insorgenza a banditismo e a brigantaggio oppure, anche, trasformarla semplicemente nella longa manus delle potenze conservatrici. Non che l’Insorgenza non possa avere queste cause: nessuna però la esaurisce da sola. Un altro metodo ancora è quello di ridurne le dimensioni quantitative — i partecipanti, le vittime, i danni materiali — e la portata storica, rendendola priva di peso nella storia nazionale: si tratterebbe di un «incidente di percorso» o di una mera «parentesi».
L’ultimo Leitmotiv è l’aggressione diffamatoria, che punta in sostanza all’inquinamento delle motivazioni dell’Insorgenza. Per chi possiede il controllo dei mass media non è difficile, quando non si può tacere dell’Insorgenza e dei suoi corollari storici — soprattutto durante questo bicentenario che volge ormai al termine —, difendersi mistificando la realtà dei suoi fatti, dei suoi protagonisti e degli studiosi non allineati. L’Insorgenza viene ridotta così di norma a strage, a pogrom anti-semita, a massacro di «patrioti» o di creature inermi, oppure diventa una cospirazione di reazionari e di fanatici da Inquisizione. Gl’insorgenti, come al tempo dei repubblicani francesi e di Napoleone, sono tutti «brigand», banditi, e gli storici, infine, che se ne occupano senza le lenti deformanti della mitologia progressista, sono dei «revisionisti», in attesa di diventare — forse — dei «negazionisti» e quindi potenzialmente passibili d’indagine giudiziaria.
Sull’Insorgenza si possono poi costruire sfrontati falsi storici, di cui è maestra insuperata la scrittrice vetero-femminista Maria Antonietta Macciocchi, la quale è stata capace di fondare addirittura un’associazione femminista internazionale su una pura e colossale fandonia, come quella del presunto massacro sanfedista di Altamura, diffusa però dalle colonne del maggiore quotidiano italiano.
4. DELL’INSORGENZA OGGI SI PUO' PARLARE
Ma il dato confortante è che oggi, grazie alla relativa eco avuta dal bicentenario dell’Insorgenza del Triennio Giacobino e a studi recenti, che impongono quanto meno una maggiore attenzione al fenomeno, se non una revisione dei giudizi storici, bene o male si è tornati a parlare dell’Insorgenza. Non che sia l’argomento principale dei telegiornali della sera e nemmeno un coro, ma, rispetto al silenzio assoluto di prima, l’effetto è pari a quello di un cerino acceso nel buio, ovvero la differenza fra la notte e il giorno. Se ne parla magari per autentica «riscoperta» culturale, come fa Francesco Alberoni sul supplemento illustrato del Corriere della Sera, oppure per interesse e con equilibrio, come nel caso de Il Foglio, de La Civiltà Cattolica e, tutto sommato, anche di Paolo Mieli, a più riprese, su La Stampa, oppure se ne parla in un rigurgito diffamatorio, come fa a più riprese Maria Antonietta Macciocchi sul Corriere della Sera, o se ne mette in guardia forse per paura, come fa lo stizzito Mario Pirani su la Repubblica.
5. CHE COSA HA SIGNIFICATO IL BICENTENARIO?
Se il bicentenario, con un’autentica fioritura di celebrazioni e di commemorazioni — originate, occorre ammetterlo, da motivi spesso disparati, che vanno dal campanilismo, alla riscoperta di un fatto spesso doloroso o di un personaggio eroico, all’autentico amore per la propria «piccola patria» — ha avuto il pregio di fare riparlare del «caso» dell’Insorgenza, di riportare alla luce un reperto e di fare riaffiorare le memorie locali, il limite di questa fioritura sta nel fatto che vi sono state molte rievocazioni, ma tutto sommato pochi studi. A uno sguardo d’insieme è curioso notare come queste rievocazioni, giunte ormai al quarto anno del ciclo, abbiano ricalcato più o meno fedelmente lo stesso schema dell’Insorgenza: sono state numerose, frammentarie, non coordinate, limitate alla singola città o paese o episodio. Fatalità inevitabile? Mancanza di mezzi? È difficile dirlo. Certo, questa ondata di eventi così dispersi è stata oggettivamente meno efficace, nella prospettiva — che io auspico e che, credo, tutti auspichiamo — di fare uscire l’Insorgenza dalla sua condizione di minorità e di renderle il posto che le spetta nella storia italiana.
6. LA MISSIONE DI UN ISTITUTO PER LA STORIA DELLE INSORGENZE
L’Istituto per la Storia delle Insorgenze si è costituito soprattutto nella prospettiva e nell’imminenza del bicentenario. Mi permetto di soffermarmi qualche istante sulla realtà che qui rappresento, non per farne pubblicità, ma perché mi sembra del tutto importante ribadire alcuni princìpi di azione, che ritengo essenziali per riconquistare la memoria dell’Insorgenza e per orientare bene questo ricupero. La missione dell’ISIN era ed è di studiare l’Insorgenza e di tentare di raccoglierne nella misura più ampia possibile la memoria.
L’ISIN intende in primo luogo studiare con metodologia attuale e in una prospettiva interdisciplinare, l’Insorgenza, non per fare dell’accademia, ma per contribuire a salvaguardare la memoria e i valori degl’insorgenti e per dare un contributo, anche se minimo, alla soluzione del problema della identità nazionale.
Ma, oltre a tentare di fare da trait d’union fra le diverse realtà attente al tema, l’ISIN vuole divulgare la conoscenza dell’Insorgenza. Per questo ha finora organizzato tre convegni nazionali di studio e ha partecipato con propri esponenti e proprie relazioni a numerosi convegni, conferenze e incontri presso centri culturali, scuole, parrocchie. Ha curato la pubblicazione di quattro volumi e sta costituendo una biblioteca e un centro di documentazione. Ha fatto esperienze di consulenza a pubblicisti e di sostegno a studenti e a ricercatori universitari. Sempre nella prospettiva della divulgazione e del raccordo, l’ISIN pubblica un bollettino periodico e ha allestito un proprio sito Internet. Proprio per cercare di ovviare alla mancanza di dati e di fatti relativi all’Insorgenza, nel 1998-1999 ha svolto una ricerca sul campo, volta a reperire e inventariare i materiali a stampa esistenti in Lombardia, di cui ha pubblicato i risultati nel volume Guida Bibliografica dell’Insorgenza in Lombardia (1796-1814). La ricerca continuerà anche nel 1999-2000 rivolgendosi agli archivi di documenti.
7. IL FUTURO
Vengo a conclusione di questo intervento, cercando di riflettere su che cosa ci aspetti e che cosa ci sia richiesto di fare nei giorni e negli anni a venire.
Innanzitutto sono persuaso che le tre modalità di «trattare» l’Insorgenza descritte sopra continueranno a operare e, anzi, si intensificheranno. Assisteremo probabilmente a un mix di silenzi e di reticenze, di rinnovati attacchi alla memoria e agli storici dell’Insorgenza, vedremo pubblicati contributi — magari anche di valore tecnico —, che mireranno a ridimensionarne l’importanza e a inquinarne i moventi, magari associandola a qualche tabù ideologico. Forse il fronte degli «antipatizzanti» sarà meno monolitico e magari assisteremo a qualche «dissociazione» o «pentimento» anche di rilievo, forse qualche professore darà qualche tesi su argomenti attinenti all’Insorgenza, ma la sostanza non cambierà.
Per parte nostra — ma credo sia lecito proporre le stesse mete anche ad altri e a voi tutti — cercheremo di impedire che torni il silenzio, continuando a parlare dell’Insorgenza opportune et importune, così come continueremo a studiarla — tentando di fare breccia nel mondo accademico — e a fare ricerca, a commemorarla e a lasciare segni della sua esistenza. Cercheremo pure di coordinare gli sforzi con le altre realtà, sia come informazione che come studi in atto o in programma.
A quest’ultimo riguardo, vi informo che per il prossimo 18 dicembre a Milano è stato organizzato un convegno di testimonianze, di memoria e di suffragio per i caduti dell’insorgenza italiana, cui interverranno sei esponenti di comitati e studiosi, che si concluderà con una santa Messa.
Poi, a Dio piacendo, ci ritroveremo ancora per commemorare il bicentenario della seconda, grande Insorgenza italiana, negli anni fra il 2005 e il 2009.