a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale
Oscar Sanguinetti
UN FRAMMENTO DI VITA MILANESE DEL 1799
All’inizio del 1799 la Repubblica Francese, nata solo sette prima, occupava ormai da diversi anni e in diverse forme la Penisola italiana. Quattro anni dopo il primo «morso» al territorio sabaudo al di qua delle Alpi, ossia alle terre dell’estrema Riviera di Ponente, nel 1796, le armate rivoluzionarie guidate dal giovane generale di artiglieria Napoleone Bonaparte, erano dilagate in tutta l’Italia settentrionale conquistando via via attraverso prestigiose vittorie militari e accorti trattati diplomatici l’intero Regno sabaudo di terraferma, lo Stato Milanese, il territorio delle antiche Repubbliche di Venezia e di Genova, i ducati padani, le Legazioni Pontificie emiliano-romagnole, la Toscana granducale, gli Stati del Papa Pio VI, infine, erano penetrate in profondità nel Regno di Napoli, conquistandone la capitale.
Le potenze italiane ed europee nemiche della Francia avevano sottovalutato la potenza militare e la forza delle idee rivoluzionarie — come motore della resistenza prima e dell’espansione poi — dello Stato francese ed erano dovute addivenire a paci umilianti che sul fronte italiano ebbero nome di Cherasco nel 1796, di Campoformio e di Tolentino l’anno seguente, di Sparanise nel 1799 stesso.
Ma, in questo 1799 si verificano due eventi che, mentre le armate avanzano sempre più lungo la Penisola passando di successo in successo, anche contro forze nominalmente superiori, giocano a sfavore della Francia: Napoleone Bonaparte (1769-1821), per dissidi con il Direttorio parigino, non è più alla testa dell’Armée d’Italie, anzi è lontano, in Egitto, sull’altra sponda del Mediterraneo controllato dalla Marina britannica; le popolazioni italiane sono ovunque in fermento per aver subito ormai da oltre tre anni un «trattamento» — tradottosi in un vasto e radicale sconvolgimento politico, religioso e finanziario — mai provato prima di allora.
Così, gli eserciti — profondamente riorganizzati dopo il 1798 e guidati quell’autentico genio militare che era l’anziano feldmaresciallo Aleksandr Vasil’evič Suvorov (1729-1800) — che la nuova coalizione europea che si forma contro la Francia rivoluzionaria — Impero asburgico, Russia, Inghilterra e Turchia — può mettere in campo nei primi mesi del 1799 riescono a sfondare il fronte dell’Adige — nuovo confine fra Impero e Repubblica Cisalpina dopo Campoformio — e in poche settimane, il 23 e 24 aprile, ad attestarsi sull’Adda, l’antico confine fra Lombardia e Repubblica veneta.
Qui, nei pressi di Cassano, fra il 26 e il 28 aprile, le truppe russo-imperiali infliggono ai francesi una grave sconfitta — settemila francesi morti o feriti — che, coniugata con la generale insurrezione dei popoli italiani dalle Alpi alle Calabrie, farà mutare il quadro strategico dell’intero teatro italiano per quasi un anno e mezzo, fino alla nuova vittoria dei francesi guidati nuovamente da Bonaparte a Marengo nel giugno 1800: nell’autunno 1799, con l’eccezione di Genova assediata, infatti, i francesi saranno stati ricacciati dall’intero territorio italiano.
La ritirata delle truppe francesi del fronte settentrionale ha inizio immediatamente all’indomani dello scontro di Cassano. Dai documenti sappiamo che mentre le prime avanguardie asburgiche fanno incursione in Milano, nella prima mattina del 28 aprile, la parte occidentale della città è ancora ingombra di carriaggi e salmerie francesi che si dirigono in tutta fretta verso il Ticino.
Ma la ritirata non avviene in forma indolore per i poveri milanesi. I reparti francesi, infatti, prima di lasciare il Milanese non esitano a ripetere le poco gloriose gesta con le quali avevano fatto la propria comparsa nelle terre lombarde tre anni prima, spogliando a più non posso le ormai esauste popolazioni agricole delle loro ultime ed esigue risorse.
* * *
Di uno di questi episodi ci è rimasta una testimonianza originale, affiorata quasi per caso dal carteggio ufficiale degli Arcivescovi Milanesi (cart. 203), conservato negli archivi della curia milanese. Si tratta di una supplica senza data indirizzata all’arcivescovo milanese mons. Filippo Visconti (1783-1801) da parte di un affittuario di Cà Nove di Villa Larda — nella periferia orientale di Milano, coincidente con l’attuale e celebre per altri motivi via Corelli — per ottenere intercessione — le terre erano di proprietà del Seminario milanese — al fine di ottenere un «qualche bonifico» che lo indennizzasse almeno in parte dei furti subiti nella propria casa nella notte fra il 27 e il 28 aprile per colpa dei reparti francesi in ritirata che lo avevano lasciato praticamente privo di tutto.
Il documento — controfirmato da «Giacomo Viganò, sostituto dal Deputato all’Estimo Ant.o Dondi» e da «Jo. Ba. Antonio M.a Mantovani Parroco di Monluè», il quale attesta «esser stato derubato il sud.o Fittabile Dolara», e, infine, da «Carlo Scarpa Sostituto Del Ven.do Seminario deputato all’Estimo» — consta di due parti, una redatta probabilmente da un funzionario della curia, l’altra di suo pugno — la scrittura coincide con quella della firma in calce — dal danneggiato, il prete Angelo Maria Dolara.
I francesi avevano in effetti spogliato di tutto il povero don Dolara, arrivando a rubare — come si evince dall’accuratissima e dettagliatissima «Nota de’ Mobili ed altro derubati a Villa Larda dall’Armata Francese nella sua rittirata fatta alla notte di sabbato 27 Aprile 1799 fino alle dieci ore Italiane della Domenica 28 detto mese ed anno inseguita dalle Truppe Austriache» — persino «tutto il Salame e luganega proveniente da due animali lire 300», «un catino grande di ottone lire 4.10», «una marmitta di stagno di Fiandra lire 12», «una padella grande per far friggere lire 15», «para nõ 7. calzoni lire 105», «nõ 12 patelli e patte di tela lire 18.15», «camicie da filio di d’un anno e mezzo nõ 4 lire 6», ecc. .
Quello che colpisce, oltre a questi dettagli, è l’ammontare complessivo, 4.777 lire e 13 soldi, del furto avvenuto nel cuore della notte — le ore «italiane» si contavano dal vespero, ossia dalle diciotto, sì che le dieci corrispondevano alle 4 del mattino — ai danni del povero prete Dolara: si tenga conto che il beneficio annuale di una parrocchia — ossia quello con cui un parroco si sostentava — ammontava allora in media a non più di trecento lire milanesi.
Davanti a questo episodio, è davvero così eccessivo e polemico dire che i francesi di Bonaparte rubavano agl’italiani anche le mutande? Si sarà trattato di un episodio sporadico oppure del trattamento «standard» riservato agl’italiani da poco «liberati» nell’imminenza del loro pur temporaneo — ma allora non lo si sapeva — ritorno alla «barbarie» monarchica? O forse saranno particolarmente famelici perché si trattava di un prete? Riguardo a quei mesi e al frangente specifico della ritirata francese dal fronte dell’Adda non abbiamo finora documenti che ci consentano di rispondere. Certo, la vicenda del prete Dolara farebbe propendere per la seconda ipotesi.
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In ogni modo si tratta di una testimonianza che conferma come l’occupazione dei francesi rivoluzionari in Italia ― ma anche altrove ― abbia «toccato» le popolazioni italiane, pur abituate alle dominazioni forestiere, con una profondità mai sperimentata prima. Le manifestazioni di empietà dei soldati francesi, le pesanti e indiscriminate spoliazioni imposte dai generali e dai commissari politici, l’abbattimento manu militari di forme politiche e d’istituzioni plurisecolari voluto da Bonaparte inaugurano un modo di fare la guerra con il quale cadono gli ultimi residui di quella moralità della guerra affermatasi nel Medioevo. Ciò trova riscontro in un altro caso. Nel gennaio 1799, al momento del loro primo scontro con i francesi che invadono il Regno borbonico i «lazzari» napoletani, il «popolaccio» dei quartieri poveri, combattono, non solo con grande valore, ma anche con scrupolosa lealtà. Al momento della vittoria sanfedista nel giugno successivo, invece, si lasciano andare a violenze e ad efferatezze contro i giacobini vinti che solo nel gennaio precedente sarebbero state impensabili. E la spiegazione di questo comportamento va ritrovata nell’imbarbarimento della lotta politica e della lotta armata, in quella tragica «caduta di stile» introdotta dalla guerra rivoluzionaria. Quando il popolo assiste agli eccessi dell’ideologia e alle spietate repressioni della giacobina Repubblica Napoletana ed è soggetto al tradimento e al venir meno dei propri capi «naturali», anche per i migliori combattenti anti-napoleonici la tentazione di seguire le vie brevi e dar corso alla vendetta è più forte che mai. In questa linea interpretativa ― cui posso qui solo accennare ― non deve destare meraviglia se i soldati imperiali, soprattutto i loro temporanei alleati cosacchi, subito dopo il loro ritorno nel Milanese, quando θ ancora vivo il ricordo del «trattamento» francese ― come al povero prete Dolara ― dal dominatore rivoluzionario, si sentano autorizzati a infliggere ai poveri lombardi un trattamento analogo ― anche se non identico, perchι mancherà del tutto l’elemento «legale» e «pianificato» ―, magari con il pretesto anche qui di punire i «giacobini». Ma in Lombardia nei fatidici «tredici mesi» della prima Restaurazione non vi saranno rivolte popolari come contro i francesi: le ruberie dei cosacchi e le forti imposte di guerra del restaurato Impero saranno sopportati come lo scotto da pagare per il sospirato ritorno all’ordine antico.
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