1. Il Novecento, secolo del comunismo e secolo di Fátima
Il secolo che si è da poco concluso — e che secondo alcuni risultava esaurito come
kairos, cioè in termini «qualitativi», dal punto di vista delle cose da dire, già ben prima del 31 dicembre del 2000 (
1) —, il Novecento, ha conosciuto, come un po’ tutti i periodi in cui si è snodata la vicenda dell’umanità, giorni dolorosi e giorni di gioia, momenti di luce e periodi di buio profondo. Quello che però sembra marcare in maniera unica la fisionomia di questi cento anni, che pare determinarne la «qualità» e il «sapore», è una straordinaria — in senso letterale — dilatazione del male storico, che ha raggiunto una misura tale da alterare, se così ci si può esprimere, il «normale» equilibrio fra bene e male che connota
post peccatum, il mondo.
Proporsi di quantificare anche approssimativamente le dimensioni di questa «anomalia» — di cui ci si può accorgere semplicemente sfogliando un numero di fine anno di un qualsiasi rotocalco — significa fare un bilancio, e alcuni lo hanno già tentato (2), tutt’altro che facile. Il mondo del Novecento è infatti molto più articolato e complesso rispetto a quello dei secoli precedenti e si presenta pressoché inestricabile visto il numero dei soggetti, che, con diverso ruolo, interagiscono fra loro: un mondo che la deriva della modernità «post moderna» avvicina sempre più a quel «mondo in frantumi» di cui parla Aleksandr Isaevič Solženycin (3). E lo è a un punto tale che la strumentazione storica e politologica «normale» sembra essere insufficiente sia a descriverlo, sia a valutare il senso e gli effetti dei fenomeni — inediti almeno nelle forme — che lo caratterizzano: i totalitarismi, le prevaricazioni nazionalistiche, le rivoluzioni, i conflitti religiosi, le stragi etniche e i genocidi, le guerre civili, la soppressione su larga scala della vita innocente. Per fare un esempio, per spiegare come il socialismo, che sembrerebbe da rubricare sotto il segno della giustizia sociale, abbia potuto produrre, nei circa settant’anni del suo dominio mondiale, alcune decine di milioni di morti, soprattutto povera gente, al netto, delle guerre in cui furono implicati l’URSS e gli altri regimi comunisti (4), le categorie consuete non bastano più .
Dietro le quinte del ventesimo secolo si avverte qualcosa di diverso, una presenza diffusa di realtà impalpabili, che vanno al di là di quanto i sensi possono cogliere e la ragione riesce a comprendere: certi abissi di male, certi livelli di crudeltà attinti dall’uomo nel secolo passato possono essere raggiunti solo per impulso di forze per le quali il male non è più un mezzo — la maggioranza degli uomini compie quasi sempre il male in vista di un presunto «bene», proprio o altrui —, ma diventa un fine in sé stesso.
Si può dunque cercare di capire il Novecento solo se ci si strappa dal piano della cronaca — che comunque non va trascurato — e se ci si colloca in una posizione di osservazione più elevata, che consenta di scoprire nella massa e nel flusso ininterrotto degli eventi la loro dimensione più profonda e più apportatrice di significati.
In questa prospettiva, un raggio di luce intensa e penetrante, che quasi abbacina, viene dal ciclo di rivelazioni mariane iniziato a Fátima, in Portogallo, nel 1917. Particolarmente efficace ai fini esplicativi — al livello, potremmo dire, delle ipotesi di lavoro — si presenta lo schema teologico, che potremmo definire di «peccato-castigo-penitenza», sotteso alle tre principali rivelazioni — i cosiddetti «tre segreti»: l’inferno individuale, l’«inferno», ossia il castigo, delle nazioni e l’apocalittico calvario dei credenti e del Papa nel corso del ventesimo secolo (5) —, che la Madonna propone ai tre fanciulli portoghesi.
Lo scatenarsi inaudito del male nel mondo dopo il 1917 sarebbe dunque la conseguenza della Rivoluzione comunista, autentica «dorsale» e dominante del secolo (6). Nella lettura di Fátima il comunismo figura in veste di castigo celeste per l’apostasia individuale e per quella delle nazioni, un castigo che però può essere ridotto e abbreviato attraverso la conversione e la penitenza e alcune devozioni particolari, come quella al Cuore Immacolato della Vergine Maria.
Ma lo schema di Fátima è del tutto penetrante se lo si applica all’evento forse più enigmatico del Novecento: l’epilogo del «castigo temporale», ovvero l’implosione e la repentina dissoluzione del sistema imperiale social-comunista che ha luogo fra il 1989 e il 1991. Rimane davvero difficile spiegare come un tale monstrum, un così immenso conglomerato di poteri e di apparati politici e militari, un apparente amalgama di decine di culture e di nazionalità, sia potuto venir meno in così breve tempo e in maniera così «morbida», senza ipotizzare, nella logica di Fátima, che una qualche forma di espiazione, attraverso l’ottemperanza, almeno parziale, alle richieste celesti, sia avvenuta.
Nello scenario dipinto a Fátima trova collocazione e senso anche il martirio d’innumerevoli cristiani avvenuto nel corso del secolo: mai la Chiesa ha conosciuto una stagione di martirio come quella del Novecento, neppure ai tempi delle persecuzioni dell’Impero romano o davanti all’avanzata in armi dell’islam. Solo di pochi si conosce il nome, di ancor meno il martirologio. L’iniziativa avviata dalla Chiesa cattolica per numerarli, per ricuperarne la memoria e per celebrarli sta facendo emergere a poco a poco dal buio migliaia di volti di credenti uccisi in odium fidei, ma è solo agl’inizi. Se questo gigantesco cumulo di sofferenze può aver contribuito senz’altro anch’esso ad abbreviare l’«inferno storico» delle nazioni, resta pur vero che esso va ad accrescere enormemente l’entità del male storico compiuto nel secolo (7).
Sempre nell’ordine delle categorie interpretative utili a comprendere il Novecento, spostandosi dal soprannaturale alle diagnosi e prognosi umane — evito volutamente il termine «profezia» —, vanno segnalate anche quelle della scuola cattolica contro-rivoluzionaria, le cui conclusioni sul piano della filosofia e della teologia della storia hanno avuto finora puntuale conferma nel tempo. L’espressione più compiuta e recente di questa scuola è il pensatore brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), le cui intuizioni in questi campi costituiscono altrettanti strumenti preziosi, sia per capire le linee di sviluppo, le luci e le ombre, della civiltà moderna, sia per intervenire al suo interno al fine di salvaguardarne il «cuore», ancora cristiano. De Oliveira ha tradotto la sua dottrina in schemi racchiusi in formule semplici ed efficaci, quasi catechetiche, ma soprattutto ha elaborato «prognosi» degli eventi, elementi tutti trasfusi già a partire dagli anni 1950 nel volume Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, (8), arricchitosi ulteriormente nella sua terza edizione italiana nel 1977 (9).
2. La Shoah
Nel corso del XX secolo, una vicenda emerge su tutte per la sua straordinaria e tragica grandezza, per la sua novità e per gl’interrogativi che suscita. La sua storia s’intreccia strettamente con quella dei fenomeni ideologici e storici che segnano il secolo e ne costituisce in un certo senso la quintessenza, contribuendo a formare una parte preponderante, se non la maggiore in termini quantitativi — ovvero come conta delle vittime —, dell’abisso di male che accompagna il Novecento: quel progetto di sterminio di un popolo consumatosi in Europa fra il 1939 e il 1945, ormai assunto a tipo, che è stato chiamato «la distruzione degli ebrei d’Europa» (10) oppure Shoah», «la catastrofe» per antonomasia o, ancora, «Olocausto» tout court.
Le riflessioni che seguono non pretendono di esaurire in alcun modo una questione così complessa, soprattutto sotto il profilo delle problematiche che essa presenta, le quali investono pressoché tutti gli àmbiti della storia del mondo contemporaneo. Se si guarda alla letteratura e alla documentazione di ogni tipo oggi disponibile — e che è in via d’ininterrotto arricchimento: delle vittime del nazionalsocialismo, a differenza di quelle inghiottite dall’«arcipelago» concentrazionario comunista, almeno non manca la memoria —, i contorni del dramma che ne emerge appaiono imponenti.
L’estensione eccezionale del fenomeno e la difficoltà a dominarne l’esuberante letteratura storica — che non va sempre di pari passo con l’abbondanza della documentazione — impongono dei limiti severi a ogni sforzo di ricostruzione storica e, a maggior ragione, al presente saggio. Un accostamento comparativo alla Shoah, che pochi hanno tentato, dovrebbe anch’esso far necessariamente parte di ogni sforzo di comprensione. Ma non vi è modo per mettere a confronto — come pure lecito, anzi necessario, secondo gli studiosi più seri (11) — la distruzione di milioni d’individui di stirpe mosaica con analoghe tragedie consumatesi nel corso del Novecento. Per esempio con il primo genocidio del Novecento — o quanto meno con lo sterminio: sull’uso del termine è tuttora in corso un aspro dibattito, non solo culturale (12) —, quello degli armeni turchi nel 1914-1915 (13), o con i milioni di uomini e donne uccisi dalle ripetute carestie causate artificialmente nell’URSS degli anni 1930, dai GuLag, dalle foibe e dai plotoni di esecuzione rossi (14), oppure, ancora e in specifico, con il genocidio comunista del popolo cambogiano, consumatosi dopo l’abbandono statunitense dell’Indocina nel 1975, tragedia, quest’ultima, che, con approssimativamente due milioni di morti su una popolazione totale di circa sei milioni, può percentualmente ambire al primo posto in una ideale e tragica «classifica» degli stermini novecenteschi (15).
Quello della Shoah, ancora, è un tema assai delicato per più di un motivo, non ultimo per il fatto che la sua oggettiva e incredibile drammaticità, e la sua relativa prossimità nel tempo rispetto a noi, fanno sì che continui a coagularvisi intorno un’intensa emotività da parte di coloro che ne furono le vittime innocenti, direttamente — alcuni di essi sono fra l’altro ancora viventi — o nella persona dei genitori, dei fratelli e dei congiunti e amici. ed è un genere di emotività che non si limita alle vittime, ma innerva la nazione ebraica nella sua totalità, la quale resta segnata per sempre dalla enorme ingiustizia subìta (16).
Né peraltro si può negare che questo dramma venga spesso «giocato» in chiave politica da diverse parti, per lo più come deterrente, non tanto contro una poco probabile rinascita del razzismo nazionalsocialista, quanto contro i propri avversari. Così lo Stato d’Israele, quanto meno a partire dal processo contro il gerarca nazionalsocialista Karl Adolf Eichmann (1906-1962) nel 1961 (17), ne ha fatto una parte non secondaria del proprio scudo strategico. Così le sinistre evocano a comando l’Olocausto contro l’anti-comunismo e, in generale, contro le prospettive politiche classificate come «di destra» o non allineate (18). Così alcuni ambienti ebraici ne fanno uso nel contesto dei rapporti interreligiosi, soprattutto verso i cattolici, al cui tradizionale anti-giudaismo religioso rimproverano di aver «preparato» culturalmente l’anti-semitismo hitleriano, se non addirittura di aver avuto parte nello sterminio del 1941-1945, avvenuto in effetti nel cuore dell’Europa cristiana, a opera di forze e di popolazioni che, lo si voglia o no, nella loro stragrande maggioranza erano composte di battezzati.
Entrambi questi elementi «meta-storici» — l’emotività e la strumentalizzazione politica —, pur comprensibili, giocano di fatto un ruolo negativo sul piano scientifico, rendendo più difficile l’accertamento sereno e scevro da pregiudizi dei fatti e delle responsabilità storiche. Da un verso, perché si tramutano sovente in una frenetico e incalzante apologetica, scandita da un ininiterrotto martellamento di libri, documenti, memorie, film (19), che aggiunge meno alla conoscenza della realtà, di quanto non faccia rumore. Ed ha l’effetto d’innervosire gl’interlocutori meglio intenzionati, costringendoli a tenersi permanentemente sulla difensiva (20) e a investire risorse in frettolose contro-apologetiche, invece che devolverle a studi di qualità e di adeguato respiro.
Sotto un altro aspetto, perché questo atteggiamento «militante», costantemente in armi, si traduce in una diffidenza preconcetta e tenace, che talora si fa ostilità aperta, verso gli studi, anche di autori che vantano tutti i titoli per essere accolti, i quali propongono vedute originali e innovative, o semplicemente consentono di delineare meglio i contorni e la tragica grandezza della «catastrofe» ebraica, facendola uscire al
3. Alcuni studi aiutano a chiarire la questione
Poste queste difficoltà «strutturali», se si vuol cercare di mettere a fuoco questo «nodo», un po’ l’emblema, il «cuore di tenebra» (21), del XX secolo, occorre invece uscire dagli schemi consueti e far proprio tesoro di quanto di nuovo si viene presentando. Già il crollo dell’impero socialcomunista dopo il 1991 ha reso disponibile una mole ingente di documentazione prima inaccessibile. Quindi, nella misura in cui un numero sempre più grande di archivi civili e militari, religiosi e dei servizi segreti, viene de-secretato, i nuovi documenti si sono moltiplicati. I nuovi elementi fattuali che ne emergono impongono inevitabilmnte ipotesi interpretative nuove, che non vanno soffocate perché si rivelano «eterodosse» secondo un certo angolo visuale, ma valutate con cura e, se vere — tenendo conto che la verità della storia è sempre provvisoria —, occorre abbracciarle e costruire partendo da esse, nella prospettiva di raggiungere ulteriori traguardi di conoscenza.
Alcuni lavori storici, apparsi fra il 1998 e oggi, in anni dunque ancora recenti, si situano in quest’àmbito e vanno segnalati, sia perché forniscono nuovi e importanti elementi di comprensione, scaturiti da non occasionali ricerche di archivio, sia perché, a conferma di quella diffidenza cui accennavo, non sembra abbiano avuto il giusto rilievo.
Si tratta di contributi che si sforzano tutti di dare risposta a uno dei quesiti in cui si scompone il quesito centrale relativo all’Olocausto — come è potuto accadere? —: qual è statol’atteggiamento tenuto dai contemporanei nei confronti dello sterminio degli ebrei europei, e, più in particolare, un diverso atteggiamento dei potenti di allora — governi, uomini politici, capi religiosi, organizzazioni di soccorso — avrebbe potuto impedire la tragedia o almeno ridurre le proporzioni della «catastrofe»?
Come si vede, si tratta di una domanda certo seconda, ma non secondaria, dalla cui risposta dipendono, se non la sorte delle vittime, ormai purtroppo consumatasi, almeno la ricerca e la valutazione di una parte delle responsabilità o delle corresponsabilità storiche di quanto è accaduto, non per punire eventuali colpe, ma per amore di verità e per trarne lezione per il futuro.
Questi studi collimano fra loro — anche se in maniera tutt’altro che preordinata — nell’evidenziare i limiti di una montante e insidiosa «deriva» interpretativa, secondo la quale, di tutti i «giocatori» della drammatica «partita» che si è disputata negli anni del secondo conflitto mondiale intorno agli ebrei europei, gli unici a dover finire sul banco degli imputati come correi del misfatto nazionalsocialista sarebbero un pontefice dall’altissima statura spirituale come Eugenio Pacelli (1876-1958), che i cattolici potrebbero vedere fra non molto sugli altari, e, dietro di lui, la Chiesa di Roma.
Due sono le principali accuse rivolte più o meno velatamente contro Pio XII da alcuni storici e intellettuali odierni: la prima, di aver taciuto di fronte al massacro di coloro che Giovanni Paolo II avrebbe chiamato poco più di quarant’anni dopo «i nostri fratelli maggiori» (22); l’altra di aver ereditato ed essersi fatto continuatore, anche se in toni attenuati, del «pre-giudizio» cattolico anti-giudaico (23), sedimentato nei secoli nella cultura cristiana e anacronisticamente «indossato» ancora da un papa del Novecento come lui. Tale presunto pregiudizio, divenuto un elemento strutturale della mentalità cattolica, un fattore «ambientale», avrebbe fornito le premesse morali del comportamento inerte o addirittura connivente tenuto dalle popolazioni europee, in Germania e nei paesi da essa occupati, nei confronti del genocidio ebraico (24).
4. Una premessa
Per intendere la portata del problema che ho evocato e il significato degli studi su cui mi soffermo occorre in primis, cercare d’inquadrare la tragica realtà degli anni che hanno preceduto e visto lo svolgimento della Shoah (25).
A. Il nazionalsocialismo
Come prima cosa e in via generale va ricordata la novità costituita dal totalitarismo eretto e guidato dal partito nazionalsocialista tedesco, la NSDAP, Nationalsozialistiche Deutsche Arbeiter-Partei, il Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi (26). Il nazionalsocialismo fondava la sua Weltanschauung, la sua visione del mondo, su dottrine geopolitiche classiche — la grandezza della nazione tedesca e la sua necessità di espandersi ad oriente —, su teorie complottiste — gli ebrei sarebbero stati gli agenti occulti della Rivoluzione e gli artefici della sconfitta tedesca nella prima guerra mondiale —, ma soprattutto su di un mix, di motivi pseudo-scientifici, come le teorie razziste a base biologica e darwinista, ma anche spiritualistico-esoterica — che si rifaceva ai miti iperborei e ariani (27). Un coagulo e una miscela di motivi ideologici che portavano fatalmente il nazionalsocialismo verso una politica imperialistica e razzistica, che predicava la discriminazione e l’assoggettamento delle razze «inferiori» e dei Nichtarier, (non ariani). Si trattava di una concezione del mondo militante in cui era implicita la lotta contro le religioni europee tradizionali, cristianesimo ed ebraismo inclusi, e, specificamente, l’annientamento del nemico ebraico, perché, alla luce di tutti gli elementi ideologici che ho evocato e per il risentimento popolare verso gl’ingiusti trattati di pace di Versailles, diventava «il nemico» per antonomasia. Era un sistema che poneva, d’altro canto, al servizio della Weltanschauung, allo stesso tempo «arcaistica» e ultra-modernistica (28), del partito nazionalsocialista un potere politico praticamente illimitato, che per di più veniva esercitato sulla nazione industrialmente e militarmente più forte d’Europa e forse del mondo, quale era negli anni 1930 la Repubblica Tedesca nata a Weimar, in Turingia, nel 1919.
Le linee di azione che scaturivano da questa prospettiva erano in sostanza due: da un canto, una violenta ripresa dell’espansione imperiale germanica — dai caratteri inusitatamente «pagani» e basata su una aristocrazia del sangue di tipo razziale —, che aveva come obiettivo soprattutto le popolazioni slave dell’est, e, dall’altro, una drastica azione d’«ingegneria sociale» di stampo ideologico che si sforzava di fare della Germania un nuovo impero (Reich) millenario, modellato sulle dottrine della razza e del sangue (29). Se in questo tentativo di ridefinire la società su basi non più determinate dai rapporti tradizionali, ma dall’uguaglianza all’interno dello stesso «sangue» e dello stesso «suolo», stava il suo carattere utopico-«socialista», nel nazionalsocialismo trovavano nuovo spazio elementi ideologici che si ritrovano anche nel socialismo democratico europeo, come la politica eugenetica, e germi d’idee che avrebbero conosciuto una diffusione di massa soprattutto dopo il 1968, come l’ecologismo e il naturismo (30). L’eugenetica nazionalsocialista esaltava la purezza della razza germanica e si prefiggeva di eliminare dal corpo della società tedesca tutti gli elementi che potessero inquinarla. Si trattava per prima cosa di bandire la cosiddetta unwertes Leben, (vita priva di valore): «handicappati», malati di mente, asociali, criminali, che venivano soppressi attraverso programmi di eutanasia «discreti», ai quali il regime pose fine solo nel 1942 di fronte alle veementi proteste dei credenti di ogni confessione e al rischio che la loro reazione si ripercuotesse sullo sforzo bellico (31).
B. La «questione ebraica»
Per intendere quali furono le premesse dell’Olocausto è obbligatorio anche ripercorrere per sommi capi la genesi della «questione» ebraica. La condizione civile degli ebrei d’Europa inizia a mutare radicalmente con la Rivoluzione francese. Dalla limitazione nei diritti — di proprietà terriera, di residenza, di esercizio delle professioni — cui erano sottoposti dal medioevo a tutto l’antico regime, in un arco di tempo che va dagli anni 1790 fino alla fine dell’Ottocento, gli ebrei degli Stati europei — compreso l’Impero russo e quello ottomano — passano a una più o meno ampia uguaglianza di diritti con gli altri cittadini. Come frutto dell’emancipazione inizia l’ascesa della popolazione ebraica nella scala sociale. Nascono grandi imprese ebraiche in campo industriale, come pure le grandi «dinastie» finanziarie e bancarie, come i Rothschild, i Warburg e i Lazard; le famiglie israelite si conquistano ampio spazio in campo commerciale, nelle libere professioni, in determinati settori dell’artigianato e dell’apparato amministrativo. La posizione dominante acquisita facilita anche l’ingresso di personalità ebraiche nel mondo politico europeo. In generale le comunità israelitiche europee, ai vari livelli della scala sociale, coniugano un geloso mantenimento del loro specifico religioso e rituale con una maggiore apertura nella società delle nazioni in cui si trovano a vivere. Nonostante il nazionalismo crescente e le prime avvisaglie anti-semite, alla fine del secolo XIX l’appartenenza civile degli ebrei europei è sempre più simile a quella degli altri cittadini. Anche se le situazioni dell’assimilazione sono differenti da paese a paese, una conferma si può trovare nell’alto numero di combattenti ebrei presenti sui fronti del primo conflitto mondiale, anche dalla parte degl’Imperi centrali (32) —, e la conseguente formazione di organizzazioni di reduci ebrei, come il Reichsbund Jüdischer Frontsoldaten, (Lega imperiale dei reduci ebrei), nella Germania di Weimar (33).
Ma, se nell’Europa occidentale si può dire che nel corso del primo Novecento la situazione delle comunità ebraiche si va almeno giuridicamente (34) «normalizzando», nell’Europa dell’Est, soprattutto nei Balcani, lo status, degli ebrei resta meno definito legalmente e le comunità ebraiche — peraltro non poco diverse come usi e costumi da quelle occidentali — restano più esposte alla tradizionale inimicizia delle popolazioni slave e ai repentini mutamenti di umore dei governi succeduti ai vecchi imperi dopo la fine del primo conflitto mondiale (35).
Nonostante il nazionalismo sionista e la presenza di organizzazioni nazionali e internazionali ebraiche già relativamente influenti, all’avvento in Germania del nazionalsocialismo nel 1933 il mondo ebraico europeo si presenta disomogeneo culturalmente e disunito. Di fronte alla politica apertamente discriminatoria, prima, e persecutoria, poi, del governo, gli ambienti ebraici in Germania non sono in grado di esprimere una reazione significativa e subiscono in toto, i giri di vite, di volta in volta sempre più drastici e drammatici, del regime. E questo anche perché la tragicità del contesto riacutizza il consueto dilemma interno alla diaspora ebraica fra la prospettiva «assimilazionista» e quella «isolazionista-sionista», di cui è attenta osservatrice Hannah Arendt (1906-1975), (36).
C. L’ideologia nazionalsocialista e la questione ebraica
Anche se tutti gli Stati antichi e moderni hanno elaborato un regime giuridico particolare per le minoranze etniche e religiose esistenti sul loro territorio (37), la politica a sfondo razzista del nazionalsocialismo si presenta in questo campo radicalmente diversa. Quello ebraico non è solo un problema di minoranze. La lotta contro gli ebrei si può dire che è la quintessenza della politica del regime di Adolf Hitler. Il regime ha un obiettivo preminente: liberare la Germania e i territori che essa prevede di assoggettare nella conquista del suo spazio vitale (Lebensraum) dalla presenza delle razze e dei gruppi sociali «parassiti» (38). Il popolo ebraico è il «primo nella lista», non solo in omaggio alle teorie sull’ineguaglianza delle razze, ma anche perché nella prospettiva hitleriana a esso risaliva la responsabilità della sconfitta del Reich, guglielmino nella prima guerra mondiale e, in generale, perché, secondo la medesima visuale, gli ebrei coltivavano da secoli disegni occulti di dominio del mondo attraverso il potere dell’oro. La teoria dell’ineguaglianza delle razze valeva anche nei confronti delle etnie diverse da quella ebraica, per esempio degli slavi — i secondi «in lista» —, destinati a diventare, nei progetti del partito, la razza-schiava che avrebbe «collaborato» a edificare nei territori conquistati all’Est il Reich, millenario su cui avrebbe regnato la Herrenrasse, la «razza dei signori» germanici e ariani. E non solo le etnie, ma anche le religioni erano nel mirino, in particolare il cristianesimo cui il nazionalsocialismo rimproverava un’origine semitica.
D. La politica razziale nazionalsocialista: dalla discriminazione all’espulsione, dall’espulsione alla deportazione
Nel trattamento della questione ebraica si possono identificare grosso modo, tre fasi, abbastanza ben distinguibili anche cronologicamente.
In un primo momento, negli anni dal 1933 al 1938, in Germania la politica verso gli ebrei e le altre «sotto-razze» assume carattere di discriminazione culturale e di privazione di diritti civili e politici (39); questa fase tocca il suo culmine con la Kristallnacht, la «notte dei cristalli», dell’8/9 novembre 1938, ossia con il primo accenno di pogrom, anti-semita su larga scala. Durante questo periodo forti aliquote della popolazione ebraica germanica, compresi non pochi battezzati, per timore del futuro, espatriano oltreoceano o verso paesi meno inospitali.
Poi, con la guerra e l’occupazione della Polonia, inizia la fase della «pulizia etnica»: le popolazioni ebraiche dell’Europa orientale vengono brutalmente massacrate o deportate in campi di lavoro e lo spazio lasciato libero da esse consente di spostare a est le comunità di ebrei tedeschi e di liberare dalla loro presenza e rendere, come si diceva, judenfrei, la nazione-guida del Reich. Questa fase trova impulso decisivo con le grandi conquiste territoriali in Bielorussia, nell’Ucraina, in Russia, nei Balcani, seguite all’invasione dell’URSS nel giugno del 1941. Hitler può così sfruttare l’immenso spazio che il Reich, copre dalla Bretagna alle porte di Mosca per attuare la gigantesca operazione di deportazione che avrebbe consentito di svuotare la parte occidentale e «più ariana» dell’impero dalla presenza ebraica.
Infine, all’aggravarsi della situazione bellica, fra il 1943 e il 1945, la decisione dello sterminio. In questi anni ulteriori comunità ebraiche cadono sotto il tallone nazionalsocialista al venir meno progressivo degli alleati del Reich, e all’insediamento in Romania, in Ungheria, in Bulgaria, in Serbia, in Croazia, in Slovacchia, in Italia di governi collaborazionisti di vario tipo.
In sintesi si può dire che la persecuzione anti-ebraica si snoda fra espulsione, deportazione con relativa schiavizzazione e liquidazione fisica pura e semplice.
E. Il secondo conflitto mondiale
In effetti, nella genesi dell’Olocausto, un ruolo determinante come «catalizzatore», come contenitore in vitro, ha giocato il sanguinoso secondo conflitto europeo — e poi mondiale — del 1939-1945. Unicamente in un contesto eccezionale quale quello costituito da una conflagrazione generalizzata e da uno scontro bellico sempre più «barbaro», dove ormai il codice d’onore militare e le regole morali normalmente vigenti nei rapporti internazionali, almeno a partire da una certa data, «saltano» completamente è pensabile lo svolgersi di un eccidio di massa come l’Olocausto. Solo il conflitto globale, con i suoi sviluppi talora imprevisti e con i suoi esiti condizionanti, crea le premesse necessarie perché la volontà hitleriana di risolvere la Judenfrage, («questione ebraica») si traduca in un progetto di sterminio collettivo concepito in termini freddamente tecnologici e «industriali».
Se le vittorie del 1939-1942 mettevano alla totale mercé dell’Asse (40), dominato da Hitler, tutte le comunità ebraiche europee da Parigi al Don, lo stato di guerra in quanto tale dava allo spietato totalitarismo nazionalsocialista ulteriore libertà d’azione per liquidare definitivamente la partita col «nemico» ideologico.
Ma, se la soddisfazione fra i quadri del regime doveva essere grande per l’occasione unica che la guerra offriva, lo scenario non era esente da problemi. La chiusura delle frontiere rendeva impossibili o meno facili le espulsioni — che pure si esauriscono totalmente solo nel 1941 —, mentre l’economia di guerra, se poteva avvantaggiarsi dalla presenza di manodopera a costo zero — ma Hitler, a dispetto di ogni Realpolitik, farà un uso tutto sommato limitato dei prigionieri ebrei nelle fabbriche —, doveva fare i conti con la necessità di sostentare una massa di prigionieri che andava a sommarsi agli altri milioni di «ospiti coatti» del Reich: prigionieri di guerra, politici, partigiani, delinquenti comuni, lavoratori forzati (41). Anche se Hitler non verrà meno fino all’ultimo alla sua implacabile volontà di vendetta (42), l’imponente universo concentrazionario costituito dalla miriade di Lager, che punteggiavano la carta d’Europa — che fra l’altro imponeva di distogliere dai fronti truppe sempre più numerose e preziose — ne condiziona la politica razziale. La sorte degli ebrei europei oscilla fra questi due poli — il progetto nazionalsocialista di «pulizia» razziale e la realtà mutevole degli anni del conflitto mondiale —: l’idea del genocidio matura in questo contesto.
F. Verso l’annientamento
a) I massacri sul fronte orientale
Azioni di sterminio fisico di ebrei con mezzi «classici» erano state intraprese già in Polonia e non appena conquistate le province sovietiche. Va notato a questo riguardo che la guerra contro l’URSS non è combattuta dalla Germania solo in una prospettiva imperialistica classica ma in un senso nuovo. Si trattava di una Weltanschauungskrieg, una «guerra ideologica», combattuta contro il bolscevismo «ebraico»: per questo non aveva regole, se non quella dell’annientamento. Il 20 marzo 1941 Hitler si era rivolto agli ufficiali superiori della Wehrmacht, spiegando loro il carattere «speciale» dell’invasione dell’URSS e il 6 giugno successivo i comandi militari supremi avevano emesso direttive e codici di comportamento che attenuavano gli obblighi di lealtà militare dei futuri combattenti, fra cui il famoso Kommissarbefehl, ossia l’ordine di procedere all’immediata liquidazione dei commissari politici comunisti (43). Iniziata l’«Operazione Barbarossa» il 22 giugno 1941, alle truppe della Wehrmacht, che avanzano in territorio sovietico si accodano reparti mobili speciali — gli Einsatzgruppen e gli Einsatzkommando (44) —, facenti capo ai diversi organi di polizia diretti da Heinrich Himmler (1900-1945): al Sicherheitdienst (SD) — il servizio di sicurezza del Partito, retto da Reinhard Heydrich (1904-1942) —, alle Waffen SS, (SS combattenti) e, infine, sorprendentemente, anche alla Orpo, la Ordnungspolizei, militarizzata, costituita da elementi normalmente incaricati dell’ordine pubblico e poco abituati al combattimento, comandata dal generale delle SS, Kurt Daluege (1897-1946). Queste task force, iniziano a rastrellare metodicamente le retrovie del fronte e a «liquidare» con rara efficacia membri della resistenza partigiana, funzionari e commissari politici comunisti e ogni «elemento ostile». Questa lotta diviene il pretesto per una massiccia e spietata eliminazione fisica degli ebrei sovietici, soprattutto quelli dei villaggi e delle piccole città rurali, i quali vengono «d’ufficio» assimilati agli elementi filo-comunisti e ai sabotatori. La tecnica consueta per queste operazioni era il rastrellamento a sorpresa dei ghetti o degli abitati rurali, il concentramento delle famiglie ebree in un luogo poco in vista e dove era già stata scavata con i bulldozer, una enorme fossa comune e infine il mitragliamento delle vittime e la loro caduta nella fossa, subito dopo ricoperta. Con questo metodo i reparti speciali giunsero a liquidare «sul posto» nell’arco di qualche settimana anche centinaia di migliaia di persone.
b) Le deportazioni
Il piano delle deportazioni viene elaborato già all’indomani della conquista della Polonia e prevede la costituzione nella zona centro-orientale del paese occupato, al confine con l’URSS, di vere e proprie «riserve» — simili a quelle statunitensi destinate ai nativi americani o «pellirosse» (45) —, in cui trasferire gradualmente gli ebrei europei, in parte per utilizzarli, in parte per liquidarli. Dopo il 1941 il piano viene attuato in grande stile con il graduale smantellamento dei ghetti europei, il più grande dei quali — e anche l’unico che si ribellerà — è quello di Varsavia (46). I ghetti polacchi fungono da luoghi di concentramento intermedi, mentre, per ospitare «definitivamente» i prigionieri ebrei, viene enormemente potenziata la rete dei campi di concentramento e di lavoro.
Dopo l’ormai tristemente celebre riunione organizzativa del 20 gennaio 1942 al Grosser Wannsee (47) — una località lacustre nella periferia sud-ovest di Berlino, dove avevano sede gli uffici della commissione internazionale della polizia criminale —, lo staff, di Heinrich Himmler, braccio destro di Hitler, nonché capo della polizia e capo supremo delle SS, si organizza non solo per continuare la sistematica pulizia dell’Europa occidentale dagli ebrei, trasferendoli verso est, ma anche per trasformare le deportazioni in uno sforzo coordinato e scientifico (48) per «ridurre», sterminandola in gran parte, l’enorme popolazione che si veniva accumulando e che era sempre meno facile adibire a compiti ausiliari.
Si tratta della famosa Endlösung, la «soluzione finale», un progetto che nella sua immane malizia ha dell’enigmatico. Perché destinare tante risorse, si chiede Alain Besançon, nel suo volume sul nazionalsocialismo, il comunismo e la Shoah «[...] per andare a scovare, nel granaio dove si nasconde, una bimba ebrea, al fine di farla morire», magari ancora nel 1944 o addirittura nel 1945, quando al fronte mancavano i viveri e le munizioni e la popolazione era in molte città alla fame (49)? Oppure perché fino all’ultimo dare priorità assoluta ai convogli dell’Olocausto, quando un treno di munizioni arrivato prima al fronte poteva significare una battaglia vinta e la vita di molti tedeschi risparmiata? E fra le riflessioni che scaturiscono davanti all’enigma una riguarda la forza che una ideologia maligna assume quando s’incarna nelle strutture di uno Stato industriale e totalitario.
Fra il 1942 — l’anno in cui la «soluzione finale» fa più vittime (50) — e il 1944 le operazioni di reinsediamento e di «liquidazione» delle comunità ebraiche dei vari paesi europei si sviluppano in misura impressionante e con cadenza ininterrotta. In un crescendo di violenze e di tragedie, la popolazione ebraica, senza riguardo per nessuno, viene arrestata e deportata in maniera bestiale di ghetto in ghetto verso centri che non sono più di solo concentramento o campi di lavoro, ma veri e propri luoghi di annientamento. L’emblema della tragedia rimasto più impresso nella memoria collettiva dei protagonisti diretti e indiretti — ma anche nell’immaginario degli spettatori di oggi — è costituito dai convogli ferroviari che dai quattro angoli dell’impero nazionalsocialista partono a centinaia, stipati di prigionieri con la stella gialla destinati a una morte sempre più sicura. Gli stessi Judenrat, (consigli ebraici) insediati — ma eletti — dai tedeschi nei ghetti dei paesi occupati collaboreranno «volonterosamente» alle deportazioni, illusi dalla disperata prospettiva della «riduzione del danno» (51).
c) Lo sterminio su scala industriale
I sempre più drammatici rovesci militari, il tramonto del sogno di costruire un impero razzista e pagano nelle terre dell’est, l’immensa popolazione concentrazionaria il cui annientamento attraverso i metodi indiretti — la violenza, il lavoro forzato, le privazioni, le malattie — si rivelava lento, l’entrata in guerra degli Stati Uniti d’America — che fa intravedere uno scenario in cui il Reich, dovrà misurarsi contemporaneamente con le due maggiori potenze «ebraiche» del mondo, gli Stati Uniti d’America e l’URSS —, la riduzione del territorio controllato — i Lager, dell’est verranno trasferiti sempre più verso occidente, fin sul territorio tedesco e austriaco, al progredire dell’avanzata sovietica nel 1944 e 1945 —, i bom, , bardamenti sempre più devastanti, l’ombra minacciosa della fame, inducono i gerarchi nazionalsocialisti ad accelerare i tempi della «soluzione finale» del problema ebraico e a scegliere modalità di soluzione assai più radicali, impiegando tecniche analoghe a quelle già sperimentate per l’unwertes Leben, sia in Germania sia nei paesi da essa sottomessi o condizionati.
Le infrastrutture che ospitano in regime penitenziario migliaia di ebrei e di altri Untermenschen, («sotto-uomini») sono di diverso tipo: dai semplici campi di transito come Theresienstadt in Boemia, a campi di sterminio «tradizionali» — come Treblinka, Sobibór, Bełžec, Chełmno in Polonia —, a veri e propri grandi impianti industriali, dove alcuni dei deportati vengono utilizzati per la produzione di materie prime — come la gomma e il petrolio sintetici, che l’accerchiamento crescente del Reich, faceva scarseggiare o del tutto mancare — oppure per lavori di sterro e di costruzione. Accanto alle strutture di fabbricazione — per esempio, in Polonia a Maydanek e ad Auschwitz-Birkenau — vengono creati impianti di eliminazione in cui l’input, è costituito da persone e il «prodotto finito» da cadaveri. Alcune strutture o campi vengono attivati solo temporaneamente e poi sono abbandonati e distrutti (52). Altri campi, pure tristemente celebri — come Buchenwald, Dachau, Sachsenhausen, in Germania, e Mauthausen, in Austria—, dove verranno confinati ebrei e deportati a migliaia, non sono campi dedicati tematicamente, in tutto o in parte, all’annientamento: il che non significa che non vi si morisse come le mosche. Al lavoro negl’impianti e ai servizi venivano destinati solo alcuni degli elementi maschili più validi o preparati — è questo il caso dello scrittore torinese Primo Levi (1919-1987), che deportato ad Auschwitz-Monowitz, presso gl’impianti della I.G. Farben Buna Werke, dove si producevano la gomma e la benzina sintetiche riuscirà a farsi passare per esperto della lavorazione della gomma (53), uscendo così dalla «linea di produzione» principale e salvando la vita —, mentre per le donne, i bambini, i vecchi, i malati, gli inabili al lavoro la sorte era immediatamente e irrimediabilmente segnata.
Come la Vernichtung, l’«annientamento», avvenisse è noto, anche se i dati disponibili non sono tutti certi e univoci. Se si crede a quanto riferiscono le memorie dei sopravvissuti, le condizioni di vita nei campi — in tutti, non solo in quelli di sterminio — erano di per sé sufficienti a determinare in un tempo più o meno breve la morte della maggioranza dei prigionieri, soprattutto dei più deboli: le SS, coadiuvate dalla cieca e potente macchina burocratica germanica, non si facevano scrupolo di deportare anche bambini molto piccoli, malati e persone anziane. Se si pensa al livello e alla qualità degli alimenti, alle condizioni igieniche determinate dalla convivenza di migliaia di persone in spazi angusti, sovraffollati e privi d’igiene, al clima rigido, alle malattie di ogni genere, alla distruzione della personalità e della dignità umane attraverso la fame e una disciplina terroristica, disumana e sadica di cui sono non di rado artefici-vittime i deportati stessi, a un lavoro forzato spesso durissimo, al di là del ritualismo burocratico — che pure imponeva simulacri di controlli, visite mediche, verifiche e prove di ogni tipo — non si fa fatica a immaginare il tremendo tasso di mortalità dei campi di annientamento e anche di quelli di lavoro.
E queste condizioni — che non differivano molto, non solo come concezione, da quelle dei GuLag, sovietici (54) —, di loro invivibili, a partire dal 1943 sono aggravate dal peggioramento della situazione generale del Reich, sottoposto a bombardamenti sempre più distruttivi, che colpivano l’infrastruttura economica e soprattutto il morale della popolazione, già provata dal progressivo esaurimento delle materie prime. Poi, nonostante molti prigionieri venissero passati per le armi subito dopo la cattura o lasciati morire di fame nei campi di transito, l’«arcipelago» dei Lager, tedeschi non si limita ai campi di annientamento, ma deve continuare a tenere in vita anche milioni di prigionieri di guerra, perciò, se le condizioni di vita dei tedeschi diventano drammatiche, si può immaginare che cosa accada scendendo lungo la gerarchia dei senza diritti. Se per i campi di prigionia il Reich, autorizzerà qualche sollievo da parte delle famiglie e della Croce Rossa, nei campi destinati all’annientamento non farà filtrare mai neppure un pezzo di pane. Gli ultimi mesi della guerra saranno terrificanti per la popolazione carceraria, stipata fino all’inverosimile in un sempre più ristretto numero di Lager: i prigionieri saranno privi di tutto ed esposti a devastanti epidemie, mentre la fame raggiungerà livelli mortali. Quando gli Alleati entreranno nei campi si troveranno davanti a cataste immense di cadaveri sfigurati e a pochi sopravvissuti, allucinati dal terrore e dalla fame.
Ma, oltre che con la fame, le malattie e gli stenti, i nazionalsocialisti si premurano di annientare il senso d’identità e la dignità dei prigionieri nei campi della morte anche con frequenti decimazioni, fucilazioni, impiccagioni ed esecuzioni sommarie, oltraggiose e crudeli sperimentazioni mediche (55).
Non è da escludere che nei campi di annientamento siano state progettate e in certi casi anche attivate strutture fisse per l’uccisione di massa — le tristemente famose «camere a gas» —, mentre è certo l’allestimento di forni crematori di tipo e dimensione «industriali» per lo «smaltimento» delle migliaia di cadaveri frutto delle operazioni di sterminio. Di queste strutture si segnala la presenza in alcuni campi, soprattutto a Birkenau, nel complesso concentrazionario-industriale di Auschwitz-Oswiečim, in Polonia, vicino a Cracovia, ma esse sarebbero state tutte eliminate dai nazionalsocialisti — che avrebbero anche distrutto le sepolture delle migliaia di vittime che era stato impossibile cremare — prima dell’arrivo delle truppe sovietiche nel 1944-1945.
5. Le responsabilità dello sterminio
Negli anni a partire all’incirca dal 1935 — quando furono promulgate le prime misure discriminatorie in Germania, le famose «leggi di Norimberga» —, intorno agli ebrei europei si apre una partita che vede coinvolto più di un attore. Se il ruolo del carnefice è a buon diritto rivestito dal nazionalsocialismo al potere in Germania e dalle sue più o meno riuscite repliche nei paesi satelliti, in favore degli ebrei europei si muove un nutrito stuolo di soggetti, coinvolti nella sorte del popolo mosaico a diverso titolo, per legami oggettivi oppure per il proprio ruolo specifico: gli ebrei dei paesi liberi e le loro organizzazioni; gli ebrei palestinesi; gli Stati nemici del Terzo Reich, ; i governi dei paesi neutrali; le autorità morali e religiose riconosciute internazionalmente; le associazioni di soccorso e i privati cittadini.
Assumendo — e non è sempre detto — che ve ne fossero da giocare, possiamo chiederci se tutti coloro che erano intorno al tavolo abbiano sfruttato al meglio le proprie carte. Poteva osare di più? era forse lecito, date le circostanze, «barare»?
A questi e ad altri quesiti cercano di rispondere tre studiosi, due sono storici statunitensi specializzati nell’Olocausto e il terzo è un gesuita e storico francese. I loro contributi paiono significativi e puntuali perché, al di là delle valutazioni che se ne possono dare, forniscono effettivamente nuovi e oggettivi elementi atti a illuminare la questione delle responsabilità nella genesi e nello sviluppo dell’Olocausto.
A. La dirigenza ebraica dei paesi liberi e gli Alleati
Il primo, Yehuda Bauer, in Ebrei in vendita? Le trattative segrete fra nazisti ed ebrei. 1933-1945(56), apre un fronte di ricerca nuovo e in un certo senso sorprendente, quando — sulla scorta di un notevole spoglio di archivi — documenta che l’implacabile determinazione hitleriana di liquidare gli ebrei mostra apparentemente delle crepe e che, fuor di metafora, contatti e trattative palesi e segrete fra esponenti del regime e organismi di difesa in merito alla sorte degli ebrei europei siano avvenute fin dall’indomani della presa di potere di Hitler.
Se l’atteggiamento del regime nei confronti della questione ebraica non si modifica mai nelle sue linee generali, sul piano concreto la sua politica razziale è influenzata dall’evolversi della situazione politica generale e da diversi altri fattori. Senz’altro è condizionata dalla forza dell’avversario, globalmente considerato. La forza dell’ebraismo stava per Hitler non tanto nel pur notevole peso conseguito dalle comunità ebraiche nella società tedesca ed europea, ma soprattutto nelle sue articolazioni al di là delle frontiere: in primo luogo nelle organizzazioni ebraiche internazionali e nelle realtà economiche e finanziarie, soprattutto statunitensi, in cui gli ebrei avevano conquistato un notevole potere che poteva essere orientato contro la Germania. Infine, nella prospettiva complottistica del nazionalsocialismo, nei governi più «infiltrati» da elementi ebraici come quelli della Gran Bretagna, della Francia e degli Stati Uniti, le cui politiche verso la Germania — che avevano sconfitto nel primo conflitto mondiale — potevano essere influenzate dalla questione ebraica.
Ma nell’andamento della questione ebraica hanno peso anche le occasioni del momento e giocano un ruolo anche la personalità e gl’interessi dei singoli gerarchi coinvolti nella «soluzione finale». è noto come nel regime hitleriano, sotto la cappa del culto quasi religioso del capo carismatico e nonostante il rigido apparato burocratico-totalitario, restasse non poco spazio per l’iniziativa personale dei vari «sotto-Führer». Perciò il corso sinuoso e tutto sommato fluido della lotta anti-ebraica offriva — e offrì, di fatto, come Bauer prova — almeno in certi momenti più o meno ampi margini di azione e spiragli di penetrazione per incursioni che avrebbero forse avuto l’effetto di attenuare le dimensioni della «catastrofe».
Bauer descrive come negli anni pre-bellici il governo tedesco solleciti, anzi faciliti, l’emigrazione ebraica — cercando comunque di farne oggetto di lucro —, perché seriamente preoccupato, a torto o a ragione, di ritorsioni economiche da parte del capitalismo ebraico internazionale, che sarebbero state particolarmente nocive per il piano di costruzione della «grande Germania» che il regime si proponeva. L’unico limite che incontra questa politica è la riluttanza dei paesi ostili, come la Gran Bretagna, o neutrali, come quelli sudamericani, ad accettare quote d’immigrazione superiori a quelle ordinarie. Eppure paesi vastissimi come l’Argentina o il Canada o l’immenso impero britannico avrebbero avuto senz’altro possibilità di ospitare, in condizioni di certo meno esiziali di quelle delle rispettive patrie, gli emigranti ebrei. A discarico di questi governi sta però il fatto che negli anni pre-bellici era difficile prevedere sia la guerra, sia la svolta tragica che avrebbe preso la persecuzione in Germania e nel resto dell’Europa. Il flusso migratorio diventa una fuga quando vengono approvate le prime discriminazioni legali e dopo il «quasi-pogrom» della Kristallnacht. Ulteriore alimento all’emigrazione verrà dall’occupazione tedesca dei Sudeti, della Boemia e della Moravia — Bauer stesso, tredicenne, lascerà nel 1939 la natia Praga per la Palestina — e, infine, dell’Austria.
Con l’inizio della guerra prende corpo nel clan, hitleriano l’idea di espellere gli ebrei tedeschi verso i paesi occidentali o verso la Palestina, ma anche — come rivela il progetto «Madagascar» , valutato non senza interesse anche dalle potenze occidentali — di costituire un focolare nazionale ebraico, invece che in Palestina, nella colonia africana della Francia occupata (57). Fra i sostenitori di questi piani Bauer rivela vi fosse, quasi incredibilmente, Heinrich Himmler, che li preferiva al puro sterminio fisico, considerato «non germanico», : quello che sarà in seguito il massimo artefice della Shoah, nel maggio del 1940 scrive al Führer, del progetto e, ancor più incredibilmente, ne ottiene un assenso informale (58).
Se assecondati dai governi anti-hitleriani e dai paesi neutrali — e qui sta il nocciolo del discorso di Bauer —, queste misure, per dolorose — o addirittura insultanti per la scala di valori odierna — che fossero, avrebbero di certo evitato la morte di molti degli ebrei europei. Sarebbe stato moralmente lecito accettarle? sarebbero poi state in concreto attuabili, ovvero i capi del Reich, le volevano veramente? L’apertura di spazi a est offriva altre e forse più suggestive opzioni ai vertici nazionalsocialisti... E, se le volevano, avevano poi i mezzi per portarle a termine? Con il senno di poi, vista la tragedia e viste le capacità di mobilitare risorse dell’apparato logistico-industriale tedesco, possiamo rispondere affermativamente, ma nel frangente concreto la scelta non era facile. Sta di fatto che gli Alleati, probabilmente perché sempre più concentrati sulla guerra, che talora mette in questione la loro sopravvivenza stessa, mostrano scarso interesse a queste alternative: la questione ebraica era ancora tutto sommato poco sentita, la simpatia per il popolo d’Israele non troppo viva e gli Alleati pensavano a una soluzione del problema della persecuzione ebraica nel quadro più ampio della lotta bellica contro il nazionalsocialismo. Quando sembra che la guerra possa essere facilmente vinta dall’Asse, intorno al 1942, l’ago della bilancia comincia a pendere invece verso la prospettiva della utilizzazione e della «bonifica» totale, l’interesse per le modalità alternative si riduce drasticamente e, una volta avviata la relativa macchina — secondo Bauer la decisione di disfarsi degli ebrei del Reich, risaliva all’estate precedente l’incontro di Wannsee del gennaio del 1942 (59) —, l’attenzione dei funzionari tedeschi dell’apparato si concentra su come meglio dare corpo a questa scelta.
Ma, se il centro si muove nella direzione del lavoro forzato e dello sterminio, non è del tutto così nei paesi satelliti della Germania, dove sono al governo forze filo-fasciste, che adottano sì politiche anti-ebraiche sulla falsariga di quelle tedesche, ma non sempre con le stesse motivazioni e finalità.
Particolare spazio ha nel libro di Bauer la storia degli ebrei slovacchi. La piccola Slovacchia cattolica era stata separata dalla Boemia e dalla Moravia, incorporate nel Reich, e affidata alla guida di un personaggio controverso, il prelato conservatore e nazionalista, leader, del partito popolare slovacco, monsignor Jozef Tiso (1887-1947), che instaura una dittatura e adotta fin da subito misure anti-ebraiche (60).
Nel 1942-1943 circa ventimila cittadini slovacchi dovevano essere deportati, su richiesta tedesca, verso la Polonia, nominalmente per essere adibiti al lavoro coatto. Il governo decide allora di sostituirli con ebrei — la popolazione ebraica in Slovacchia ammontava a 88.951 persone — che, in collaborazione con le polizie tedesche, iniziano a essere deportati verso i ghetti e i campi polacchi. Lo scambio è accolto dalla vibrata protesta delle autorità religiose: tramite l’incaricato di affari vaticano a Bratislava monsignor Giuseppe Burzio (1901-1966), le gerarchie cattoliche elevano una dura protesta contro la decisione, mentre — e qui sta la novità — le organizzazioni ebraiche slovacche e internazionali, attraverso canali diplomatici svizzeri, sembrano riuscire a far breccia nel governo e a corromperne alcuni funzionari per indurli a ridurre il numero delle deportazioni. La figura-chiave di questa vicenda è l’ufficiale prussiano delle SS Dieter Wisliceny (1911-1948): uomo di Eichmann — a sua volta stretto collaboratore di Himmler, del «gruppo di Wannsee» e uno dei più fanaticamente implicati nella «soluzione finale» — in Slovacchia e in seguito autore dell’annientamento degli ebrei ungheresi e della «celebre» deportazione della colonia ebraica di Salonicco in Grecia, nel 1945 è catturato dagli americani e processato a Norimberga, poi viene riconsegnato alle autorità comuniste della rinata Cecoslovacchia, che lo giustizieranno nel 1948.
Wisliceny ottiene l’assenso del suo superiore gerarchico Eichmann per aprire trattative e fa trapelare la notizia che i nazionalsocialisti sono disponibili, dietro compenso, a diminuire in misura proporzionale il ritmo delle deportazioni. Anzi, riesce a far credere al coordinamento delle organizzazioni ebraiche slovacche ed estere di poter persuadere, a certe condizioni, lo stesso Eichmann a fermare l’intera operazione di reinsediamento degli ebrei europei.
Non si sa se per opera di Wisliceny — la vicenda è assai complessa —, per la corruzione dei funzionari slovacchi o per le pressioni particolarmente intense della diplomazia cattolica, sta di fatto che in questo frangente la temporanea flessione dell’intransigenza nazionalsocialista si traduce nel fatto che le deportazioni nell’agosto del 1943 vengono sospese e così molte vite vengono risparmiate. Anche in questo caso ci si chiede: casi analoghi non avrebbero potuto farsi più numerosi se solo fossero stati tentati in maniera meno occasionale, soprattutto quando la guerra volgeva palesemente al peggio per Hitler?
Dietro la piccola apertura fatta intravedere da Wisliceny vi sarebbe in realtà il tentativo di Himmler di sondare gli Alleati in vista di un possibile armistizio. Diviso fra la sua fanatica fedeltà al Führer e la lucida percezione — condivisa peraltro dai vertici dello Stato Maggiore (61) — che dopo Stalingrado non fosse più pensabile vincere la guerra, il principale «architetto» dell’Olocausto assume un atteggiamento ondivago e opportunistico. Trattare una resa condizionata, acquisire dai nemici le risorse che mancavano sempre più allo sforzo bellico del Terzo Reich, chiedere contropartite per offrirsi di rendere più efficace lo scontro sul fronte orientale, per contenere così l’espansione del comunismo sovietico, che anche gli osservatori occidentali temevano: erano tutti elementi che giocavano a favore di un’apertura di tavolo. I sondaggi himmleriani erano ufficialmente coperti da una direttiva di Hitler del dicembre del 1942, che autorizzava eventuali riscatti o scambi di ebrei purché non sistematici e con profitto per il Reich. Mentre non pensa neppure per un attimo di sospendere le operazioni di annientamento condotte in Polonia dalla struttura costituita a Wannsee, il capo delle SS e della polizia, all’insaputa di Hitler e interpretando estensivamente le istruzioni ricevute dal Führer, cercava di verificare la disponibilità alleata a rivedere la linea dell’unconditional surrender, la resa senza condizioni, decisa dagli Alleati nel febbraio del 1943 a Casablanca, e il destino degli ebrei poteva essere una valida carta da giocare.
Nel corso del 1943 in effetti non sono infrequenti i contatti di esponenti dell’ebraismo mondiale e diplomatici alleati con membri dell’apparato dello sterminio per riscattare ebrei in cambio di denaro, prigionieri tedeschi o materiali. Himmler fa addirittura predisporre per gli scambi alcuni Lager, Bergen-Belsen e Theresienstadt — quest’ultimo ex campo di prigionia austro-ungarico —, rispettivamente nel nord e nel sud della Germania, ma nessun negoziato va in porto, un po’ per l’indisponibilità occidentale, un po’ per la inadeguata copertura «legale» delle iniziative. Anche altri contatti segreti avuti da membri della intelligence anglo-americana in Europa con membri dell’establishment nazionalsocialista non danno alcun frutto. Nuovi tentativi di contatto fra emissari occidentali, organizzazioni ebraiche e struttura di Himmler hanno luogo nel 1944 nelle sedi neutrali di Berna, Stoccolma e Istanbul, quando vengono varate le deportazioni della folta colonia ebraica d’Ungheria — ex alleata ora occupata dai tedeschi — verso i campi polacchi: «tra il 14 maggio e il 7 luglio furono deportati ad Auschwitz, secondo cifre tedesche, 437.000 ebrei. […] Tre quarti furono assassinati: bambini, vecchi, madri con bambini e molti uomini» (62). In questo contesto si situa la proposta di Eichmann e di Himmler dell’aprile del 1944 — che ha avuto una certa eco nei media quando apparve il libro di Yehuda Bauer — di scambiare ebrei contro beni materiali. Si parlava, in particolare (63), di liberare un milione di ebrei — non solo quelli ungheresi, dunque — contro la fornitura di diecimila camion, attrezzati per le basse temperature, da destinare esclusivamente al fronte russo, dove ormai le truppe tedesche erano in ritirata ovunque. Ma non se ne fa nulla: «le potenze occidentali risposero nel contesto dell’invasione della Normandia [6 giugno 1944] […] e della fase finale dell’offensiva sovietica […]. In quel momento cruciale, inimicarsi i sovietici a causa di un qualche stravagante piano nazista per riscattare gli ebrei era assolutamente fuori questione» (64). I dettagli della missione organizzata dai tedeschi — principali incaricati furono Joel Brand (1906-1964) e Andor «Bandi» Grosz (1905-?), ex comunista il primo, dal passato discutibile e implicato con i servizi segreti tedeschi il secondo, esponenti delle comunità ebraiche ungheresi e «graditi» agli occupanti — per recapitare la proposta in Occidente sono descritti in estremo dettaglio da Yehuda, che mette in luce le diverse finalità e il differente coinvolgimento nel dramma che i governi inglese, statunitense e sovietico, da un lato, e l’Agenzia Ebraica palestinese — embrione del nascituro Stato nazionale ebraico —, dall’altro, rivelano nei confronti della proposta tedesca. Due eventi, lo sbarco alleato in Normandia del 6 giugno 1944 e l’attentato contro Hitler del 20 luglio 1944, distoglieranno però in breve l’attenzione dal progetto di scambio e faranno naufragare anche questa iniziativa.
Nuovi tentativi, paralleli alla missione Brand-Grosz, per salvare gli ebrei ungheresi, vengono esperiti anche in seguito. Forse l’unico frutto di questi sforzi è nel giugno del 1944 — ovvero nel pieno delle deportazioni verso Auschwitz — l’allestimento di un treno con a bordo 1.684 ebrei ungheresi con destinazione Spagna: il prezzo pattuito sembra essere stato di mille dollari a persona. Il convoglio, dopo innumerevoli peripezie e tergiversazioni — fra cui una lunga sosta l’8 luglio nel campo di transito di Bergen-Belsen, che riempie di terrore i passeggeri — l’8 dicembre in effetti porta al sicuro i suoi passeggeri, ma non in Spagna, bensì oltre la frontiera svizzera.
Il nazionalsocialista e fedele interprete della politica himmleriana, tristemente protagonista della vicenda degli ebrei ungheresi — oltre al treno per Bergen-Belsen, si segnala nell’«acquisto» a vantaggio delle SS del conglomerato industriale della famiglia ebrea Weiss in cambio del permesso di emigrare per i proprietari (65), nonché in cento altre «imprese» a sfondo ricattatorio —, è lo Standartenführer della cavalleria SS Kurt Andreas Becher (1909-1995). Da lui provengono le maggiori aperture verso le offerte di scambi provenienti dall’estero — nella seconda metà del 1944 la tragedia ebraica diviene un po’ più chiara agli occhi dei contemporanei — riguardo ai circa duecentomila ebrei di Budapest rimasti da «trattare» da parte dei nazionalsocialisti. In contatti con esponenti ebraici in Svizzera — soprattutto Saly Mayer (1882-1950), legato al Segretario di Stato americano Cordell Hull (1871-1955) — si fa latore della proposta di scambiare gli ebrei ungheresi con un lotto di diecimila fra autocarri e macchine agricole di produzione alleata, adducendo come prova della serietà delle intenzioni tedesche il rilascio alla frontiera svizzera dei primi 318 ebrei del treno diretto in Spagna (66). Il 25 agosto 1944 le deportazioni da Budapest vengono sospese per iniziativa del capo dello Stato ungherese, il Reggente ammiraglio Miklós Horthy di Nagybánya (1868-1957), pare grazie anche a questi negoziati, peraltro mai perfezionati. I colloqui svizzeri proseguono, ancora nel 1944, con i ripetuti tentativi di far emigrare gruppi di ebrei ungheresi nella Romania, distaccatasi dalla fine di agosto dall’alleanza con l’Asse, di far intervenire la Croce Rossa nei campi esistenti su suolo occupato dalla Germania, di scambiare infine seicentomila ebrei contro veicoli e altre merci (67). Nel novembre dello stesso anno vi è anche un incontro (68) a Zurigo fra Becher e Roswell Dunlop McClelland (1914-dopo 1991), capo del neo-costituito War Refugee Board (ente per i profughi di guerra) americano, che sembra coronare il sogno himmleriano di un contatto diretto con gli Alleati al di fuori della diplomazia tedesca, ma senza esiti, in quanto le sorti della guerra sono ormai troppo a vantaggio degli Alleati per indurli a qualsiasi transazione. 1.201 ebrei ungheresi sono comunque liberati, grazie a trattative dirette fra Himmler e diplomatici svizzeri il 7 febbraio 1945. Purtroppo, mentre l’Armata Rossa è ormai alle porte di Budapest, alla fine del 1944, le violenze contro gli ebrei riprendono a opera del nuovo governo ungherese costituito dalle filo-hitleriane Croci Frecciate, che, non appena al potere, iniziano la caccia all’ebreo, soprattutto nella capitale, uccidendone alcune migliaia in maniera «artigianale» e gettandone i corpi nel Danubio. Inoltre, dall’8 al 18 novembre, diverse migliaia di ebrei di Budapest sono costretti a marciare in colonna sotto la pioggia e nel gelo incipiente in direzione di Vienna, per essere impiegati nella costruzione di trincee anti-carro da opporre ai carri armati sovietici. Non si tratta di uomini validi, ma di vecchi, donne e bambini e, dopo che centinaia di loro sono rimasti sul terreno, le marce vengono sospese. In questo drammatico crepuscolo del fascismo ungherese si segnalano gli sforzi per salvare ebrei fatti dalle diplomazie neutrali — in particolare dallo svizzero Charles Lutz (1895-1975), dallo svedese Raoul Wallenberg (1912-?) e dal nunzio pontificio e decano del corpo diplomatico di Budapest —, il vescovo milanese mons. Angelo Rotta (1872-1965) —, nonché per iniziativa di privati cittadini, come prova la rocambolesca vicenda dell’industriale lombardo e fascista convinto fino al 25 luglio 1943, Giorgio Perlasca (1910-1992), spacciatosi per console spagnolo (69). Le organizzazioni ebraiche scelgono volontariamente di non ribellarsi come a Varsavia, ma riescono anch’esse a salvare numerosi correligionari.
I governi occidentali avrebbero potuto salvare tutti gli ebrei d’Europa, se lo avessero voluto? Con tutta verosimiglianza, no. Ma avrebbero potuto salvarne molti di più delle poche migliaia che, a guerra iniziata, riuscirono a lasciare l’immenso ghetto dell’Europa occupata o di quelli lasciati in vita dal crollo nazionalsocialista. Le parole di Bauer sono del tutto esplicite e dure tanto verso le organizzazioni ebraiche, di cui mette in luce la disunione, in particolare la rivalità e la diffidenza fra «assimilazionisti» e sionisti, quanto verso i governi alleati, i quali: «[…] persino nel caso di leader […] tutt’altro che indifferenti alla sorte degli ebrei […], non capirono veramente mai la politica antiebraica dei nazisti […]. Pensavano che l’antisemitismo nazista fosse uno strumento per conquistare il potere e mantenerlo: non si resero conto che, per loro, esso non era un mezzo, bensì uno scopo […]. Per loro gli ebrei erano solo una seccatura, e per gli inglesi una minaccia ai propri interessi nazionali in Palestina e Medio Oriente […]. Gli Alleati non avrebbero accolto grandi quantità di ebrei, se Himmler li avesse loro offerti. Né avrebbero pagato per ebrei che non volevano, tanto meno acconsentendo a qualche richiesta di Himmler» (70). Dunque una parte della responsabilità della sorte tragica dell’Olocausto ricade su costoro.
I motivi dell’inerzia o del ritardo d’interesse da parte del mondo libero verso la catastrofe ebraica europea stanno, secondo Bauer, nell’incredulità che fosse possibile un tale abisso di male, nel fraintendimento della natura della persecuzione — il Leit-Motiv dell’atteggiamento occidentale sarà la convinzione di trovarsi di fronte a un semplice caso di discriminazione di una minoranza religiosa, non diverso da altre minoranze religiose, per esempio i Testimoni di Geova (71) —, la sottovalutazione del pericolo reale, il desiderio di non cadere nel discredito — come avvenne durante la prima guerra mondiale quando l’accusa di atrocità formulata contro i tedeschi dalla propaganda occidentale fu dimostrata falsa (72) —, la priorità data all’abbattimento totale non solo del regime, ma della nazione tedesca stessa. Né si può ignorare che all’interno dei paesi alleati, negli Stati Uniti in primis, esistessero robuste correnti culturali anti-semitiche.
Quindi, gli Alleati non solo negoziarono svogliatamente quando se ne presentò l’occasione: quando vi furono forzati dalle pressioni ebraiche, non solo non vollero accettare profughi ebrei sul loro territorio o su quello di Stati amici — salvo ridotte aliquote, che furono accettate a malincuore dai britannici in Palestina —, ma neppure adottarono altre misure, pure possibili. Un elenco degl’interventi mancati può essere dedotto dalla lista delle proposte d’intervento fatte agli Alleati dal futuro premier d’Israele David Ben Gurion (1886-1973) nel 1942 (73). Se, invece che inasprire il sentimento anti-ebraico con le stragi di civili operate dai bombardamenti indiscriminati sulle città tedesche, avessero bombardato i centri nevralgici dell’Olocausto (74), noti almeno dal 1943, o, quantomeno, avessero messo in relazione questi bombardamenti con la rappresaglia per l’Olocausto; se avessero fatto pressione sugli alleati della Germania meno anti-semiti o anti-semiti ma non omicidi; se avessero propagandato l’esistenza dei centri di sterminio fra la cittadinanza tedesca; se avessero ricattato il regime, minacciando ritorsioni sugli ostaggi tedeschi in loro possesso; se avessero aiutato concretamente la resistenza tedesca, invece che trattare i generali tedeschi anti-hitleriani da traditori del proprio paese, avrebbero potuto quanto meno condizionare lo sforzo di annientamento perpetrato dai nazionalsocialisti.
Neppure le organizzazioni ebraiche della diaspora o i sionisti, anche nei loro esponenti di maggior rilievo politico, come Henry Morgenthau jr. (1891-1967), già ambasciatore e ministro del Tesoro nell’amministrazione di Franklin Delano Roosevelt (1882-1945), per lo stesso problema di «visibilità» del pericolo e per la divisione esistente fra loro, tennero, almeno sulle prime, un atteggiamento unanime e attivo contro la persecuzione dei correligionari europei. Scartata l’autodifesa attiva — che forse avrebbe spinto gli Alleati a sostenere i partigiani ebrei alla stessa stregua della resistenza anti-tedesca —, le autorità ebraiche all’estero scelsero sempre la via della pressione o quella del negoziato, vie senz’altro lecite e talvolta efficaci, ma solo tardi trovarono un qualche coordinamento fra loro e ottennero risorse dall’emigrazione ebraica tali da rendere davvero efficaci questi mezzi. E anch’esse compresero solo troppo tardi la volontà di sterminio del regime nazionalsocialista, mentre ne sopravvalutarono forse le contingenti e opportunistiche aperture degli anni 1943-1944.
B. Da quando gli Alleati sapevano?
Ma, da quando in Occidente si sapeva della scelta organizzata a Wannsee di liquidare gli ebrei europei? È questo il tema di un altro efficace saggio, scritto da Richard Breitman, Il silenzio degli Alleati. La responsabilità morale di inglesi e americani nell’Olocausto ebraico (75).
In tredici densi capitoli lo storico americano ricostruisce le grandi tappe dell’Olocausto, cercando di capire quanto di esso fosse conosciuto al di fuori dei confini del Reich e della nomenklatura nazionalsocialista, nonché i vari atteggiamenti assunti dai protagonisti della politica internazionale e del secondo conflitto mondiale nei suoi confronti. Egli si avvale, oltre che di fonti già note — fra cui alcune a suo tempo segnalate da Yehuda Bauer —, di un vasto patrimonio di dati di archivio, rimasto a lungo ignorato, costituito dalle trascrizioni delle intercettazioni compiute dai servizi segreti britannici, fin da prima dello scoppio del conflitto, sulle comunicazioni radio delle forze armate nazionalsocialiste — in particolare le SS, la polizia, la Gestapo, i servizi di sicurezza — operanti in territorio sovietico.
Da molte di queste registrazioni, soprattutto nei primi mesi dall’inizio degli eccidi sul fronte orientale, traspaiono accenni, nomi e dati quantitativi sufficienti — è questa la tesi di fondo di Breitman — per formarsi un quadro abbastanza preciso di quanto veniva perpetrato nei confronti degli ebrei. Gl’inglesi — a differenza degli americani — erano in possesso di un’attrezzatura tecnologicamente avanzata e contavano specialisti di alto livello in grado di decifrare, quasi del tutto, i codici verbali utilizzati dai tedeschi, soprattutto dalle forze di polizia, nelle loro comunicazioni.
Per la verità, per capire che i nazionalsocialisti avrebbero riservato agli ebrei un «trattamento» speciale bastava aver letto le opere di Adolf Hitler, specialmente i suoi volumi autobiografici (76). Alle prime dichiarazioni esplicite e ai primi gesti anti-ebraici dei nazionalsocialisti dopo la conquista del potere, gli addetti diplomatici occidentali non omettono di documentarsi sulle intenzioni del nuovo soggetto politico padrone della Germania. Dai primi rapporti ai rispettivi governi, anche se con sfumature diverse — per esempio l’ambasciatore britannico Horace George Montagu Rumbold (1869-1941) riserva ben poca simpatia agli ebrei —, si palesa già la preoccupazione per la quasi certa emigrazione ebraica dal Reich. Ma il problema si fa caldissimo dopo le travolgenti vittorie della Germania in Occidente nel 1939-1940, quando la rapida invasione della parte occidentale dell’URSS — repubbliche baltiche, Bielorussia e Ucraina — segna l’inizio delle operazioni di «pulizia etnica».
Breitman narra anch’egli come, dopo aver definito i relativi piani e dopo aver trovato le opportune giustificazioni ideologiche delle operazioni, le autorità di polizia controllate da Himmler danno il via all’ondata dei massacri su larga scala. Le stragi più «celebri» avvengono a Kamenec-Podolskij nell’Ucraina meridionale, quasi all’attuale confine rumeno, un massacro che fa circa ventimila vittime, e quella di Babi Yar, sempre in Ucraina, nelle vicinanze di Kiev, dove muoiono oltre trentatremila ebrei. Vittime degli eccidi condotti dagli Einsatzgruppen e dagli Einsatzkommando sono soldati sovietici, partigiani, funzionari e commissari comunisti, ma soprattutto, in misura soverchiante, ebrei, senza distinzione di posizione e ruolo sociale, di sesso e di età.
Breitman ripercorre anche la vicenda delle deportazioni e del concentramento delle comunità tedesche e polacche. Sulle prime — conferma — sembra trattarsi solo di liberare il territorio tedesco dalla presenza degli ebrei, insediandoli forzatamente più a est. Ma per le difficoltà del re-insediamento, il terminal dei vari convogli di deportati sono i campi di sterminio, allestiti in prevalenza sul territorio polacco. Essi diverranno il luogo abituale di approdo degli ebrei deportati dall’Olanda alla Grecia, ai paesi ex alleati, come l’Ungheria e l’Italia.
I massacri «sul posto», nelle retrovie del fronte russo, vengono compiuti in genere sulla base di ordini verbali, ma di ognuno di essi è restata traccia nei puntigliosi rapporti trasmessi dai capi dei reparti — periodicamente o dopo ogni «operazione di pulizia» —, quasi tutti però ormai dispersi. Data la debolezza della rete telefonica e telex sul suolo sovietico e la difficoltà d’impiantare una rete efficiente di corrieri, il canale privilegiato che le forze tedesche usano per comunicare fra loro è la radio. Così dal potente centro radio allestito a Bletchley Park, nei pressi di Woburn nel Buckingamshire, a nord di Londra, i britannici, anche perché in possesso di gran parte dei protocolli di comunicazione tedeschi (77), riescono a raccogliere un copioso materiale su quanto sta avvenendo nelle zone occupate e nelle retrovie del fronte russo.
Sulla scorta dei rapporti affluiti per questa via e attraverso i canali spionistici tradizionali, i britannici riescono dunque molto presto a farsi un quadro abbastanza realistico dei massacri che stanno avvenendo sul suolo della potenza nemica. Ma — sottolinea Breitman — non ritengono di farne aperta denuncia né d’intraprendere azioni significative per prevenire o limitare i massacri. Neppure le notizie raccolte sulla costituzione dei primi centri di sterminio, sulle immani tragedie che avvengono nei ghetti polacchi e sugl’innumerevoli convogli di deportati che solcano il territorio del Reich, riescono a scuotere l’interesse degli Alleati.
Anche gli americani, che pure, non essendo in guerra con la Germania, avevano potuto rimanere liberamente a Berlino ben oltre l’inizio dei massacri sul fronte russo e avevano addirittura visto partire i primi convogli di ebrei tedeschi verso la morte, non sembrano dare particolare peso al dramma ebraico che si preannuncia: neppure l’onnipotente mondo dei mass media sembra reagire alle sollecitazioni di darne notizia. Solo agli inizi del 1943 si registra un nuovo atteggiamento. Nuove e più autorevoli informative pervengono ai governi alleati attraverso diplomatici, transfughi dai paesi occupati e organizzazioni ebraiche. Queste ultime, in particolare, iniziano un’intensa attività di lobbying e di pressing — che raccoglie e convoglia tutte le informazioni raccolte da ogni fonte sulla sorte dei confratelli europei — sull’amministrazione americana e britannica. Soprattutto riescono a sensibilizzare il presidente Roosevelt, il quale comincia a prendere in considerazione iniziative più sostanziose a sostegno degli ebrei europei. Il premier britannico Winston Leonard Spencer Churchill (1874-1965) dà anch’egli segni di un maggiore dinamismo. Ma la linea tradizionale degli Alleati — il miglior modo per aiutare la minoranza ebraica europea era vincere in fretta la guerra — non muta. Il problema del genocidio ebraico non riesce a «bucare», né a divenire un Leitmotiv della campagna propagandistica alleata — soprattutto attraverso la BBC (British Broadcasting Company) la radio-televisione governativa inglese e la statunitense Voice of America — contro la Germania. Neppure la clamorosa dichiarazione di Paul Joseph Goebbels (1897-1945), ministro della propaganda e Gauleiter (responsabile locale del Partito) di Berlino, fatta nel settembre 1942, in cui si diceva senza mezzi termini che «[…] 48.000 [ebrei rimasti] a Berlino […] saranno spediti all’Est e consegnati a un destino di morte» (78), viene ripresa e rilanciata adeguatamente. È dunque facile per la propaganda nazionalsocialista mantenere la sua presa sulla popolazione tedesca, anche se questa è sempre più provata e tendenzialmente più aliena da simpatie per il regime. Ma la guerra volge al peggio e la Gestapo intraprende una serie di operazioni di cancellazione delle fosse comuni — esumandone le vittime e risotterrandole più a ovest —, per non lasciare traccia dei massacri compiuti sul fronte orientale e delle «produzioni» dei centri di sterminio polacchi (79), operazioni che Bletchley Park riesce a intercettare in parte. In Gran Bretagna e negli Stati Uniti vengono create le prime strutture — come il WRB, il War Refugee Board americano, del 22 gennaio 1944 — che avrebbero dovuto occuparsi, se non esclusivamente degli ebrei, del destino dei profughi dai paesi europei. Da essi prende corpo una serie d’iniziative, concertate con le organizzazioni ebraiche e con le diplomazie degli Stati neutrali, per approfittare degli occasionali segni di disponibilità che venivano dall’area di potere controllata da Himmler, e cercare attraverso scambi di persone contro denaro e mezzi materiali di salvare vite di ebrei europei — soprattutto della vasta comunità ungherese ostaggio degli occupanti nazionalsocialisti dall’aprile del 1944 — o almeno di alleviarne le condizioni. Non sempre il coordinamento è perfetto, ma quello dei negoziati è un passo avanti, anche se la strategia politica alleata non deflette: nessuna risorsa bellica viene infatti distratta dal suo impiego abituale, nessun bombardamento dei centri logistici dello sterminio ha luogo, nessuna forma di ritorsione viene applicata.
La parziale «distrazione» alleata e il mancato utilizzo delle informazioni messe a disposizione dai servizi segreti produrranno i loro effetti anche durante i processi di Norimberga del 1945-1946. Per esempio, non avendo ben chiaro il ruolo svolto dalla polizia ordinaria, l’Orpo, nei massacri, gli accusatori alleati consentiranno all’astuto generale delle SS Daluege, uno dei massimi responsabili degli eccidi sul fronte russo, di attenuare le proprie colpe e di sfuggire al capestro. Altrettanto riesce, o almeno viene tentato, da altri criminali, come i capi-settore «di polizia e SS» nell’URSS occupata Friedrich Jeckeln (1895-1946) ed Erich von dem Bach-Zelewski (1899-1972), il tremendo «liquidatore» della rivolta di Varsavia. Altri delitti non sono neppure individuati o rimangono impuniti, grazie alla relativa «confusione» di compiti che regnava fra i diversi organi dello Stato nazionalsocialista.
Anche Breitman motiva il comportamento fondamentalmente omissivo e riluttante degli Alleati con il desiderio di non sottrarre risorse a una guerra di cui si sentivano responsabili nei confronti dei propri interi popoli e non solo di una minoranza; con la scarsa simpatia di cui godevano gli ebrei nei paesi occidentali e col rifiuto di sovraccaricare il canale immigratorio consueto; ma, soprattutto, da fraintendimenti di principio, che impedivano loro di vedere l’unicità dello sforzo anti-ebraico condotto dalla Germania nazionalsocialista e che facevano loro assimilare l’Olocausto a «normali» politiche religiose o a fenomeni di emigrazione, da trattare quindi tutti allo stesso modo.
3. I silenzi delle chiese
In questo quadro, si situa anche il problema del contegno tenuto dagli avversari «religiosi» del nazionalsocialismo di fronte alla «deriva» genocida della politica tedesca. Molti sarebbero i soggetti d’indagine: dalle chiese evangeliche tedesche — senz’altro più schierate col regime —, ai cattolici polacchi, ungheresi, slovacchi, francesi, italiani, alla Chiesa cristiana ortodossa greca e balcanica, all’islam, alle rispettive organizzazioni internazionali, alle componenti cristiane della Resistenza contro il nazionalsocialismo in Germania e nei paesi occupati dal Reich. Anche queste realtà hanno avuto atteggiamenti non sempre univoci e omogenei nei confronti del dramma che stava maturando sotto i loro occhi. Su questo rapporto ancora molta luce deve essere fatta e non è un compito facile, poiché si tratta di realtà policentriche, fortemente identificate con le rispettive nazionalità e apparentemente poco interessate ad affrontare questa pagina di storia.
La Chiesa cattolica, invece, è dotata di un’istanza dottrinale e disciplinare suprema unica e ben identificabile, si autodefinisce come un organismo tendenzialmente universale e, in quanto realtà umano-divina, non disprezza il piano storico e non ha alcun timore di scendervi, anzi ha solo da guadagnare a che si ricostruisca fedelmente la tragedia europea della seconda guerra mondiale, senza escluderne il minimo frammento.
Com’è noto, da alcuni anni è in atto un confronto polemico che vede, da un lato, un numero sempre più nutrito di storici, per lo più di origine ebraica, sforzarsi di adombrare una corresponsabilità, almeno morale, del Papa allora regnante, Pio XII, nei riguardi dell’Olocausto, e dall’altro una «pattuglia» di storici e d’intellettuali cattolici, per lo più dalla vocazione spiccatamente apologistica, ribattere colpo su colpo ad accuse, che divengono via via sempre più incalzanti, esibendo documenti che mettono in luce la bontà delle scelte pastorali e diplomatiche della Chiesa di Papa Pacelli e sottolineano il contributo, tutt’altro che secondario, dato dalla Santa Sede e dalle istituzioni della Chiesa presenti sul territorio a salvare la vita a migliaia di ebrei.
Le accuse nei confronti di Papa Pio XII sono state formulate per la prima volta all’inizio degli anni 1960 (80), ma forse addirittura prima (81). Ma, a parte il problema dell’inizio delle denunce, secondo tutta una serie di autori, Pio XII avrebbe tenuto un comportamento sostanzialmente indifferente — gli ormai famosi «silenzi» di Pio XII — e omissivo di fronte alla sorte dei figli di Abramo, che avrebbe coniugato con un contegno invece troppo condiscendente verso la tirannide hitleriana, dovuto forse a un suo presunto «amore» per la tradizione autoritaria germanica — Eugenio Pacelli era stato nunzio apostolico prima in Baviera, dal 1917, e poi in Prussia dal 1920 al 1929 —, come proverebbe fra l’altro il concordato con la Repubblica di Weimar, di cui, come segretario di Stato, fu l’artefice diplomatico nel 1933, nonché la sua presunta simpatia per la crociata «anti-comunista» che i nazionalsocialisti dicevano di voler combattere in Russia, come già in Spagna. La Santa Sede in realtà resistette sempre a pressioni per un pronunciamento a favore della lotta contro il regime sovietico guidata dalla Germania. Ma l’accusa più grave è di non aver contrastato il diffuso compiacimento cattolico per la politica anti-ebraica tedesca e italiana, in quanto prigioniero del tradizionale stereotipo anti-giudaico inerente alla cultura cattolica, che tesi recenti vedono come una delle condizioni per cui la Shoah ha potuto essere così «felicemente» attuata e accettata da parte dei tedeschi e, in generale, di popolazioni cattoliche (82). Peraltro, al di là di una solenne condanna dell’Olocausto e di censure nei confronti dei cristiani in esso implicati ai vari livelli, non vengono in genere individuate condotte concrete alternative all’imparzialità e al riserbo pacelliani.
Particolarmente aspre sono le critiche contenute nel libro dello storico britannico John Cornwell, Hitler’s Pope: the secret history of Pius XII [Il Papa di Hitler: storia segreta di Pio XII] (83), sulla serietà del quale la Santa Sede si è espressa fin da subito con una nota anonima — dunque particolarmente autorevole — de L’Osservatore Romano (84). Il volume, uscito nell’ottobre del 1999 in inglese e in francese, ha suscitato vibrate reazioni da parte cattolica, fra le quali si segnala quella di padre Peter Gumpel S.J., postulatore della causa di beatificazione di Papa Pacelli (85). Quest’ultima è particolarmente avversata, in una maniera che talora va parecchio sopra le righe, da alcuni ambienti ebraici, ma anche da frange progressiste cattoliche. Il duro attacco di Cornwell, secondo alcuni, sarebbe da collocare nell’àmbito del tentativo di queste forze per ostacolare l’iter del processo canonico. Se per il versante ebraico la cosa non sorprende, da quello intra-ecclesiale l’atteggiamento si spiega alla luce della campagna condotta contro il modello di Chiesa emblematizzato dal pontificato di Pio XII e contro suoi presunti «rigurgiti» sotto quello attuale. Non tutti gli ambienti ebraici sembrano però essere d’accordo sulla linea aggressiva esemplificata da Cornwell. Lo dimostra la presa di posizione del rabbino newyorchese, esponente della corrente religiosa «conservatrice», David Gil Dalin, il quale auspica che Pio XII sia annoverato fra i «giusti fra le Nazioni» (86).
Il volume del gesuita francese padre Pierre Blet, Pio XII e la Seconda Guerra mondiale negli Archivi Vaticani (87) — l’ultimo dei lavori di cui voglio riferire — offre spunti decisamente importanti per mettere a fuoco il problema del comportamento del Papa. Padre Blet è l’ultimo sopravvissuto dell’équipe di gesuiti che negli anni 1960-1970 fu incaricata da Papa Paolo VI (1963-1978) di pubblicare i documenti più salienti dell’imponente raccolta di atti vaticani concernenti il secondo conflitto mondiale. Nei dodici capitoli del suo lavoro padre Blet ripercorre i sei anni di guerra in Europa dall’osservatorio della Santa Sede, documentandone l’ininterrotta e tenace attività diplomatica al fine di evitare la guerra, prima, e, poi, per ottenere la pace e, sempre, per limitare le conseguenze di uno scontro fra popoli dagli effetti sconvolgenti per la Chiesa e per l’umanità, un conflitto che in aggiunta vedeva sempre più conoscere un’estensione e gradi di crudeltà quali mai l’umanità aveva conosciuto.
L’affiorare dei primi frutti di morte del totalitarismo neopagano nazionalsocialista preoccupa fin da subito la Chiesa cattolica. L’angustia si accresce dopo il 1942, quando a Roma ci si accorge che la sconfitta del primo avrebbe fatalmente segnato l’ulteriore dilatazione della potenza dell’altro totalitarismo, ancor più temibile per il cristianesimo e per l’Occidente, ossia il comunismo internazionale, che, come già avvenuto nel 1919-1920, attraverso l’espansione sovietica — il cui timore fu fra l’altro una delle ragioni dell’ascesa dei fascismi in Italia e in Europa —, rischiava di conquistare il vecchio continente.
I capitoli dedicati alla persecuzione delle minoranze europee sono quelli dal settimo all’undicesimo. Padre Blet documenta le iniziative prese dalla diplomazia vaticana in favore degli ebrei tedeschi e polacchi, prima agevolandone l’emigrazione, poi accogliendoli quando vengono espulsi, infine, cercando d’intervenire quando sono deportati in massa dai ghetti verso i Lager. Quella che sta primariamente a cuore alla Santa Sede è la sorte degli ebrei battezzati — anche se talora divengono cristiani solo nella speranza di salvarsi —, che venivano privati del sostegno da parte delle organizzazioni sioniste ed ebraiche in quanto considerati apostati. La diplomazia vaticana protesta incessantemente contro le autorità tedesche e satelliti, esercita pressioni sui governi alleati, si offre come mediatrice nel caso dei pochi negoziati avviati, e si preoccupa del sollievo materiale delle vittime.
Ma la situazione non è più quella del primo conflitto mondiale, quando il nunzio Eugenio Pacelli consegnava i pacchi-viveri della Santa Sede ai prigionieri italiani in Germania. Le trattative in genere hanno poca fortuna e quelle riguardo agli ebrei hanno vita ancor più stentata, perché le autorità hitleriane sembrano in preda a una sorta di delirio razzista e palingenetico, anzi, la loro volontà di vendetta s’inasprisce sempre più con il cattivo andamento della guerra e i bombardamenti a tappeto delle città tedesche. Fra i casi riportati da padre Blet figurano la partecipazione della diplomazia vaticana alle trattative in Slovacchia, nella Croazia governata dall’ustascia («ribelle») Ante Pavelič (1889-1959) — il cui ministro dell’Interno e capo della polizia, colonnello Eugen «Dido» Kvaternik (?-1957), nel luglio del 1942 riferirà al visitatore apostolico abate Giuseppe Ramiro Marcone (1882-1952) che ben due milioni di ebrei del Terzo Reich erano già stati liquidati (88) —, in Romania e in Ungheria, come pure nelle sedi diplomatiche dei paesi neutrali — fra cui si segnala Istanbul, dov’è nunzio monsignor Angelo Giuseppe Roncalli (1881-1963), il futuro beato Papa Giovanni XXIII (1958-1963), che nella primavera del 1943 avvertirà Roma dell’imminente pericolo per le migliaia di ebrei slovacchi (89) —, l’intenso lavorìo diplomatico dei rappresentanti pontifici, che talora deve imporsi nei confronti dei più «tiepidi» episcopati locali (90), incontra insormontabili difficoltà verso il 1944, quando questi Stati perdono la loro relativa autonomia e vengono occupati dalla Wehrmacht.
Le iniziative vaticane a favore dei civili colpiti dalla guerra e dalla persecuzione non si arrestano anche quando, dopo l’armistizio italo-alleato dell’8 settembre 1943, l’Italia e la Città Eterna cadono nelle mani tedesche e i paracadutisti della Wehrmacht — come mostra una fotografia ormai celebre — presidiano il confine con lo Stato vaticano in piazza San Pietro. In questo contesto viene esposta a rischio anche la vita degli ebrei italiani e di quelli romani in particolare, che da sempre avevano avuto un rapporto speciale con il vertice della cristianità. Già il 20 settembre 1943 la rete poliziesca nazionalsocialista inizia a stringersi intorno al ghetto romano (91). Quando si tratta di raccogliere i fatidici trentacinque chili d’oro che il capo della polizia tedesca, il tenente-colonnello delle SS Herbert Kappler (1907-1978), aveva richiesto per evitare la deportazione degl’israeliti romani, Pio XII, interpellato dal rabbino capo di Roma Israel Zoller (1881-1956) — che, dopo le leggi anti-ebraiche del 1938, italianizzerà il nome in Italo Zolli e, dopo la conversione al cattolicesimo, prenderà il nome di Eugenio Maria in omaggio a Papa Pacelli e alla Madonna (92) —, si prodiga all’istante per trovare fra i cattolici persone che mettano insieme il riscatto e alla fine vi riesce. Dopo la retata degli ebrei romani del 15-16 ottobre 1943 il Papa interviene energicamente presso le autorità germaniche per ottenerne la liberazione. Anche se nulla riesce a smuovere i tedeschi, le deportazioni da Roma non si ripetono più.
Quanto sapeva la Santa Sede dell’Olocausto in corso e quando ne ebbe notizia e nozione? Certo non sapeva granché dei massacri di ebrei sul fronte russo — i combattenti italiani dell’ARMIR erano stati decimati e ben pochi avevano fatto ritorno, finendo in molti fucilati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943 —; sapeva attraverso i nunzi, gli episcopati locali e i missionari che deportazioni e concentramenti erano in atto in Germania, nei Paesi Bassi e in Polonia; forse conosceva anche i luoghi dove gli ebrei europei e altre sfortunate etnìe venivano concentrati, ma non sapeva per certo quale era il loro destino preciso, perché i deportati scomparivano come inghiottiti dal nulla. Gli ultimi anni di guerra — come conferma padre Blet — con il precipitare della situazione europea generale, avevano reso ancor più difficile il flusso delle informazioni dall’interno del Reich.
Anche se ipotesi sul destino dei deportati venivano formulate — lavoravano come schiavi nelle fabbriche dell’apparato militare-industriale tedesco, colonizzavano territori nuovi, venivano annientati tramite l’orrendo regime dei campi di lavoro, erano uccisi tout court, con il gas o con altri mezzi —, si trattava più di «voci» e con i pochi dati a disposizione non si andava al di là di un forte sospetto. Soprattutto, non potendo conoscere i piani e gli «ordini di servizio» dei nazionalsocialisti, era difficile isolare il dramma ebraico dal dramma più generale. Solo l’invasione del suolo polacco e tedesco, a opera degli eserciti alleati, avrebbe reso disponibili e proposto in maniera così traumatizzante al mondo, attraverso i documentari cinematografici, le immagini dell’Olocausto. Così pure, gli archivi tedeschi si rendono disponibili solo dopo l’occupazione. E solo nel dopoguerra, a poco a poco, il pubblico comincia a prendere nozione e coscienza della dimensione del genocidio scientemente perpetrato dai vinti nazionalsocialisti, tedeschi e non, contro interi popoli, quello ebraico in primo luogo.
Data questa incertezza di fondo, l’intervento vaticano negli anni del genocidio avviene spesso solo in base a deduzioni, a presentimenti o a timori generici, ma non viene mai meno: anche se e quando le notizie non sono sufficientemente certe, la Santa Sede interviene comunque e sempre. Certo la consapevolezza che il destino dei più era l’annientamento si accresce a misura del progresso delle operazioni di sterminio, ed è un dato di fatto che la frequenza degl’interventi aumenta sempre più negli anni 1943 e 1944.
6. Conclusioni
La novità e l’atrocità della Shoah colsero dunque impreparati un po’ tutti. Tornando in specifico alle accuse contro Papa Pio XII, si può dire che molti si attivarono nei confronti dell’Olocausto, ma lo fecero in modi e con atteggiamenti diversi, non tutti ugualmente giustificabili sul piano delle responsabilità. Se si considerano i mezzi a disposizione di ciascuno — la forza militare e la propaganda per i governi alleati, i fondi dei riscatti per le organizzazioni ebraiche, l’autorità morale per le Chiese e le altre organizzazioni religiose, i mezzi di soccorso per la Croce Rossa Internazionale —, dal quadro che scaturisce dagli studi che ho preso in considerazione emerge che chi poteva di più — i governi occidentali, in particolare gli Alleati, a guerra scoppiata — ha in effetti agito di meno. Alcune ragioni di questa «omissione di soccorso» sono già state evidenziate e starà a ciascun interessato farle opportunamente valere nei confronti dell’opinione pubblica, la quale — almeno chi pretende di rappresentarla — pare però disinteressarsi di queste emergenti corresponsabilità per concentrare, quasi morbosamente, l’attenzione sul preteso anti-semitismo cattolico e papale. Quello che va sottolineato è invece che tutte queste ricerche, di cui sono autori storici non poco «navigati», confermano che il maggior «imputato», Pio XII, in realtà fu proprio colui che più si prodigò, nei limiti della sua debolezza materiale, caeteris paribus, senza pregiudizi religiosi, per ottenere quanto meno il sollievo per i perseguitati.
Le informazioni in possesso della Santa Sede dal 1942 avvaloravano la realtà di una persecuzione senza precedenti contro gli ebrei, e i loro rappresentanti, come pure alcuni vescovi cattolici, lo sollecitarono a prendere posizione. Ma Pio XII non reputò fossero opportuni pronunciamenti solenni e specifici contro il nazionalsocialismo per la persecuzione contro gli ebrei. Non era certo — almeno per lunghi periodi — che fosse in atto uno sterminio pianificato dei soli ebrei, né tanto meno era noto il suo carattere «industriale». Papa Pio XI (1922-1939) si era del resto già pronunciato pesantemente contro il neopaganesimo nazionalsocialista. Prima, nel 1937, pubblica l’enciclica Mit brennender Sorge, che condanna il neopaganesimo germanico. Poi, il 3 maggio 1938, dopo aver lasciato Roma per non incontrare il Führer in visita a Benito Mussolini (1883-1945), fa pubblicare dal quotidiano ufficioso vaticano una lettera che elencava otto punti delle dottrine razziste giudicati incompatibili con la fede cristiana e condannati. Ancora, prende posizione ripetutamente contro la Dichiarazione della Razza, un documento redatto nel luglio del 1938 da alcuni professori universitari fascisti, che prelude alle successive leggi razziali italiane. Poi, nel settembre dello stesso anno, la celebre dichiarazione: «L’antisemitismo [...] è un movimento detestabile al quale noi, in quanto cristiani, non possiamo prendere parte», alla quale il Papa soggiunse, fra le lacrime: «L’antisemitismo è inammissibile. Noi siamo tutti spiritualmente semiti» (93). E ancora, dopo la promulgazione delle leggi speciali di difesa della razza italiana dell’11 novembre, — in fortuita coincidenza con la «notte dei cristalli» in Germania — eleverà nuove proteste, ma, tre mesi dopo, morirà.
In Germania la voce dei vescovi cattolici contro i crimini del regime era già risuonata più volte, anche se senza esito (94). La priorità data agli ebrei non faceva poi scordare che al secondo posto venivano gli altri «semiti», cioè i seguaci di Gesù Cristo (95) e che esasperare i nazionalsocialisti poteva voler dire anticipare i tempi ed estendere i confini dell’Olocausto. La vicenda degli ebrei olandesi nel 1942, che furono deportati indiscriminatamente — senza riguardo alla loro conversione al cristianesimo, neppure quando era certa oltre ogni dubbio come nel caso dei religiosi, fra i quali spicca la carmelitana santa Teresa Benedetta della Croce O.C.D., al secolo Edith Stein (1891-1942) —, dopo una denuncia delle persecuzioni anti-ebraiche pubblicata dai vescovi olandesi il 20 luglio 1942, costituiva un terribile precedente e un grave monito.
Altre minoranze religiose, ma anche nazionali e sociali, venivano poi assoggettate a un trattamento altrettanto feroce di quello messo in atto contro gli ebrei. Gli stessi cattolici, soprattutto in Polonia, erano oggetto di una persecuzione usque ad sanguinem senza precedenti: si calcola che nei campi, in aggiunta a quelli deportati o liquidati dai sovietici durante l’occupazione del 1939, siano periti circa tre milioni di polacchi, quindi di cattolici.
Di tutti questi elementi oggettivi una guida responsabile non poteva non tener conto. Essi sconsigliavano una presa di posizione clamorosa, la quale peraltro non fu affatto esclusa, almeno in linea di principio, anzi, la Segreteria di Stato e il Papa valutarono a più riprese l’opportunità di una condanna esplicita (96). Né peraltro, negli anni dell’Olocausto, mancarono del tutto pronunciamenti di Pio XII e interventi di singoli presuli: nel magistero e nelle allocuzioni pastorali e diplomatiche vi furono ripetuti accenni, nei quali si poterono leggere trasparenti allusioni al dramma degli ebrei europei. L’idea di una censura solenne fu accantonata per il dubbio fondato della sua reale efficacia e per evitare reazioni, che, nel clima più teso, avrebbero peggiorato la situazione. Gli anni, poi, nei quali s’iniziò a sapere qualcosa di meno incerto della Shoah, coincidono con quelli in cui si palesava sempre più probabile una sconfitta bellica del nazionalsocialismo, per cui l’attesa operosa poteva essere considerata anch’essa una scelta praticabile.
Papa Pio XII, che pur si rendeva perfettamente conto di chi avesse di fronte (97), invece che pronunciare condanne o moniti solenni, scelse di prodigarsi imparzialmente e con ogni mezzo possibile per aiutare tutti i perseguitati dal nazionalsocialismo e le vittime del conflitto, ivi compresi, e con uno zelo senza precedenti, gli ebrei, contribuendo a salvarne, secondo uno storico ebreo, circa 850.000 (98). La Chiesa cattolica favorì l’espatrio degl’israeliti finché fu possibile, alleviò le loro condizioni materiali quando furono fatti prigionieri e deportati, appoggiò ininterrottamente le trattative per fermare o rallentare le deportazioni e fu parte attiva nei negoziati per riscattare gli ostaggi, intervenne per arrestare la deportazione degli ebrei romani, diede ospitalità immediata e disinteressata a centinaia di perseguitati politici e razziali nei conventi e nelle case religiose di Roma e di tutta Italia (99). Non pochi ebrei e non poche istituzioni ebraiche espressero la loro gratitudine a Pio XII nel dopoguerra (100).
È possibile — l’argomento andrebbe studiato con maggior sistematicità — che pre-giudizi teologici diffusi da certe correnti ecclesiali oppure creatisi storicamente nella cultura delle popolazioni cristiane europee abbiano potuto giocare un ruolo quanto meno non antagonistico nel produrre o nel far perdere rilievo all’Olocausto. Ma è altresì vero — basta leggere l’acuto saggio di Zygmunt Bauman Olocausto e modernità (101), cui ho già fatto riferimento —, che solo la modernità ha potuto offrire alla barbarie razzista del nazionalsocialismo tutta la strumentazione intellettuale e tecnico-operativa per perpetrare un misfatto come la Shoah. Ed è forse più dovuto all’indifferenza religiosa e all’accecamento nazionalistico e imperialistico degli Stati moderni se il genocidio di un popolo, in cui religione e appartenenza nazionale si confondono, non ha suscitato — al di là della propaganda durante e dopo la guerra — tutto il clamore e tutte le reazioni che avrebbe dovuto sollevare.
Riguardo al possibile nesso fra anti-giudaismo e anti-semitismo, per quanto concerne i cattolici, Papa Giovanni Paolo II credo abbia indicato una via di soluzione al problema includendo il tema della corresponsabilità di cristiani nelle persecuzioni contro gli ebrei fra le domande di perdono all’Altissimo, che ha pronunciato a nome della Chiesa cattolica il 12 marzo del 2000 in San Pietro durante la cerimonia espiatoria nell’ambito del Grande Giubileo del Millennio. Questo non equivale certo a dismettere la memoria della «catastrofe» del popolo ebraico d’Europa nel Novecento, né a cancellare eventuali colpe di cristiani. Ma compie un grande passo per superare un’impasse nei rapporti che rischia di diventare, da un lato, una sorta di stereotipa e perenne rivendicazione — se non addirittura una «industria» (102) — di una sorte tragica e unica, che però è ormai parte del passato e, dall’altro, in affannosa apologetica auto-difensiva. Giovanni Paolo II, anche con lo slogan «Duc in altum!» (prendi il largo) insegna invece che bisogna pensare al futuro di un mondo sempre più frantumato e apatico verso la proposta delle grandi religioni. Un futuro in cui, se tutti muteranno atteggiamento, convertendosi veramente al Dio della pace, realtà bestiali come l’Olocausto non potranno più riprodursi.
In conclusione, è una tragica verità che molti degli ebrei tedeschi, austriaci, cechi, polacchi, ucraini, bielorussi, russi, baltici, ungheresi, slovacchi, greci, rumeni, francesi, italiani hanno subito negli anni del nazionalsocialismo e del secondo conflitto mondiale un’ingiustizia e un «trattamento» omicida unici al mondo. Resta da chiedersi se si è indagato storicamente a sufficienza sulle possibilità esistenti d’intervenire contro la folle marcia della macchina di morte hitleriana e di sottrarle in ogni modo vittime. Dai tre studi che ho menzionato parrebbe di no e che l’area delle corresponsabilità indirette o morali dell’Olocausto sia ancora da illuminare adeguatamente. Battere, come si fa, su un unico tasto e scagliarsi contro un unico bersaglio — il più indifeso — è non solo sleale, ma miope. Infatti, far slittare un po’ alla volta le accuse, come è il caso di Kertzer, da Pio XII a «i papi» e poi, via via, all’intera Chiesa cattolica, può finire per mettere sul banco degl’imputati non solo il cristianesimo in quanto tale, ma, come potrebbe proseguire una certa e non poco pericolosa logica laicista, anche la religione tout court, ivi inclusa quella d’Israele. E non si tratta di un rischio solo teorico, ma di un «giro mentale», nominalmente anti-fondamentalistico, che affiora sempre più nitido in certi ambienti politici e culturali ancora fortemente ideologizzati, come, per esempio, in alcune delle forze politiche presenti nel Parlamento Europeo.
Vorranno gli storici riprendere le piste alternative individuate da Bauer e da Breitman e tenere in considerazione, a discarico dell’unico «imputato», Pio XII, gli elementi portati da padre Blet e dagli altri studiosi su cui mi sono soffermato? Oggi non vi sono più veti ideologici che impediscano d’indagare e i documenti, soprattutto quelli provenienti da archivi finora secretati, si stanno accumulando sempre più numerosi (103).
Già nuovi e non poco sconcertanti elementi emergono e richiedono di essere valutati: per esempio, i piani hitleriani per liquidare il cristianesimo, subito dopo aver sistemato l’ebraismo; il riutilizzo sovietico di alcuni Lager tedeschi e la cancellazione della tragedia ebraica in Polonia sotto il rullo compressore della sovietizzazione; le violenze dell’Armata Rossa contro gli ebrei di Budapest superstiti; l’atteggiamento negativo del generale Francisco Franco Bahamonde (1892-1975), il Caudillo della Spagna, verso l’Olocausto; le politiche eugenetiche eloquentemente simili a quelle nazionalsocialiste adottate da non pochi Stati democratici dell’Occidente di ieri e anche di oggi (104).
La Shoah va vista in relazione al mondo in cui si sviluppò e il mondo, già allora, era non poco complesso. è un evento che può essere considerato in un certo senso il punto di sbocco di un processo che coinvolge tutto un universo culturale e storico. Per questo non può essere isolata da tale contesto e le sue radici vanno cercate in tutte le realtà che «facevano» l’Occidente — e non solo — di quell’epoca storica, e non «ridotte» a un ristretto insieme di fenomeni, solo perché «politicamente corretti». Né pare lecito, peraltro, trasferire sul piano storico l’enormità e l’unicità che l’Olocausto ha sul piano morale, giudicando il comportamento degli uomini di allora in una prospettiva a-storica o, addirittura, pensando che allora tutto dovesse imperniarsi e ruotare intorno a questo evento, pur enormemente tragico, che non è e non deve diventare né la «pietra di paragone» dell’intera storia umana, né il criterio discriminante per ogni scelta futura (105). Il mondo che se lo trovò davanti reagì come poté, con informazioni e con le categorie interpretative del tempo, secondo i propri interessi, pressato da altri e altrettanto drammatici eventi, e anche, non ultimo, sulla base di non secondarie «simpatie» ideologiche per il regime hitleriano.
Solo se si terrà conto di questi criteri e dei nuovi elementi fattuali, la memoria dell’Olocausto potrà assumere una luce più nitida che, lungi dal far perdere i contorni dell’immenso dramma che esso fu, potrà restituirgli un’immagine più vera e destinata a integrarne in maniera ancor più efficace la storia, magistra vitae.
Note
(1) La tesi è espressa in maniera ormai «classica» nel volume dello storico britannico di orientamento marxista Eric J[ohn]. Hobsbawm, Il secolo breve, trad. it., 12a ed., Rizzoli, Milano 1997.
(2) Fra i migliori tentativi, cfr. Alain Besançon, Novecento il secolo del male. Nazismo, comunismo, Shoah, con una prefazione di Vittorio Mathieu, trad. it., Ideazione, Roma 2000; Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, trad. it., Rizzoli, Milano 1996; E. J. Hobsbawm, op. cit.; Robert Conquest, Il secolo delle idee assassine, trad. it., Mondadori, Milano 2001. Un’associazione internazionale di casa-madre tedesca, la Gesellschaft für Bedrohte Völker-Associazione per i Popoli Minacciati, nel 1999 ha calcolato in circa 250 milioni i morti nei conflitti e nelle persecuzioni di qualunque natura avvenuti nel XX secolo (cfr. l’intervista al presidente, Tilman Zülch, del 30-12-1999, nel sito <http://www.ines.org/apm-gfbv/2c-stampa/2-99/30-12-it.html>).
(3) Cfr. Aleksandr Isaevič Solženycin, Un mondo in frantumi. Discorso di Harvard, a cura di Sergio Rapetti, trad. it., La Casa di Matriona, Milano 1978.
(4) Per una stima delle vittime del comunismo cfr. R. Conquest, Richard Louis Walker, Stephen T. Hosmer, e James Oliver Eastland [(1904-1986)], trad. it., Il costo umano del comunismo, Edizioni del Borghese, Milano 1973; e — più prudenziale — Stéphane Courtois, Nicolas Werth, Jean-Louis Panné, Andrzej Paczkowski, Karel Bartosek, e Jean-Louis Margolin, Il libro nero del comunismo. Crimini, terrore, repressione, trad. it., Mondadori, Milano 1998; nonché Yves Ternon, Lo Stato criminale. I genocidi del XX secolo, trad. it., Corbaccio, Milano 1995, in part. p. 221.
(5) Sul contenuto e sulla interpretazione dei tre messaggi cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Il messaggio di Fatima, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2000.
(6) In generale, su Fátima cfr. Antonio Augusto Borelli Machado, Fatima: Messaggio di Tragedia o di Speranza? Con la terza parte del segreto, trad. it., Luci sull’Est, Roma 2000, nonché Lucia racconta Fatima. Memorie, lettere e documenti di Suor Lucia, con una presentazione e note di António Maria Martins S.J. [(1918-1997)], 4a ed. agg., trad. it., Queriniana, Brescia 2000. Sugli sviluppi della vicenda — la terza visita a Fátima di Papa Giovanni Paolo II per la beatificazione di due dei tre veggenti, Francisco (1908-1919) e Jacinta Marto (1910-1920) e la divulgazione del contenuto della terza parte del messaggio — cfr. il numero monografico della rivista Cristianità intitolato Fatima, la Chiesa e la Contro-Rivoluzione dei secoli XX e XXI (anno XXVIII, n. 301-302, Piacenza settembre-dicembre 2000). Un’originale lettura del ciclo di Fátima nella prospettiva di una storia «celeste», parallela a quella dell’età moderna, che si aprirebbe con i miracoli mariani del 1796 nello Stato pontificio e si concluderebbe con le apparizioni di Banneux in Belgio nel 1933, si trova nella seconda parte del volume di Vittorio Messori e Rino Cammilleri, Gli occhi di Maria, Rizzoli, Milano 2001.
(7) Il giornalista Antonio Socci, in un recente saggio, calcola in oltre quaranta milioni i cristiani uccisi per i motivi più diversi, ma tutti riconducibili alla fede, nel corso del XX secolo. Ancor oggi nel mondo, in media, centosessantamila cristiani ogni anno morirebbero martiri (cfr. A. Socci, I nuovi perseguitati. Indagine sulla intolleranza anticristiana nel nuovo secolo del martirio, con una prefazione di Ernesto Galli della Loggia, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 2002). L’apposita Commissione vaticana fino al 2001 ha censito 12.692 martiri, di cui 8.670 europei, 1.706 asiatici, 1.111 dell’ex Unione Sovietica, 746 africani, 333 americani e 126 dell’Oceania. Domenica 7 maggio 2000 ha avuto luogo la commovente Commemorazione ecumenica del Testimoni della Fede del Novecento, presieduta da Giovanni Paolo II a Roma, che chiudeva una giornata di celebrazione interconfessionale dei martiri del secolo XX.
(8) Apparso come articolo sul periodico dell’azione cattolica paulista Catolicismo nel 1959, è stato tradotto in italiano nel 1964: cfr. Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, trad. it., a cura di Giovanni Cantoni, Edizioni dell’Albero, Torino 1964.
(9) Cfr. Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, con un saggio introduttivo di G. Cantoni L’Italia fra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione e una lettera-prefazione di mons. Romolo Carboni [(1911-1999)], trad. it., 2a ed. it., Cristianità, Piacenza 1972; e Idem, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, con un saggio introduttivo di G. Cantoni L’Italia fra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione e lettere di encomio di mons. R. Carboni, trad. it., 3a ed. it. accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977, parte III «Rivoluzione e Contro-Rivoluzione» vent’anni dopo (pp. 167-195), in part. il cap. II Apogeo e crisi della III Rivoluzione (pp. 173-187) e il cap. III La IV Rivoluzione nascente (pp. 189-195). L’ultima edizione — la quarta — finora apparsa in Italia è quella realizzata da Luci sull’Est, Roma 1998.
(10) Mi pare particolaremnte «centrato» il titolo del libro di Raul Hilberg, La distruzione degli Ebrei d’Europa (trad. it., nuova edizione riveduta e ampliata, a cura di Frediano Sessi, 2 voll., Einaudi, Torino 1999), che è anche una delle più estese ed esaurienti — quasi 1.400 pagine — ricostruzioni della Shoah ebraica. Il lavoro di Hilberg — professore statunitense, ebreo nato in Austria ed emigrato negli Stati Uniti nel 1939 — è apparso nel 1961 e di nuovo, in edizione riveduta, nel 1988; non è sempre condivisibile nelle premesse filosofiche, soprattutto per la insistita mancanza di distinzione — peraltro difficile da spiegare in uno studioso di questa levatura — fra anti-semitismo razzista a sfondo biologico e anti-giudaismo «teologico» cristiano, una «confusione» portata fino al punto d’istituire paralleli fra la legislazione xenofoba e razzista del Terzo Reich e i limitati provvedimenti discriminatori, presi nei secoli da varie autorità religiose e politiche tedesche contro le comunità ebraiche, nonché da assimilare la posizione sugli ebrei di Martin Lutero (1483-1546) a quella cattolica, solo perché si tratta comunque di cristiani; su Lutero e gli ebrei cfr., per esempio, Ebrei razza dannata. Scritti antigiudaici di Lutero presentati dal teologo Walther Linden (1936), trad. it., ASEFI, Milano 1999, e Degli ebrei e delle loro menzogne, trad. it., Einaudi, Torino 2000.
(11) Cfr. per esempio, Zygmunt Bauman, sociologo inglese di origine polacca, autore di uno dei più lucidi saggi — non solo sulla Shoah, ma anche sul ruolo della sociologia come scienza e sulle condizioni di un’autentica civiltà — dedicati alla «catastrofe» ebraica, Modernità e Olocausto (trad. it., il Mulino, Bologna 1992).
(12) Sul punto cfr. A. Besançon, op. cit.; è istruttiva altresì la vicenda dello storico francese Reynald Secher, allievo di Pierre Chaunu, e delle polemiche non solo accademiche sollevate contro di lui dal suo fondamentale studio Le genocide franco-français. La Vendée-Vengé, con una prefazione di Jean Meyer e un’introduzione di P. Chaunu, 2a ed. riveduta e corretta, PUF, Parigi 1988 (trad. it., Il genocidio vandeano, Effedieffe, Milano 1991) in cui lo storico classifica con il nome di «genocidio» gli eccidi e le devastazioni commessi in Vandea — dipartimento francese dell’Ovest atlantico ribellatosi alle autorità rivoluzionarie nel 1793 — dalle truppe repubblicane negli anni 1794-1797.
(13) Sul genocidio degli armeni a opera del governo turco nel 1915, cfr. Claude Mutafian, Metz Yeghérn. Breve storia del genocidio degli armeni, trad. it., Guerini e Associati, Milano 1995, nonché Marco Impagliazzo, Finestra su un massacro. Documenti inediti sulla strage degli armeni (1915-1916), Guerini e Associati, Milano 2000. Cfr. anche padre Giovanni Sale S.J., Lo sterminio degli armeni, in La Civiltà Cattolica, anno 153, vol. I, quad. 3638, Roma 19 gennaio 2002, pp. 107-118; nonché padre Enrico Rosa S.J. [(1870-1938)], Le recenti stragi di Adana, ibid., anno 60, vol. 2, quad. 416, Roma 19 giugno 1909, pp. 733-740; e Le rinnovate stragi degli armeni nel 1914-15, ibid., anno 67°, quad. 1586, Roma 16 luglio 1916, pp. 251-254. Cfr. anche Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica in occasione del 1700° anniversario del battesimo del popolo armeno, del 2-2-2001; e padre Giovanni Marchesi S.J., Viaggio di Giovani Paolo II in Kazakistan e Armenia (22-27 settembre 2001), in La Civiltà Cattolica, anno 152, quad. 3632, Roma 20-10-2001, pp. 172-181 (pp. 178-181). Una rassegna e un tentativo di analisi dei genocidi in generale, dalla Vandea alla Cambogia, si trova in Y. Ternon, op. cit. Da poco tempo si comincia a prendere consapevolezza, anche al di fuori degli ambienti di destra, che furono i primi a interessarsene, della dimensione della tragedia costituita dall’invasione e dall’occupazione sovietica — ma anche alleata — del territorio del Reich nell’ultima fase della seconda guerra mondiale. In aggiunta alle migliaia di vittime dei bombardamenti aerei, fra omicidi e violenze sui civili, espulsioni forzate — per esempio dai Sudeti — e detenzione dei militari nei Lager alleati, si calcola che almeno tre milioni di cittadini tedeschi abbiano perso la vita alla conclusione del conflitto. Sul punto, cfr., fra gli altri, Jürgen Thorwald, La grande fuga. Incominciò alla Vistola la fine all’Elba, trad. it., Sansoni, Firenze 1964; e Marco Picone Chiodo, ...e malediranno l’ora in cui partorirono. L’odissea tedesca negli anni 1944-1949, Mursia, Milano 1988. Il tema è stato rilanciato quest’anno da E. Galli della Loggia (cfr. E. Galli della Loggia, Günther Grass e l’orrore rimosso dei civili tedeschi massacrati dagli Alleati, in Sette. Settimanale del Corriere della Sera, n. 8, Milano 21-2-2002, p. II).
(14) I primi, fra l’altro, a essere creati, e che tutto esistono in Cina, in Corea del Nord e a Cuba; cfr. A. Besançon, op. cit.; S. Courtois, N. Werth, J.-L. Panné, A. Paczkowski, K. Bartosek, e J.-L. Margolin, op. cit. Su una delle prime aree concentrazionarie del regime rivoluzionario sovietico, allestita nelle isole dell’estremo nord europeo, cfr. il volume, arricchito da numerose fotografie, Solovki. Le isole del martirio. Da monastero a primo lager sovietico, con una prefazione di Vittorio Strada, La Casa di Matriona, Milano 1999.
(15) Sul genocidio cambogiano cfr. Molyda Szymusiak, Il racconto di Peuw bambina cambogiana (1975-1980), con una prefazione di Natalia Ginzburg [(1916-1991)], trad. it., Einaudi, Torino 1986; e S. Courtois, N. Werth, J.-L. Panné, A. Paczkowski, K. Bartosek, e J.-L. Margolin, op. cit.
(16) Su questo tema cfr. Tom Segev, Il settimo milione. Come l’Olocausto ha segnato la storia di Israele, trad. it., Mondadori, Milano 2001 (il volume è uscito in inglese nel 1991).
(17) Il «caso Eichmann» — ossia il rapimento in Argentina del colonnello delle SS e uno dei massimi responsabili della macchina di sterminio nazionalsocialista Adolf Eichmann da parte dei servizi segreti israeliani e la sua condanna a morte in Israele dopo un processo cui i media di tutto il mondo dell’epoca diedero un risalto straordinario — segnò forse l’esordio di questo uso della Shoah in chiave politica. Per Israele «il processo Eichmann [...] segnò una svolta. La Shoah divenne un avvenimento centrale e per alcuni aspetti fondante, base di legittimità» (A. Besançon, op. cit., p. 25); cfr. anche Z. Bauman, op. cit., p. 29. Bauman riferisce espressioni significative di Abba Solomon Eban, ex ministro degli Esteri israeliano, il quale, in polemica con l’avversario politico, ex primo ministro e Premio Nobel per la pace, Menahem Begin (1913-1992), contro l’abuso politico della Shoah avrebbe affermato «È tempo che noi ci reggiamo sulle nostre gambe, non su quelle di sei milioni di morti» (cit. in Michael Robert Marrus, Is there a New Antisemitism?, in Antisemitism in the Contemporary World, a cura di M. Curtis, Westview Press, Boulder (Colorado)1986, pp. 177-178).
(18) Chi, come il sottoscritto, ha avuto la sorte di frequentare le scuole superiori negli anni del primo centro-sinistra ricorda la intensa campagna di sensibilizzazione «anti-fascista» condotta nella e dalla scuola, nel cui contesto la Shoah — che ancora non era conosciuta con questo nome — veniva largamente strumentalizzata per creare complessi di colpa negli studenti anti-comunisti e per modificarne gli orientamenti politici. Anche quanto accaduto nel 2000 con il cosiddetto «caso Haider» — ossia l’accesso al governo nazionale austriaco della FPÖ, la Freiheitspartei Österreichs, il partito liberal-nazionale guidato da Jörg Haider — pare illuminante a questo proposito. Ciononostante, il mondo di sinistra italiano è stato in diversi periodi — in genere ricalcando l’evoluzione della politica sovietica — tutt’altro che benevolo nei confronti dell’ebraismo; cfr., sul tema, Maurizio Molinari, La sinistra glie ebrei in Italia. 1967-1993, con una prefazione di Vittorio Dan Segre, Corbaccio, Milano 1995. Un lungo discorso meriterebbe il trattamento riservato agli ebrei dai sovietici e dai vari governi del «socialismo reale»: cfr., per esempio, Louis Rapoport, La guerra di Stalin contro gli ebrei, trad. it., Rizzoli, Milano 1991; E. Caretto, Stalin, la notte di sangue degli ebrei, in Corriere della Sera, Milano 5-6-2001; e, infine, Dario Fertilio, 71La Shoah della memoria». Questa volta sotto la stella rossa, ibid., 4-2-2002.
(19) L’ultimo episodio di rilievo del crescendo di questa ininterrotta campagna è il discusso film Amen del regista franco-greco Konstantinos Gavras, detto «Costa-Gavras», noto per il suo impegno politico in senso progressista, presentato nel febbraio del 2002 al Festival del Cinema di Berlino. La pellicola è largamente ispirata al dramma Il Vicario di Rolf Hochhuth. Particolarmente inquietante è il logo pubblicitario della pellicola, ideato da Oliviero Toscani, in cui una croce cristiana rossa si prolunga e «sfuma» nella croce uncinata nazionalsocialista: cfr. Corriere della Sera, Milano 14-2-2002. Numerose le reazioni contro il film ancor prima della sua uscita: fra le quali segnalo Ronald J. Rychlak, The Church and the Holocaust. Attempts to paint Pius XII as a coward who turned a blind eye to the Holocaust are wrong, in The Wall Street Journal Europe, 28/31-3-2002; Giovanni Belardelli, Una croce la svastica (e amen), in Corriere della Sera, 19-3-2002; Miriam Lau, Wer’s glaubt, wird selig, in Die Welt, 14-2-2002 (ripresa in Giovanni Maria del Re, Shoah e polemiche, «Amen» arriva in Italia, in Avvenire. Quotidiano di ispirazione cattolica, 14-4-2002); padre Giovanni Sale S.J., Così salvò molti più ebrei, in Famiglia Cristiana, anno LXXII, n. 15, Alba (Cuneo) 14-4-2002, p. 67; Paul Thibaud, Ma l’Olocausto non fu solo colpa dei cristiani, in Avvenire. Quotidiano di ispirazione cattolica, 14-4-2002. Gavras ha puntualizzato che la sua accusa contro Pio XII (1939-1958) non è tanto di filo-nazismo, quanto di filo-germanismo (cfr. l’intervista realizzata da Francesca Pini, «Pio XII? Filonazista no, filogermanico sì», in Sette, settimanale del Corriere della Sera, n. 13, Milano 28-3-2002, pp. 144-149) e che il film sarebbe in realtà un’unica invettiva contro «l’indifferenza» (cfr. Paolo Romani, Un film «politico», in Famiglia Cristiana, cit., pp. 64-67) e «contro tutti i crimini contro l’umanità perpetrati in questo terribile Novecento» (cit. in G. M. del Re, art. cit.).
(20) è sufficientemente eloquente, a questo riguardo, la vicenda della commissione storica internazionale mista — composta da tre studiosi cattolici e tre ebrei, nominati, rispettivamente, dalla Commissione per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo (CRRE) della Santa Sede e dal Comitato Ebraico Internazionale per le Consultazioni Interreligiose (IJCIC) —, scioltasi nel luglio 2001 in seguito alla reazione vaticana contro le insinuazioni di omertà — così è stato letto il rigetto della richiesta ultimativa di rendere pubblici i documenti relativi al pontificato di Pio XII conservati negli archivi vaticani —, formulate all’unisono dagli studiosi cristiani e da quelli ebrei; sulla vicenda esiste un nutrito eco-stampa: cfr., fra gli altri, Vaticano e Shoah: le chiarificazioni della Santa Sede, in L’Osservatore Romano, Città del Vaticano 8-8-2001, e Card. Walter Kasper, Comunicato della Commissione per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo, ibid., 28-8-2001; il testo del rapporto semi-finale della Commissione può essere letto in trad. it. in Adista. Documenti, rassegne, dossier su mondo cattolico e realtà religiose, n. 82, suppl. al n. 5619, Roma, 20-11-2000, pp. 2-12. Nei primi mesi del 2002 è giunta notizia (cfr. padre Sergio Pagano B. e padre Marcel Chappin S.J., Nuove prospettive per l’apertura degli Archivi Vaticani a riguardo del Pontificato di Pio XI, in L’Osservatore Romano, Città del Vaticano 16-2-2002) della decisione vaticana di rendere disponibili, con alcune limitazioni, a partire dal 2003 i documenti relativi al pontificato di Pio XI (1922-1939), e, nell’arco di alcuni anni, anche quelli riguardanti Pio XII. Poco dopo si è anche appreso che l’arcivescovo di Parigi, cardinale Jean-Marie Lustiger, ha proposto all’ambasciatore d’Israele in Francia, Eli Bar-Navi, di ricostituire la commissione mista. La dirigenza ebraica avrebbe posto due condizioni per dare il suo assenso: l’apertura totale degli archivi vaticani e una «ragionevole» composizione del gruppo (cfr. Yair Sheleg, The Vatican wants Tel Aviv University on new committee on Nazi-era papacy, in Ha’aretz (ed. inglese), Tel Aviv 28-2-2002).
(21) Cfr. l’epilogo del racconto di Joseph Conrad [(1857-1924)], Cuore di tenebra (trad. it., Einaudi, Milano 1989, p. 123), alla cui metafora, in senso lato, «anti-moderna» non sembra del tutto estraneo il tema dello sterminio «razionale».
(22) «I nostri fratelli prediletti e in un certo modo si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori», Giovanni Paolo II, Discorso alla Sinagoga di Roma, del 13-4-1986, in AAS, 78, 1986, p. 1120.
(23) Sui rapporti fra cristianesimo ed ebraismo, i materiali abbondano: per rendersene conto basta svolgere una ricerca in Internet sotto la voce (in inglese) «relazioni ebraico-cristiane». Gli studi in tema risentono della svolta nei rapporti verificatasi in coincidenza con il Concilio Vaticano II (1962-1965) e con il mutato orientamento cattolico — che parte dal riconoscimento della comune radice abramitica —, culminato con la visita del Papa alla sinagoga di Roma nel 1986 e con la cerimonia espiatoria svoltasi in San Pietro nel corso dell’anno giubilare. Il mutamento è inteso a rivedere profondamente, non solo in termini teorici, il tradizionale atteggiamento di cautela e di separazione tenuto dalle autorità cattoliche — ma non solo da esse — verso gli ebrei. Fino al Concilio gli studi riflettono, con maggiore o minore qualità, tale orientamento antagonistico. Esso diviene particolarmente accentuato e si fa meno dottrinalmente nitido nei primi decenni del secolo XX, quando la questione ebraica viene agitata in maniera sempre più acuta nell’opinione pubblica dai movimenti nazionalistici. Gli studiosi dediti a questo argomento si limitano nella loro generalità a cercare di scoprire dove l’avversario può nuocere e come meglio difendere la Chiesa. In questa prospettiva si situa l’elaborazione e la propagazione di una serie di teorie debolmente fondate, come quella degli ebrei «signori dell’oro», anima del complotto rivoluzionario anti-cristiano, in cui l’ebraismo internazionale sarebbe legato in maniera occulta alla massoneria, teorie che verranno in breve tempo abbandonate nel periodo successivo al Vaticano II. Oggi, da parte cattolica, sono forse più abbondanti i documenti e gli studi promossi direttamente dagli organi vaticani, che non i contributi accademici. Indipendentemente dai diversi accostamenti al problema, particolarmente equilibrati paiono, fra i numerosi studi: Antonino Romeo [(1902-?)], voce Antisemitismo, in Enciclopedia Cattolica (Ente per l’Enciclopedia Cattolica e per il Libro Cattolico, Città del Vaticano 1952, vol. I, coll. 1494-1505); Erik Peterson, Il mistero degli ebrei e dei gentili nella Chiesa, trad. it., Comunità, Milano 1960; la dichiarazione della Commissione per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo, Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah (EDB, Bologna 1998); le relazioni dell’incontro Radici dell’antigiudaismo in ambiente cristiano. Colloquio intra-ecclesiale. Atti del Simposio Teologico-storico, Città del Vaticano, 30-10/1-11-1997, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2000; Jacques Maritain [(1882-1973)], Il mistero di Israele, con una introduzione di Vittorio Possenti, trad. it., n. ed. aumentata, Massimo, Milano 1992; padre Marcel-Jacques Dubois O.P., Status quaestionis della problematica, in Radici dell’antigiudaismo in ambiente cristiano. Colloquio intra-ecclesiale. Atti del Simposio Teologico-storico, Città del Vaticano, 30-10/1-11-1997, cit., pp. 21-53.
(24) Sull’anti-giudaismo tradizionale cattolico cristiano e sulla sua pretesa indistinguibilità, almeno morale, dall’antisemitismo moderno e dall’imputazione di responsabilità dell’Olocausto, cfr. David I[srael]. Kertzer, The Popes Against the Jews. The Vatican’s Role in the Rise of Modern Anti-Semitism, Random House, New York (New York) 2001 (trad. it., I papi contro gli ebrei. Il ruolo del Vaticano nell’ascesa dell’antisemitismo moderno, Rizzoli, Milano 2002), che riecheggia, sforzandosi di suffragarle con documenti storici — anche provenienti da archivi vaticani, fra cui quello dell’Inquisizione, aperto nei primi mesi del 1998 —, tesi assai critiche sul cattolicesimo, enunciate nei primi anni del secondo dopoguerra dall’intellettuale francese Jules Marx Isaac (1877-1963) — noto soprattutto per due opere: Gesù e Israele, con una prefazione di Marco Morselli, trad. it., 2a ed., Marietti, Genova 2001; e Genèse de l’antisémitisme. Essai historique, Calmann-Levy, Parigi 1956 — e che grande influenza ebbero sulla redazione del paragrafo 4 (La religione giudaica) della dichiarazione conciliare «sulle relazioni della Chiesa Cattolica con le religioni non cristiane» Nostra Aetate, del 28-10-1965. Tema analogo è trattato in Michael Phayer, La Chiesa cattolica e l’Olocausto. L’evoluzione del pensiero ecclesiastico dall’ascesa di Adolf Hitler alla condanna ufficiale dell’antisemitismo nel 1965, trad. it., Newton & Compton, Roma 2001. La traduzione italiana del saggio di Kertzer ha sollevato diverse reazioni fra cui segnalo quella di padre Giovanni Sale S.J., Altro che «leggenda nera», i gesuiti non furono mai antisemiti, in Corriere della Sera, Milano 28-2-2002; cui è seguita la replica di Kertzer in La Chiesa e la trappola del «sano antisemitismo», ibid., 26-2-2002.
(25) Anche su questo argomento la letteratura è talmente abbondante, il ritmo di uscita dei nuovi titoli — frutto non sempre di studi originali — è così vorticoso, se non fluviale, che anche limitandosi ai saggi ed escludendo quindi le rievocazioni, la letteratura pedagogica, i romanzi, è impossibile darne un conto adeguato. Fra le opere migliori dal punto di vista informativo e per l’equilibrio delle valutazioni si segnalano Arno J[oseph]. Mayer, Soluzione finale. Lo sterminio degli ebrei nella storia europea, trad. it., Mondadori, Milano 1999; Daniel J[onah]. Goldhagen, I volonterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’Olocausto, trad. it., Oscar Mondadori, Milano 1998, che ha sollevato non poche reazioni al suo apparire e anche in seguito: cfr. Sam Schulman, Goldhagen to Christianity: Whatever You’re Doing, Stop It!, in Jewish World Review, 22-1-2001(periodico elettronico, cinque numeri la settimana, reperibile al sito <http://www.jewishworldreview.com>); Christopher R[obert]. Browning, Uomini comuni. Polizia tedesca e «soluzione finale» in Polonia, n. ed., trad. it., Einaudi, Torino 1999; Idem, Verso il genocidio, trad. it., il Saggiatore, Milano 1998; R. Hilberg, Carnefici, vittime, spettatori. La persecuzione degli ebrei. 1933-1945, trad. it., Mondadori, Milano 1997; Vincenzo Pappalettera, Dalla democrazia alla dittatura. Nazismo e Olocausto, Mursia, Milano 1996; ed Enzo Collotti, La soluzione finale. Lo sterminio degli ebrei, Tascabili Economici Newton, Roma 1995.
(26) Sulla tutto sommato breve — quattordici anni — parabola del nazionalsocialismo e del suo fondatore e condottiero (Führer), Adolf Hitler (1889-1945), le opere sono ormai numerosissime: un accostamento innovativo si può trovare in Rainer Zitelmann, Hitler, trad. it., Laterza, Roma-Bari 1991. Per i caratteri totalitari dello Stato tedesco durante il nazionalsocialismo, cfr. Norbert Frei, Lo Stato nazista, trad. it., Laterza, Roma-Bari 1992. Un’interpretazione ampia e originale, che colloca il nazionalsocialismo nella prospettiva dell’intera storia tedesca, è quella del pensatore cattolico svizzero Gonzague de Reynold (1880-1970) (cfr. G. de Reynold, D’où vient l’Allemagne?, Plon, Parigi 1939). L’opera — assai ricca di dottrina storica e di pregevoli riferimenti culturali — è stata ultimata verso la fine del settembre 1939, a seconda guerra mondiale iniziata da pochi giorni. Dai soli sette anni di storia del potere hitleriano de Reynold trae un nutrito gruppo di validi elementi di giudizio sul fenomeno, che noi, con altri sette tragici anni davanti agli occhi, non possiamo che confermare. Egli propende per caratterizzare, al di là dei suoi trend arcaistici, il nazionalsocialismo come Rivoluzione, anzi come l’unica forma — sociale, ma fondata e dominata dal nazionalismo etnico — che la Rivoluzione moderna può assumere in un popolo come quello germanico. è infine sorprendente vedere come, con davanti a sé solo i primi esordi di un conflitto ancora limitato come quello tedesco-polacco, egli riesca a intuire il gigantesco scontro che si prepara e le gravi conseguenze che avrà per l’Europa e per il mondo. Merita di essere segnalata anche l’articolata analisi del sociologo nuovayorchese Peter Viereck, che, fra i diversi punti di contatto con la prospettiva di de Reynold, annovera la tesi che alle radici del nazionalsocialismo sta il ricupero dell’Ur germanico attuato dal romanticismo tedesco (cfr. P. Viereck, Dai romantici a Hitler, trad.it., Einaudi, Torino 1948, pubblicato il lingua originale nel 1942). Per un’interessante ricostruzione dell’ascesa del nazionalsocialismo e del clima culturale che s’instaura in Germania negli anni 1930, cfr. anche François Fédier, Venire a maggior decenza, prefazione a Martin Heidegger [(1889-1976)], Scritti politici (1933-1966), a cura di Gino Zaccaria, trad. it., Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 1998, pp. 21-125.
(27) Sul primo aspetto, la qualità della letteratura è inversamente proporzionale alla sua quantità: mi limito a segnalare per la sua serietà il lavoro di Nicholas Goodrick-Clarke, Le radici occulte del nazismo, a cura di Massimo Introvigne, trad. it., SugarCo, Milano 1993.
(28) Sulla compresenza — non casuale — all’interno della cultura nazionalsocialista di motivi pre-cristiani e pre-moderni e di un’ammirazione sconfinata della tecnica, dell’industrialismo e della propaganda moderna, cfr., fra gli altri, Jeffrey Herf, Il modernismo reazionario. Tecnologia, cultura e politica nella Germania di Weimar e del Terzo Reich, trad. it., il Mulino, Bologna 1988; nonché George L[achmann]. Mosse, Intervista sul nazismo, a cura di Michael A[rthur]. Ledeen, Laterza, Roma-Bari 1977, p. 27. Anche P. Viereck rileva questo aspetto, estendendolo un po’ a tutto l’uomo-massa del 1900, quando scrive: «Noi non abbiamo saputo educare le contrariate masse ai fari universali della civiltà. Il risultato sono scimmie in abito da sera, uomini di Neanderthal su aeroplani carichi di bombe, Barbari molto abili e intelligenti che si affrettano affabilmente in automobili ultimo modello, applicando a fini non civili le più alte conquiste tecniche della civiltà» (P. Viereck, op. cit., p. 331). Cfr. anche l’espressione «Attila motorizzato», usata — ne fu testimone il cardinale Domenico Tardini (1888-1961), che ne parlò con Vladimir d’Ormesson (1888-1973) — da Pio XII per indicare Hitler (cfr. ANSA, 26-2-2002; e D. Fertilio, E Pio XII confidò: temo il nazismo più dei comunisti, in Corriere della Sera, Milano 27-2-2002). Per l’influenza dell’ideologia del Blut und Boden («sangue e suolo») sulla politica del regime hitleriano verso gli ebrei e le «sotto-razze» slave, cfr. anche Édouard Conte e Cornelia Essner, Culti di sangue. Antropologia del nazismo, trad. it., Carocci, Roma 2000.
(29) Un compendio delle dottrine del nazionasocialismo si può trovare nel celebre volume di Alfred Rosenberg (1893-1946), Der Mythus des 20sten Jahrhunderts, apparso nel 1930 (trad. it., Il mito del 20° secolo. La lotta per i valori, Edizioni del Basilisco, Genova 1981.
(30) È noto il culto della natura e l’amore per la vita vagabonda imperanti fra la gioventù studentesca tedesca e, in particolare, nel movimento proto-nazionalsocialista dei Wandervögel (uccelli migratori), come pure è nota la presenza di elementi culturali pre-ecologisti nel movimento di Walther Darré (1895-1953), che dal 1939 al 1942 resse il dicastero dell’Agricoltura del Reich: su di lui cfr. Anna Bramwell, Ecologia e società nella Germania nazista. Walther Darré e il partito dei verdi di Hitler, trad. it., Reverdito, Trento 1985; nonché il vegetarianesimo e il divieto di fumare imposto da Hitler al suo entourage; sui Wandervögel e il loro ruolo di precursori dell’ecologismo, cfr. Nicola Cospito, I Wandervögel. La gioventù tedesca da Guglielmo II al nazionalsocialismo, Editrice Il Corallo, Padova 1984; e, sul fumo, Robert N. Proctor, La guerra di Hitler al cancro, trad. it., Raffaello Cortina, Milano 2000.
(31) Sull’operazione «T4» — da Tiergartenstraße n. 4, indirizzo dell’ufficio incaricato, presso la cancelleria del Reich — cfr. il volume, uscito per la prima volta in Germania nel 1948 e riproposto nel 1993, di Alice Ricciardi von Platen, Il nazismo e l’eutanasia dei malati di mente (trad. it., Casa Editrice Le Lettere, Firenze 2000). Prospettive e progetti analoghi, tradottisi anche in leggi dello Stato, furono coltivati, anche e talora prima che nella Germania nazionalsocialista, in paesi democratici come le monarchie scandinave e gli Stati anglosassoni: sui primi, cfr. Piero S. Colla, Per la Nazione e per la Razza. Cittadini ed esclusi nel «modello svedese», Carocci, Roma 2000; sui secondi, cfr. Maurizio Blondet, Razza pura «made in USA», in Avvenire. Quotidiano di ispirazione cattolica, Milano 29-8-2000; Antonio Gaspari, Spiritualmente siamo semiti, in Tempi, anno 8, n. 6, Milano 7-2-2002, p. 21; Fulvio Giongo, Le tristi fucine di Ippocrate, in Avvenire. Quotidiano di ispirazione cattolica, Milano 9-3-2002 [recensione del volume di Raffaella De Franco, In nome di Ippocrate, Franco Angeli, Milano 2002]; nonché R. N. Proctor, op. cit.
(32) Per una descrizione di questi sentimenti all’interno delle famiglie ebraiche tedesche si può leggere Fred Uhlman, L’amico ritrovato, in Trilogia del ritorno [L’amico ritrovato. Un’anima non vile. Niente resurrezioni, per favore], con una introduzione di Arthur Koestler (1905-1983), trad. it., SuperPocket, Milano 1998, pp. 9-78, in particolare la pagina 74, dove descrive il suicidio — probabilmente nel 1933 — del proprio padre, medico ebreo, vecchio e fedele ufficiale del Kaiser Guglielmo II (1859-1941).
(33) Cfr. R. Hilberg, La distruzione degli Ebrei d’Europa, cit., vol. I, p. 20.
(34) Forti sentimenti anti-ebraici alligneranno comunque nell’intellettualità occidentale dell’Ottocento; tipica espressione per la Francia ne è Edouard Adolphe Drumont (1844-1917); sulla Germania, cfr. Massimo Ferrari Zumbini, Le radici del male. L’antisemitismo in Germania: da Bismarck a Hitler, il Mulino, Bologna 2001; su tutta la vicenda, cfr., per esempio, Ernst Nolte, Il fascismo nella sua epoca, trad. it., SugarCo, Milano1993.
(35) Per un profilo della storia delle comunità ebraiche dei Balcani e dell’Europa orientale, cfr., fra i molti, Marco Brunazzi e Anna Maria Fubini (a cura di), Gli ebrei dell’Europa orientale dall’utopia alla rivolta, Edizioni di Comunità, Milano 1985.
(36) Cfr. Hannah Arendt, Ebraismo e modernità, trad. it., Feltrinelli, Milano 1998.
(37) Cfr. Antonio Messineo S.J. [(1897-1978)], voce Minoranze nazionali, in Enciclopedia Cattolica, cit., vol. VIII, coll. 1046-1050.
(38) Sulla politica razziale del Terzo Reich, cfr. anche Michael Burleigh e Wolfgang Wippermann, Lo Stato razziale. Germania 1933-1945, trad. it., Rizzoli, Milano 1992.
(39) Cfr. Saul Friedländer, La Germania nazista e gli ebrei. Gli anni della persecuzione (1933-1938), trad. it., Garzanti, Milano 2001.
(40) Così — dall’«Asse Roma-Berlino « — veniva comunemente chiamata l’intesa di mutuo appoggio — non una vera e propria alleanza — fra Italia e Germania, sottoscritta nel 1936.
(41) Dopo la spartizione della Polonia fra Germania e URSS 2.100.000 ebrei polacchi erano rimasti nella zona tedesca e 1.100.000 nell’altra zona; 350.000 erano poi fuggiti nella zona sovietica: cfr. A. Mayer, op. cit., p. 192.
(42) I nazionalsocialisti continuarono a uccidere i loro prigionieri almeno fino all’ultimo: Fey von Hassell, figlia dell’ex ambasciatore tedesco in Italia Ulrich von Hassell (1881-1944), esponente della resistenza anti-hitleriana giustiziato dopo l’attentato del 20 luglio 1944, sposata a un nobile italiano, venne presa come ostaggio dalle SS con altri personaggi illustri e liberata solo fortuitamente in Alto Adige il 25 aprile 1945, dopo avere appreso che la data prevista per l’esecuzione degli ostaggi era stata fissata per il 29 aprile! (cfr. F. von Hassell, Storia incredibile. Dai diari di una «prigioniera speciale» delle SS, con una prefazione di Gabriele De Rosa, Morcelliana, Brescia 1987; n. ed. rivista: I figli strappati. 1932-1945: dall’Ambasciata di Roma ai Lager nazisti, Edizioni dell’Altana, Roma 2000); sul padre, cfr. U. von Hassell, Diario segreto 1938-1944. L’opposizione tedesca a Hitler, con una prefazione di Sergio Romano, trad. it., Editori Riuniti, Roma 1996.
(43) Cfr. A. Mayer, op. cit., p. 215.
(44) Questi gruppi incaricati di condurre azioni speciali contro i nemici del Reich — non solo ebrei ma anche emigrati politici, comunisti, cattolici, intellettuali — erano già stati sperimentati nel 1938 subito dopo la conquista della provincia dei Sudeti, in Cecoslovacchia, poi in Austria, in Boemia e in Moravia, infine utilizzati in pieno durante la campagna polacca del 1939; su di essi cfr. C. R. Browning, Uomini comuni. Polizia tedesca e «soluzione finale» in Polonia, cit.; e A. Mayer, op. cit., pp. 168 e 186 (per la Polonia).
(45) Su questo tema cfr. il controverso David E[dward]. Stannard, Olocausto americano. La conquista del Nuovo Mondo, trad. it., Bollati Boringhieri, Milano 2001.
(46) Sull’insurrezione del ghetto di Varsavia, cfr. George Bruce, L’insurrezione di Varsavia. 1 agosto-2 ottobre 1944, trad. it., Mursia, Milano 1978.
(47) Contrariamente a quanto si pensa, non tutti i quindici partecipanti erano gerarchi nazionalsocialisti di massimo livello: vi erano sottoposti di Himmler — fra cui Heydrich, Eichmann e Rudolf Erwin Lange (1910-1945), capo dell’Einsatzkommando n. 2 —, esponenti della burocrazia e autorità di polizia del Governatorato Generale, la zona di occupazione tedesca in Polonia: cfr. C. [R.] Browning, voce Wannsee Conference, in Encyclopedia of the Holocaust, a cura di Ysrael Gutman, Simon & Schuster, New York (New York) 1990, vol. IV, pp. 1591-1594; e R. Hilberg, La distruzione degli Ebrei d’Europa, cit., vol. I, pp. 441-444. Si noti anche il carattere meramente organizzativo dell’incontro, il quale lascia supporre che la decisione finale fosse già stata presa dai vertici; per i partecipanti e per un sunto del dibattito, cfr. Michael Berenbaum (a cura di), Witness to the Holocaust, Harper Collins, New York (New York) 1997.
(48) Secondo Z. Bauman, uno sforzo di liquidazione così vasto non sarebbe pensabile senza la potenza degli apparati burocratici degli Stati moderni; cfr. op. cit., passim.
(49) Cfr. A. Besançon, op. cit., p. 96.
(50) Cfr. Yehuda Bauer, Ebrei in vendita? Le trattative segrete fra nazisti ed ebrei. 1933-1945, trad. it., Mondadori, Milano 1998, p. 95.
(51) Cfr. le considerazioni di Z. Bauman, in op. cit., soprattutto nel capitolo V, La sollecitazione della cooperazione delle vittime (pp. 167-210).
(52) Per una mappa e una classificazione dei centri di sterminio, cfr. A. Mayer, op. cit., pp. 2-3, e R. Hilberg, La distruzione degli Ebrei d’Europa, cit., vol. II, pp. 975-1.089, nonché Joël Kotek e Pierre Rigoulot, Il secolo dei campi. Detenzione, concentramento e sterminio. 1900-2000, trad. it., Mondadori, Milano, 2001. Alcuni campi tedeschi verranno riattivati dai sovietici dopo il 1945 e destinati a ospitare i prigionieri della Wehrmacht e delle SS in condizioni non dissimili da quelle dei deportati ebrei e con alto tasso di mortalità; sul tema cfr. James Bacque, Gli altri Lager. I prigionieri tedeschi nei campi alleati in Europa dopo la 2a guerra mondiale, trad. it., Mursia, Milano 1993, sul quale, cfr. Mario Lombardo, Soluzione finale made in USA, in Storia Illustrata, suppl. al n. 2.062 di Epoca, Mondadori, Milano 15 aprile 1990, pp. 8-19. Bacque calcola che nei campi alleati siano morti circa un milione di prigionieri tedeschi su un totale di sei milioni.
(53) Cfr. Primo Levi, Se questo è un uomo. La tregua, Einaudi, Torino 1989.
(54) I campi di concentramento pare siano stati inventati dai britannici durante la guerra anglo-boera del 1899-1902 in Sudafrica: sul tema cfr. Andrzej J[ozef]. Kamiski, I campi di concentramento dal 1896 a oggi. Storia, funzioni, tipologia, trad. it., Bollati Boringhieri, Torino 1998.
(55) A questo riguardo è esemplare il modo in cui muore il francescano polacco Massimiliano Maria Kolbe (1894-1941), poi canonizzato dalla Chiesa cattolica, lasciato morire di fame e poi eliminato con una iniezione venefica.
(56) Cfr. Y. Bauer, op. cit. (il volume è uscito in lingua originale nel 1994). Bauer è stato direttore dell’International Center for Holocaust Studies al memoriale Yad Vashem di Gerusalemme, mentre ora è senior academic advisor, consultore accademico anziano, dello stesso Centro. Per quarant’anni è stato professore di studi sull’Olocausto all’Università Ebraica di Gerusalemme. Nel 1982 ha fondato il centro internazionale per lo studio dell’anti-semitismo Vidal Sasoon. Ha anche insegnato alla Yale University a New Haven (Connecticut), all’University of Honolulu a Manoa (Hawaii) e al Richard Stockton College del New Jersey. Dal 1970 a oggi ha scritto oltre venti volumi sul tema dell’Olocausto, l’antisemitismo e la storia d’Israele, pubblicati in tutto il mondo.
(57) Sul tema cfr. Carla Tonini, Operazione Madagascar. La questione ebraica in Polonia. 1918-1968, Clueb, Bologna 1999. è interessante la tesi della studiosa dell’Università di Padova, secondo cui l’anti-semitismo sarebbe una costante della politica dei governi polacchi dagli anni 1920 in poi, entrando perfino nel programma politico del governo polacco in esilio fra il 1939 e il 1945 e trovando il suo coronamento fattuale nell’espulsione degli ebrei polacchi attuata dopo il 1968 dal governo comunista.
(58) Y. Bauer, op. cit., p. 71.
(59) Cfr. ibid., p. 82.
(60) Sulla statura morale di mons. Tiso, tutt’altro che rispecchiata dalla condanna a morte inflittagli dal governo comunista, cfr. [padre] Michele Lacko [S.J. (1920-1982)], voce Tiso, Jozef, in Enciclopedia Cattolica, cit., vol. XII, coll. 142-143; cfr. anche il manuale di storia di [padre] Milan S. Durica [S.D.B.], Dejiny Slovenska a Slovàkov (Storia della Slovacchia e degli Slovacchi), 2a ed. completata, Slovenské Pedagogické Nakladatel’stvo, Bratislava 1996, su cui cfr. Yann Gayet, Sur l’Histoire de la Slovaquie et des Slovaques de Milan S. Durica, in La Revue universelle des faits et des idées, n. 189, Parigi giugno-agosto 1997, pp. 25-31.
(61) Cfr. anche quanto riferito dal colonnello Klaus Schrenk von Stauffenberg (1907-1944), l’attentatore di Hitler del 20 luglio 1944, che nel 1942 si trovava in servizio presso lo Stato Maggiore germanico, in Wolfgang Venhor, L’identità tedesca e il caso Stauffenberg, trad. it., Rusconi, Milano 1988, in part. alle pp. 159-165.
(62) Y. Bauer, op. cit., p. 190.
(63) Cfr. ibid., p. 198.
(64) Ibid., p. 208.
(65) Cfr. Y. Bauer, op. cit., pp. 244-248.
(66) Cfr. ibid., p. 267.
(67) Cfr. ibid., pp. 272-273.
(68) Cfr. ibid., p. 274.
(69) Su Perlasca, cfr. Enrico Deaglio, La banalità del bene. Storia di Giorgio Perlasca, Feltrinelli, Milano 1991; e Giorgio Perlasca, L’impostore, il Mulino, Bologna 1997, che raccoglie un importante promemoria autobiografico del 1946 (Promemoria sull’opera svolta da Giorgio Perlasca in Ungheria a favore dei perseguitati politici e razziali (redatto su richiesta dello scrittore ungherese JenőLevai), pp. 5-77), nonché altri brani apparsi postumi.
(70) Y. Bauer, op. cit., p. 310.
(71) Cfr. ibid., p. 76.
(72) Cfr. James Bryce [(1838-1922)], Relazione della Commissione d’Inchiesta sulle atrocità tedesche nominata dal Governo di Sua Maestà Britannica e presieduta dall’On. Visconte Bryce, O. M., ecc., ecc. già Ambasciatore britannico agli Stati Uniti, trad. it., Vincenzo Bartelli & C., Perugia 1914.
(73) Cfr. Y. Bauer, op. cit., pp. 103-104.
(74) Cfr. Michael Berenbaum e Michael J. Neufeld (a cura di), The Bombing of Auschwitz: Should the Allies Have Attempted It?, St. Martin’s Press, New York (New York) 2000.
(75) Cfr. Richard Breitman, Il silenzio degli Alleati. La responsabilità morale di inglesi e americani nell’Olocausto ebraico, trad. it., Mondadori, Milano 2000. Docente all’università di Washington, è dirigente dell’U. S. Holocaust Museum e direttore di ricerca per conto del governo federale. Breitman è già noto in Italia per una fondamentale biografia di Himmler (The Architect of Genocide: Himmler and The Final Solution (trad. it., Himmler, il burocrate dello sterminio, Mondadori, Milano 1991). Ha scritto ancora: German Socialism and Weimar Democracy; Breaking the Silence; American Refugee Policy and European Jewry, 1933-1945 (con Alan Kraut); e Official Secrets: What the Nazis Planned, What the British and Americans Knew.
(76) Cfr. A. Hitler, La mia battaglia, trad. it., Edizioni Homerus, Roma 1971; e Idem, La mia vita, trad. it., 11a ed., Valentino Bompiani, Milano 1941. I due volumi furono redatti nel 1925-1926 durante il periodo in cui Hitler fu imprigionato nel carcere di Landsberg in Baviera, dopo il fallito putsch di Monaco del 1923. I libri furono disponibili in traduzione inglese fin dal 1931 in Gran Bretagna e dal 1933 negli Stati Uniti, anche se in una versione ridotta ed edulcorata; cfr. R. Breitman, op. cit., pp. 29-31.
(77) Sulla vicenda cfr., fra l’altro, Frederick W[illiam]. Winterbotham [(1897-1990)], Ultra Secret. La macchina che decifrava i messaggi segreti dell’Asse, trad. it., Mursia, Milano 1994. Il gruppo di ascolto guidato dal matematico Maxwell Herman Alexander Newman (1897-1984) si avvalse di uno dei primi calcolatori elettronici, costruito dal gruppo stesso: il Colossus, progenitore britannico del famoso ENIAC americano. Cfr. anche Giovanni Caprara, I segreti della macchina che decifrò i messaggi di Hitler, in Corriere della Sera, Milano 8-10-2000. Sul gruppo di Newman esiste documentazione in The History of Newmanry, un corposo rapporto redatto nel 1945 da alcuni membri del gruppo — Donald Michie, Jack Goody e altri —, un cui estratto — quello relativo al Colossus — è disponibile all’indirizzo Web <www.codesandciphers.org.uk/documents/newman/newmix.htm>. Cfr. anche Ettore Botti, Gli enigmisti alleati che vinsero la guerra, in Corriere della Sera, Milano 9-3-2002 (recensione del saggio del giornalista Stephen Budiansky, La guerra dei codici. Spie e linguaggi cifrati nella seconda guerra mondiale, trad. it., Garzanti, Milano, 2002).
(78) Cit. in R. Breitman, op. cit., p. 198.
(79) Cfr. ibid., pp. 203-204.
(80) Cfr. Rolf Hochhuth, Il Vicario, dramma in 5 atti, con una prefazione di Carlo Bo [(1911-2001)], trad. it., Feltrinelli, Milano 1964. L’anno successivo venne pubblicato un saggio sulla politica vaticana durante gli anni della seconda guerra mondiale, rigorosamente basato su documenti — del ministero degli Esteri tedesco e di alcuni archivi ebraici, ma non su quelli della Santa Sede —, che, nonostante il velato intento polemico iniziale, non riesce a concludere nulla a sfavore di Pio XII (cfr. S. Friedländer, Pio XII e il Terzo Reich. Documenti, trad. it., Feltrinelli, Milano 1965). Lo stesso anno uscì in Italia il fondamentale lavoro di Gerhard Reitlinger (1900-1978) (cfr. G. Reitlinger, La soluzione finale. Il tentativo di sterminio degli Ebrei d’Europa. 1939-1945, trad. it, Il Saggiatore, Milano 1965), ampia e documentata ricostruzione dell’Olocausto nei suoi diversi aspetti e nelle sue diverse fasi, a cui i ricercatori successivi, che vi hanno abbondantemente attinto, poco hanno potuto aggiungere in termini di tematiche. Il lavoro di Reitlinger, anche se appare oggi datato e risente del fatto che è stato redatto a pochi anni dalla fine del conflitto, ha potuto sfruttare gli atti dei principali processi del dopoguerra, i documenti tedeschi delle zone di occupazione alleata in Germania, ma soprattutto il patrimonio delle testimonianze dei sopravvissuti e dei protagonisti, allora ancora numerose. Nello scorso giugno sono stati resi disponibili agli studiosi circa quattrocentomila pagine di documenti dei servizi segreti statunitensi (OSS, Office of Strategic Services) relative al periodo bellico e che comprendono anche le operazioni sul territorio italiano. Da alcune anticipazioni apparse su quotidiani italiani essi sembrano rafforzare le tesi di Breitman — che è stato fra i primi a prendere visione dei documenti de-classificati — e di Bauer sul silenzio dei dirigenti alleati, mentre scagionerebbero ulteriormente Pio XII e aggraverebbero invece le responsabilità del governo fascista repubblicano italiano (cfr. Ennio Caretto, Olocausto in Italia, morirono in settemila. Si riapre la polemica sulle colpe del regime, in Corriere della Sera, Milano 26-6-2000; Idem, Deportazioni di ebrei, il silenzio di Roosevelt e Churchill, ibid., 27-6-2000; Idem, L’Olocausto? Una talpa tedesca informò gli Usa nel ’43, ibid., 28-6-2000; Idem, «Ma i tedeschi consideravano Pio XII un nemico», ibid., 29-6-2000; Idem, «Ufficiali americani indifferenti con gli ebrei». Generali antisemiti ostacolarono l’esodo in Usa alla vigilia della guerra, ibid., 7-4-2001; Idem, Shoah: le colpe di Mussolini e il silenzio Alleato, ibid., 4-7-2001; Idem, Olocausto, le denunce ignorate dagli Alleati, ibid., 4-9-2001); altre notizie dagli archivi in Silvio Bertoldi, Quelle urla dai ghetti che il mondo non volle ascoltare, ibid., 22-7-2001 [recensione del volume di Gustavo Corni, I ghetti di Hitler, il Mulino, Bologna 2001]; in Olocausto a Roma, alleati negligenti, in Avvenire. Quotidiano di ispirazione cattolica, Milano 27-6-2000; I nazisti su Pio XII: «un nemico», ibid., 30-6-2000; e, infine, in Christophe Courau, Auschwitz: les Alliés savaient dès 1942, in Historia. Entrer dans le vif de l’histoire, n. 636, Parigi dicembre 1999, pp. 22-23).
(81) Lorenzo Cremonesi, corrispondente del Corriere della Sera da Gerusalemme e autore di un volume sul sionismo — Le origini del sionismo e la nascita del kibbutz (1881-1920), La Giuntina, Firenze 1985 — sostiene che le prime denunce si possono far risalire addirittura al 1942 (cfr. Così Barak ha nascosto l’accusa a Pio XII in una poesia, in Corriere della Sera, 25-3-2000). Ne sarebbe prova una poesia intitolata Mikol Ha’amim (Di tutte le nazioni), scritta nel 1942 dal poeta ebreo di origini polacche — ma con studi francesi — Natan Alterman (1910-1970), che recita: «Quando i bambini gridavano davanti / al patibolo non sentimmo la rabbia del mondo. / Il Santo Padre cristiano nella città di Roma non uscì / dal suo palazzo con l’immagine del Redentore per essere testimone di un giorno nei pogrom, un giorno, neppure un giorno solo è venuto nel luogo / dove per anni è rimasto solo al sacrificio come un / capretto un piccolo bambino anonimo, un bambino ebreo… / E invece c’è molta preoccupazione per i quadri, le / statue e i tesori d’arte che potrebbero venire / bombardati; ma nulla per i tesori d’arte delle teste / dei bambini che furono schiacciate per le strade, / contro i muri, nelle piazze… / I nostri figli sanno che il loro sangue non è / considerato al pari del sangue degli altri, / oh mamma non guardare… Dio dei nostri padri, sappiamo che ci hai voluto tra / tutti i bambini per essere uccisi davanti al tuo trono / e tu hai raccolto il nostro sangue in giare poiché / nessun altro, eccetto Tu, lo raccoglieva. E profumava / il profumo dei fiori, lo hai raccolto in un fazzoletto. / E cercherai vendetta contro gli assassini e allo stesso / modo contro coloro che sono stati in silenzio»; la poesia fa parte del poema Hatur Ha Shevii (Settima colonna). Da questo testo Cremonesi evince che già d’allora è stata formulata un’accusa contro il pontefice di Roma per il silenzio osservato verso l’olocausto ebraico. Non è chiaro se il componimento sia una sorta di vaticinio oppure se il poeta, immigrato in Palestina nel 1925 e acceso nazionalista, fosse nel 1942 venuto in possesso d’informazioni specifiche: il riferimento sembra però più alle crudeli deportazioni dai ghetti polacchi, forse da quello di Varsavia, allora già in fase di avanzata «liquidazione», che ai campi di sterminio. Il componimento è stato pubblicato dal quotidiano di Gerusalemme Ha’aretz. L’iniziale maiuscola a «Santo Padre» e a «Redentore» non è certo esistano nella versione originale. L’incipit del componimento, fino alla parola «mondo», è stato recitato, non si sa se polemicamente, il 23 marzo 2000 dall’allora premier israeliano Ehud Barak nel suo discorso di accoglienza al Pontefice in visita in Terrasanta.
(82) Cfr. D. J. Goldhagen, op. cit., passim; e, con accento sugli aspetti della cultura cattolica e la politica vaticana, D. I. Kertzer, op. cit., passim.
(83) Cfr. John Cornwell, Hitler’s Pope: the secret history of Pius XII, Viking-Penguin, Londra 1999; trad. it., Il papa di Hitler. La storia segreta di Pio XII, Garzanti, Milano 2000.
Un denso lavoro — il migliore finora svolto, almeno in base alle fonti attualmente disponibili —, che suona già nel titolo come la replica cattolica alle pesanti accuse di Cornwell, è Andrea Tornielli, Pio XII. Il Papa degli Ebrei, con una prefazione di Mario Cervi, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 2001. Importante anche l’intervento del polacco StanisŁaw Grygiel, La Polonia e Pio XII, un dramma cattolico, in Nuntium. Rivista Quadrimestrale della Pontificia Università Lateranense, anno X, n. 5, giugno 1998, pp. 100-109.
(84) Cfr. Una doverosa precisazione in merito ad un libro recente, in L’Osservatore Romano, Città del Vaticano 13-10-1999. Un altro voluminoso studio su Pio XII «politico» è apparso in seguito: Giovanni Miccoli, I dilemmi e i silenzi di Pio XII, Rizzoli, Milano 2000. Più datati sono Giorgio Angelozzi Gariboldi, Il Vaticano nella seconda guerra mondiale, con una prefazione di Giulio Andreotti, Mursia, Milano 1992; e Idem, Pio XII, Hitler e Mussolini. Il Vaticano fra le dittature, con una prefazione di G. Andreotti, Mursia, Milano 1995; sul tema cfr. anche i documentati lavori apologetici dell’italo-americana suor Margherita Marchione M.P.F., fra i quali: Pio XII e gli ebrei, Pan Logos, Roma 1999, e Pio XII: architetto di pace, Pantheon, Roma 2000 (redatti entrambi in italiano).
(85) Cfr. padre Peter Gumpel S.J. Cornwell’s Pope: A Nasty Caricature of a Noble and Saintly Man, dispaccio quotidiano della ZENIT International News Agency, 16-9-1999.
(86) Cfr. David G[il]. Dalin, Pius XII and the Jews. A defense, in The weekly Standard, vol. 6, n. 23, New York (New York) 26 febbraio 2001 (trad. it., a mia cura, Pio XII e gli ebrei. Una difesa, in Cristianità, anno XXIX, n. 304, Piacenza marzo-aprile 2001, pp. 11-20). Quello di «giusto» è un titolo d’onore assegnato da associazioni israeliane a non ebrei distintisi particolarmente nella difesa del popolo ebraico.
(87) Cfr. padre Pierre Blet S.J., Pio XII e la Seconda Guerra mondiale negli Archivi Vaticani, trad. it., San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1999. Padre Blet, allievo del grande storico francese Roland Mousnier (1907-1993), ha insegnato storia della Chiesa alla Pontificia Università Gregoriana e alla Pontificia Accademia Ecclesiastica di Roma. È specialista di storia delle relazioni fra Chiesa e Stato nel XVII secolo. Con lo statunitense padre Robert A. Graham (1912-1997), con padre Angelo Martini (1913-1981) e con monsignor Burkhart Schneider (1917-1976) — il biografo di Pio XII, citato — ha redatto la vasta raccolta degli Actes et Documents du Saint-Siège relatifs à la seconde Guerre mondiale, a cura di P. Blet, A. Martini, R. A. Graham e [dal 3° vol.] B. Schneider, 12 tomi in 12 voll., Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1965-1981.
(88) Cfr. R. Hilberg, La distruzione degli ebrei d’Europa, cit., p. 733; e p. P. Blet, op. cit., p. 237.
(89) Cfr. padre P. Blet, op. cit., p. 233.
(90) Y. Bauer riferisce il caso dei vescovi slovacchi, poco teneri inizialmente nei confronti dei compatrioti israeliti, ma a poco a poco «ammorbiditi» dalla diplomazia vaticana fino a condannare in totole deportazioni: cfr. Y. Bauer, op. cit., pp. 85-86 e 106.
(91) Sulla vicenda degli ebrei italiani, cfr. R. Hilberg, La distruzione degli Ebrei d’Europa, cit., vol. I, pp. 682-700; nonché Renzo De Felice [(1929-1996)], Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, n. ed. ampliata, Einaudi, Torino 1993. Cfr. anche la preziosa testimonianza — una intervista rilasciata a Helmut Ruppert della tedesca KNA (Katholische Nachrichten Agentur di Bonn, Agenzia Cattolica di Notizie) — dell’allora tenente Nikolaus Kunkel, oggi ottantenne, ufficiale della Wehrmacht in forza al comando di Roma nel 1943, secondo cui la maggior parte degli ottomila ebrei romani trovò rifugio in Vaticano prima del rastrellamento del 16 ottobre. «Avemmo l’impressione — racconta fra l’altro l’ufficiale — che l’azione SS fosse stata procrastinata fino a quando la maggior parte degli Ebrei non si fosse salvata» (trad. it., La maggior parte degli ebrei residenti a Roma si salvarono, in L’Osservatore Romano, Città del Vaticano 8-12-2000). Di recente è stato ripubblicato il volume di memorie di Eugen Dollman (1900-1985), uno dei protagonisti della vicenda romana del 1943 (cfr. E. Dollmann, Roma nazista. 1937-1943, con una prefazione di Silvio Bertoldi, trad. it., Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 2002, in part. pp. 179-205).
(92) Su Eugenio Zolli, cfr. l’Encyclopedia Judaica, 18 voll., reprint, a cura di Cecil Roth, Coronet Books, Filadelfia (Pennsylvania) 1994, vol. XVI, p. 1.217. Cfr. anche le memorie autobiografiche: Before the Dawn. Autobiographical reflections by Eugenio Zolli former Chief-Rabbi of Rome, Sheed and Ward, New York (New York) 1954 (reprint, Hardcover, New York (New York) 1997); e il recente Judith Cabaud, Il rabbino che si arrese a Cristo, con una prefazione di V. Messori, trad. it., San Paolo, Roma 2002 — che ripercorre le tappe principali della biografia di Zolli sulla scorta di Before the Dawn —, sul quale cfr. V. Messori, Il rabbino scomparso, in Jesus. Mensile di cultura e attualità religiosa, anno XXIV, n. 3, Alba (Cuneo) marzo 2002, pp. 84-87. Zolli viene considerato dagli ebrei un apostata, ed è anche accusato di essersi convertito solo per sfuggire al disprezzo della comunità israelitica romana, che si dice egli avrebbe abbandonato al momento della persecuzione nazionalsocialista. Zolli è una figura di alto spessore intellettuale, autore di una trentina di testi di vario genere, tutti di alto valore, sia precedenti alla conversione, sia successivi. Il suo percorso religioso — in cui il cristianesimo si pone come continuità e inveramento finale rispetto all’ebraismo — presenta grande interesse ai fini della soluzione del tradizionale dissidio tra le fedi dalla comune origine abramitica.
(93) Cfr. Pio XI, lettera enciclica Mit brennender Sorge, del 14-3-1937, in Tutte le encicliche dei sommi pontefici, 7a ed., 2 voll., Dall’Oglio, Milano 1990, vol. I, pp. 1065-1085; sul «Sillabo anti-razzista», cfr. monsignor Ernesto Ruffini (1888-1967)[Segretario della Congregazione dei Seminari e delle Università degli Studi e futuro cardinale] ai Rettori delle Università ecclesiastiche e dei Seminari, in L’Osservatore Romano, Città del Vaticano 3-5-1938; le frasi di Pio XI citate furono pronunciate nel corso di una udienza in Vaticano a pellegrini belgi il 6 settembre 1938: cfr. A propos de l’antisémitisme. Pélerinage de la Radio catholique belge, in La Documentation catholique, n. 39, Parigi 1938, pp. 1459-1462. è anche noto il fatto che nel 1938 Pio XI aveva fatto redigere una bozza di enciclica, che avrebbe dovuto chiamarsi Humani generis unitas, la quale affrontava i problemi della società moderna, mettendo in evidenza i rischi del razionalismo tecnocratico, del totalitarismo e del nazionalismo, dando ampio spazio alla condanna del razzismo e dell’anti-semitismo. L’enciclica non fu mai pubblicata a causa dell’improvvisa morte di Pio XI; in seguito non venne più ripresa, forse anche a fronte della più chiara e più drammatica nozione che del nazionalsocialismo la guerra forniva e dei rischi che sarebbero potuti derivare per ebrei e cristiani dalla sua pubblicazione. Su questa vicenda, cfr. Georges Passelecq e Bernard Suchecky, L’enciclica nascosta di Pio XI. Un’occasione mancata dalla Chiesa nei confronti dell’antisemitismo, con una introduzione (Pio XI, gli ebrei e l’antisemitismo) di émile Poulat, trad. it., Corbaccio, Milano 1997.
(94) Sul cattolicesimo tedesco in generale, cfr. Mario Bendiscioli [(1903-1998)], Germania religiosa nel Terzo Reich. Conflitti religiosi e culturali nella Germania nazista, 2a ed. riveduta e aumentata, Morcelliana, Brescia1977; nonché il classico Guenter Lewy, I nazisti e la Chiesa, nuova ed. it., trad. it., Il Saggiatore, Milano 2002. Sul tema specifico della resistenza del clero, cfr. Cardinal [Michael von] Faulhaber [(1869-1952)]. Arcivescovo di Monaco [e Frisinga], Giudaismo cristianesino germanesimo. Prediche tenute in S. Michele di Monaco nell’Avvento del 1933, trad. it., a cura di Giuseppe Ricciotti [(1890-1964)], Morcelliana, Brescia 1934; Clemens August Graf von Galen [(1878-1946)], Un vescovo indesiderabile. Le grandi prediche di sfida al nazismo, a cura di Rosario Federico Esposito, trad. it., Edizioni Messaggero, Padova 1985; Il leone di Münster e Hitler. Clemens August Cardinale von Galen. La sua attività episcopale nel periodo della dittatura Nazionalsocialista in Germania, a cura di [mons.] Reinhard Lettmann [vescovo di Münster] e [mons.] Heinrich Mussinghoff [vescovo di Aquisgrana], Herder, Roma-Friburgo-Vienna 1996.
(95) La ricercatrice Julie Seltzer Mandel ha di recente pubblicato un volume di documenti dell’OSS, l’Office for Strategic Services — i servizi segreti americani durante la seconda guerra mondiale diretti da William Joseph Donovan (1883-1959) —, relativi ai piani dei gerarchi nazionalsocialisti nei confronti delle religioni, da cui emerge come il neopaganesimo della NSDAP prevedesse di estirpare totalmente il cristianesimo e sostituirlo con una religione razzista. Il dossier dell’OSS è il primo di una serie di 148 volumi di documenti custoditi alla Cornell University di Ithaca (New York): cfr. E. Caretto, Pagani in marcia sotto la svastica, in Corriere della Sera, Milano 4-3-2002.
(96) I progetti in materia sono riferiti da padre Blet al cap. IV (pp. 97-124) dell’op. cit.
(97)Cfr. l’Hitler «Attila motorizzato» di Pio XII, sopra menzionato (in ANSA, cit., e D. Fertilio, E Pio XII confidò: temo il nazismo più dei comunisti, cit.).
(98) Cfr. Pinchas E[milio]. Lapide, Roma e gli ebrei. L’azione del Vaticano a favore delle vittime del Nazismo, trad. it., Mondadori, Milano 1967.
(99) In risposta ai sospetti di passività del Vaticano, le testimonianze relative alle iniziative cattoliche per salvare ebrei iniziano ad affiorare sempre più numerose: cfr. per esempio, Piero del Giudice, Shoah, nella villa dei salvati, in Avvenire. Quotidiano di ispirazione cattolica, Milano 21-10-2001; e Paolo Bricco, Il finanziere anti Shoah, ibid., 28-10-2001.
(100) Sulle molteplici attestazioni di riconoscenza di ebrei nei confronti della Chiesa cattolica e del Pontefice, cfr. Antonio Gaspari, Gli ebrei salvati da Pio XII, Logos, Roma 2001; e D. G. Dalin, art. cit.
(101) Cfr. Z. Bauman, op. cit.
(102) Cfr. Norman G. Finkelstein, The Holocaust Industry. Reflections on the Exploitation of Jewish Suffering, Paperback, 2001. A conclusioni affini è giunto pure il filosofo francese, quasi omonimo di Finkelstein, Alain Finkielkraut (cfr. A. Finkielkraut, Une voix vient de l’autre rive, Livre de Poche, Gallimard/Folio, Parigi 2002). Sugli echi delle tesi di Finkielkraut, cfr. Ulderico Munzi, Finkielkraut contro i falsi amici della Shoah, in Corriere della Sera, Milano 24-5-2000. Sul possibile riflesso negativo di una troppo ostentata e poco sentita obbligatorietà della memoria della Shoah cfr. E. Galli della Loggia, Dimenticheremo anche la Shoah per eccesso di retorica ufficiale?, in Sette. Settimanale del Corriere della Sera, n. 5, Milano 31-1-2002, p. II.
(103) Per esempio quindici-ventimila documenti riguardanti l’attività di Eichmann in Austria subito dopo l’Anschluß con il Reich, sono emersi dagli archivi federali tedeschi, dopo essere stati custoditi per decenni in quelli della ex Repubblica Democratica Tedesca: cfr. Tausende Akten über Eichmanns Vorgehen in Österreich entdeckt, in Der Spiegel, Amburgo 25-3-2000, ripreso da Avvenire. Quotidiano di ispirazione cattolica, Milano 26-3-2000.
(104) Sull’anti-cristianesimo insito nel nazionalsocialismo e su «esperimenti» di repressione in tal senso effettuati durante la guerra, cfr. padre R. A. Graham S.J, Il piano straordinario di Hitler per distruggere la Chiesa, in La Civiltà Cattolica, anno 146, vol. I, quad. 3474, Roma 18-3-1995, pp. 544-552); sulla cancellazione dell’Olocausto nelle zone russificate, cfr. La Shoah. L’universo concentrazionario e la politica di sterminio nazista, a cura di Paolo V. Gastaldi, Edizioni della Società Umanitaria, Napoli 2002; su Franco — peraltro assai poco filo-ebraico — cfr. la documentazione inedita riportata in Giovanni Tassani, Madrid 1943: tre colloqui col Caudillo, in Nuova Storia Contemporanea, anno VI, n. 1, Roma (Le Lettere, Firenze) gennaio 2001, pp. 93-130.
(105) Su questo tema cfr. una delle tesi «forti» di E. Nolte: «L’intensificazione radicale della tesi dell’unicità [del genocidio ebraico] però, che vede porre il comportamento di tutti i popoli rispetto al giudaismo come centro della storia universale, potrebbe un giorno, in rapporto con sviluppi imprevedibili all’interno della «politica reale» e nonostante la posizione di partenza estremamente favorevole, avere per conseguenza il contrario esatto di ciò che viene perseguito« (E. Nolte, prefazione a Controversie. Nazionalsocialismo, bolscevismo, questione ebraica nella storia del Novecento, trad. it., TEA, Milano 2002, pp. 5-18 (pp. 17-18) (riedizione parziale del volume omonimo, Corbaccio, Milano 1999).