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a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale |
La Tradizione
«L
a Tradizione non è trasmissione di cose o di parole, una collezione di cose morte. La Tradizione è il fiume vivo che ci collega alle origini, il fiume vivo nel quale sempre le origini sono presenti. Il grande fiume che ci conduce al porto dell’eternità».
Benedetto XVI
Un chiarimento prezioso per i conservatori
La frase di Papa Benedetto XVI con cui si apre questa nuova uscita della nostra rivista online, credo che meriti qualche commento, non solo per la sua felice forma espressiva, ma anche e ancor di più per la sua puntualità e preziosità per la condizione intellettuale odierna.
La tradizione – ci dice Papa Benedetto –, tanto quella umana – quindi con la «t» minuscola, quanto quella religiosa – con la «T» maiuscola – non dev’essere concepita come un assortimento di materiali – in questo senso si possono intendere «le cose» delle quali parla il Papa – e di valori spirituali e culturali – le «parole» – che ci proviene, ineluttabilmente e ininterrottamente, dal passato e di cui noi siamo più spesso recettori passivi, che non sollecitatori zelanti. Non è una semplice accolta o raccolta, una «collezione», di elementi vari, alcuni «vivi», altri «morti» – ma sono pensabili anche stadi intermedi –, che l’avvicendamento delle generazioni, come la risacca del mare fa approdare alle nostre spiagge, come morene glaciali fa affiorare, e in cui ci fa imbattere nel cammino della nostra vita. Di fronte all’ammasso, non di rado cospicuo, di tali detriti sarebbe impossibile – e spesso questa impossibilità diventa reale – discernere che cosa tenere e di che cosa disfarsi. Né sarebbe giusto, come alcuni fanno, rifiutare qualunque retaggio – ma è poi materialmente possibile? – del passato, perdendo ciò che è in esso vi è di buono e forse anche di prezioso e d’indispensabile per il nostro progresso. E neppure salvare tutto indiscriminatamente, chiudendosi in dimore edificate con i resti del passato, che sono forse confortevoli, visto il degrado che ci circonda, ma che tuttavia si rivelano anacronistiche e sterili. In realtà, ci ricorda il Papa, non è tanto importante la tradizione in quanto contenuto dell’atto di trasmissione intergenerazionale, ma l’atto medesimo, purché lo si veda non in forma fatale o meccanica o talvolta come morene glaciali, qualcosa che subiamo –, ma come quel «fiume vivo» della felice metafora usata dal Papa, ossia come un fluire, in cui siamo immersi, che non risale all’indietro di qualche passo o di qualche chilometro o – fuori metafora – di qualche generazione, bensì si può ripercorrere ininterrottamente fino a una fonte, a una origine unica. Un flusso che reca a noi la medesima acqua che di lì scaturisce, un’acqua che, a condizione però che la si preservi dall’inquinamento e dal contagio che può subire nel percorso dalla sorgente fino a chi ne berrà, ha il medesimo valore cioè la stessa capacità di soddisfare la sete dell’uomo che ha l’acqua fontale. Il criterio del discernimento del contenuto della tradizione è dunque chiaramente indicato. È buono e va mantenuto con cura ciò che, al di là del «colore» o della «limpidezza», rivela in sé la presenza delle origini, ossia che si ricollega inequivocabilmente e integralmente alla sorgente. Al contrario è cattivo o solo inutile e va rigettato quello che si è aggiunto strada facendo, che proviene da rivi spuri o è stato oggetto di una contaminazione che ha alterato la purezza originaria. Ma non basta – anche se è imprescindibile – che lo sguardo resti fissato solo in direzione della fonte. Occorre invece osservare qual è il punto verso il quale il flusso ci conduce, qual è la meta, il mare o l’oceano, dove il fiume va: qual è l’approdo che l’uomo di ogni generazione trova davanti a sé. E questo approdo è quella «vita felice» – non una vita lunga, come ha avuto modo sempre di recente di puntualizzare con la consueta acutezza il Pontefice –, quella condizione in cui – e solo lì – ciascuno di noi incontrerà la pienezza della gioia e la pace autentica: quel «porto dell’eternità» che Benedetto intravede, la vita eterna in Dio. Oggi si discute tanto di progresso, di conservazione, di tradizione, di identità, di inclusione, di esclusione, di valori, di diritti, di religioni: tutti concetti – e non solo concetti ma alternative che si pongono in concreto a ciascuno di noi, così come ai corpi organizzati della società e della politica – fra i quali, in questa crisi di significati in cui si esprime il carattere essenziale della post-modernità, mi pare si riesca a orizzontarsi solo mantenendo fermi capisaldi come quelli che Benedetto XVI – il quale non li ha inventati – ha voluto felicemente riproporci con estrema finezza ed eccellente capacità di sintesi. Ciò che ci troviamo davanti, vecchio o nuovo che sia, va valutato sempre criticamente, applicando cioè queste luci intellettuali – che sono dell’uomo di sempre, ma nella modernità hanno conosciuto una eclissi – che il Papa ci «serve» come cibo prelibato. Un cibo che certo non meritiamo, ma che la Chiesa, madre e maestra, ammannisce comunque sempre, gratis et amore Dei, ai suoi figli e agli uomini di buona volontà. Quindi, secondo la lezione di Papa Ratzinger, bisogna rigettare tutto ciò in cui non si rinviene più «l’origine» – Joseph de Maistre l’aveva ben inteso – e, per altro verso, non conduce più – o oppone un sbarramento o un ostacolo nel percorso – alla foce che la Provvidenza ci prepara e dove la vita vera ci attende. Mentre, al contrario, va preservata e conservata – «religiosamente», si diceva una volta – ogni «cosa», ogni «parola» che ci colleghi «a monte» con l’origine, ovvero con la creazione e con la logica – in radicibus metafisica – della creazione stessa, e, «a valle», renda più sicuro l’incontro con Cristo alla fine dell’esistenza di ognuno e quando l’Agnello alla fine del tempo tornerà a giudicare l’umanità di tutti i tempi. Oscar Sanguinetti
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