1.
Mi trovo oggi — 12 gennaio — in casella una
e-mail d’invito a una conferenza sul Risorgimento, di orientamento palesemente critico. Gli
slogan di accompagnamento, ovvero quei giudizi condensati che dovrebbero invogliare il destinatario a partecipare, sono infatti i seguenti: «Una unità fatta con la violenza. Risorgimento da riscrivere. Dietro ai miti dell’unità d’Italia. La realtà della persecuzione antireligiosa e antipopolare ad opera di un minoranza massonica. ... E la storia che rischia di ripetersi con l’Europa di oggi che vieta i crocifissi, impone aborto ed eutanasia».
Al termine della sua lettura, mi sono detto: ecco, ci siamo: si sono aperte le ostilità in vista del 2011. Mi è sembrato, cioè, che si sia aperto — almeno per quanto concerne il mio «cono» informativo — quel carosello di prese di posizione in materia di Risorgimento che è sicuro si intensificherà fra oggi e il marzo di quell’anno, nel quale molti vorranno dire la loro a margine della ricorrenza del secolo e mezzo di vita dello Stato italiano unitario, cui la Repubblica Italiana si prefigge di fare memoria e celebrazione.
Ma, oltre che questo, la e-mail filo-revisionista mi ha ispirato ulteriori considerazioni, soprattutto perché condensa in breve spazio più o meno tutti i motivi che spingono alcuni a raffigurare l’evento unitario in termini del tutto anti-trionfalistici, se non tout court come una calamità: l’unità frutto di una brutale conquista, la storia falsificata, l’ideologia «liberale» eretta a dogma, la mitologizzazione di personaggi dalla vita quanto meno discutibile, l’azione anti-cattolica delle logge massoniche, l’Europa che rischia di ripercorrere le stesse vie…
Si tratta a mio avviso di atteggiamenti critici più che fondati, che però rischiano di trasformarsi in altrettante mine vaganti — ossia in accuse di perseguire finalità che con il bene del Paese hanno poco a che fare — se non bene circostanziati, se «indossati» isolatamente e qualora non siano finalizzati a una polemica che diventa lecita e, anzi, auspicabile solo se si muove sul terreno del possibile e non dell’utopia.
2. Ci si trova oggi di fronte sostanzialmente a tre letture riguardo al processo unitario e alla «rivoluzione culturale» risorgimentale.
2.1 La prima è quella lettura che potremmo definire canonica e che viene ripetuta infaticabilmente e con poche varianti nel processo formativo istituzionale almeno dal 1870 e si rivela indifferente ai mutamenti di scenario politico, si tratti della monarchia liberale, della dittatura fascista o della repubblica democratica. In essa una vulgata storiografica ormai decrepita e ridotta a oleografia viene «santificata», ossia sancita come intoccabile. Secondo questo paradigma — che è tralignato dalla sfera civica, dove comunque un paradigma e, al limite, anche un mito fondativo, sono necessari, alla sfera scientifica — nel secolo XIX l’unità politica era un obbligo morale in quanto gl’italiani non potevano «più» tollerare di vivere divisi e, soprattutto, patire l’influenza delle potenze straniere per tacere infine della miseria materiale e morale alla quale i regimi assolutistici dei principi reazionari destinavano le infelici plebi italiche frustrando l’anelito libertario delle borghesie idealiste e romantiche. In quanto obbligo l’unità — premessa di una «liberazione» dai molti volti — «andava fatta» a tutti i costi, anche a condizione di scatenare un conflitto civile dalle conseguenze allora imprevedibili. Che cos’è stato infatti in molte sue pagine il Risorgimento se non una guerra civile? Non si sono forse visti in più di una circostanza italiani battersi all’ultimo sangue fra loro? Non è andata così in Sicilia e sul Volturno quando giovani napoletani, pugliesi, abruzzesi hanno fatto a schioppettate con i «mille» e i piemontesi venuti dal nord? Non è andata così sul mare, dove si sono affrontati marinai veneti «asburgici» e napoletani unitari? E i garibaldini contro i «papalini»? L’elenco sarebbe lungo…
E andava fatta anche se i costi comprendevano rompere con la Chiesa e rinnegare l’identità italiana «classica»: troppo importante era realizzare una riforma politica e morale della nazione intesa a farne una nazione «moderna» condizione di cui era strapparla dalle grinfie del clericalismo oscurantista, abbattere il potere temporale e porre fine alla «negazione di Dio» rappresentata dai regimi reazionari dei proverbiali «staterelli» retti da principi da operetta che stavano in piedi solo perché sorretti dall’Austria.
Secondo questa prospettiva, con scarse e solo recenti varianti, ha senso parlare di storia d’Italia — anche riguardo al genere storiografico che assume come soggetto e come orizzonte spaziale una realtà così labile come la nazione — solo a partire dalla presa di Roma del 20 settembre 1870: tutto quello d’italiano che precede questo evento-svolta — i diciannove secoli in cui nascono e interagiscono miriadi di soggetti nuovi e originali sotto la triplice spinta della romanità, del germanesimo e del cristianesimo — cade sotto il segno della servitù e dell’abiezione, temperate solo dall’affiorare qua e là, di quando in quando, di fermenti di «progresso», felici precursori ed eroici preparatori di quell’apoteosi finale della nazione, che assume i tratti di una nuova nascita del tempo. E il fascismo, autentico compimento «bonapartistico» del Risorgimento, avrà la sfrontatezza di affiancare alla datazione dell’era volgare quella di una presunta «era fascista», contando cioè gli anni a partire dalla marcia su Roma del 1922.
Di questa visione, largamente ridimensionata nei fatti e nelle interpretazioni dalla ricerca storica contemporanea più recente, sebbene difesa con le unghie e con i denti dalle istituzioni civili e militari dello Stato e da tutta una storiografia accademica arroccata sul passato e su posizioni di potere culturale, non si può non essere critici e anche duramente critici. Essa infatti trascura una enorme messe di elementi fattuali, assolutizza dati e vicende funzionali all’ideologia dei gruppi risorgimentali, rigetta pregiudizialmente e talora con disprezzo ogni reperto e ogni teorizzazione che potenzialmente mettano in discussione e, quindi, a repentaglio, anche in misura esigua, posizioni su cui riposa tutto un establishment politico e culturale costituitosi sotto l’emblema della stella massonica all’epoca dello Stato liberale, passato attraverso il fascismo e infine e caduto — o forse «appaltato» — nel secondo dopoguerra sotto l’egemonia gramsciana. Se vi sarà un elemento «condiviso» tra fascismo e antifascismo sarà proprio, con ben poche nuance, il nocciolo del paradigma risorgimentale, che anzi tutti pretenderanno di «compiere» a loro modo. Su un primo versante, il fascismo perché vi includerà l’Italia di Vittorio Veneto e l’Impero mentre, sull’altro, i marxisti vi «inseriranno» le masse popolari finora rimaste stranee allo Stato; gli «azionisti» ridaranno cittadinanza alle correnti democratiche e mazziniane cadute un po’ in ombra sotto la monarchia sabauda e il fascismo; infine, i cattolici «democratici» vedranno compiersi in esso chi — i «nipotini» di Romolo Murri — la vecchia opzione a favore della Rivoluzione dell’Ottantanove, letta come ulteriore rivelazione, chi — i cattolici liberali — la necessaria premessa per la riforma della Chiesa da molti preconizzata.
2.2 Ho accennato alle poche varianti e alla sopravvivenza dello «zoccolo duro» della lettura precedentemente descritta. Più in dettaglio, le critiche più nitide e più appuntite contro il paradigma risorgimentalistico sono venute, negli anni della prima Repubblica, dalla storiografica di prospettiva marxista, da Gramsci a Sereni, da Candeloro a Della Peruta, che vedeva il Risorgimento come momento dialettico positivo, pur immediatamente foriero di limiti e di contraddizioni che solo l’ulteriore passo in direzione della rivoluzione classista avrebbe «superato» e «compiuto»: la Resistenza partigiana diveniva dunque in questa ottica l’unico e autorizzato «Risorgimento di popolo» della nazione e la Repubblica democratica, in via di divenire «repubblica popolare», il vero superamento dello Stato risorgimentale.
Dopo il 1989, con il radicale declino dell’ideologia socialcomunista, hanno mantenuto — o forse ripreso — vigore quel fascio di prospettive critiche, anche severe, verso il modello vincente cavouriano-monarchico che indossano gl’ideali unitari e risorgimentali, ma con preferenza per le correnti democratiche e repubblicane. E, all’interno di queste, acquistano rilievo quelle correnti che leggono lo Stato nazionale come conquista necessaria ma intermedia in vista di scenari politico-territoriali più ampi. Se lo Stato-nazione è stato un efficace strumento per dissolvere le antiche forme politiche sovranazionali — un utile «solvente» dell’Impero austriaco e di quello germanico, senza dimenticare il ruolo svolto dal nazionalismo arabo nel crollo dell’Impero ottomano —, esso rappresenta un inibitore della creazione — la fase di coagulo — di nuove forme di unità statuale che vadano al di là dell’ottica nazionale, all’interno di paradigmi «illuminati» e democratici di cultura politica. Questo filone di pensiero risale al cosmopolitismo illuministico settecentesco mediato dal romanticismo politico di stampo mazziniano — Giovane Europa — e sarà ripreso da quel liberalsocialismo e repubblicanismo federalisti del Novecento i quali annoverano fra i loro rappresentanti personaggi come Salvemini, Spinelli, Rossi, Albertini, e vari studiosi e politici «azionisti», che tanto influsso hanno avuto sulla politica italiana del secondo dopoguerra, soprattutto dopo l’avvento del centro-sinistra nel 1963.
2.3 Su un versante invece decisamente alternativo a entrambe le visioni evocate, anche se da non molto, si colloca la critica «da destra» del processo unitario, una critica meno distante dalla verità «effettuale», ma anch’essa non esente da negative derive.
Il cosiddetto «revisionismo risorgimentale» — sulla semantica del termine e sull’uso distorto che ne viene fatto ci si potrebbe intrattenere a lungo — è la lettura che oggi forse con maggior incisività si contrappone al paradigma ufficiale.
Nasce dalla sopravvivenza o dalla rivalutazione di categorie della scienza politica e sociale per anni sepolte sotto i discrimini ideologici classisti o nazionalistici, nasce dalle spinte autonomistiche e neo-identitarie, nasce da quel gran calderone di elementi eterogenei e non di rado fittizi che è la cultura «leghista» — cosa non del tutto coincidente né con le spinte predette, che si rilevano anche in aree a bassa presenza del partito di Bossi, né con la base sociale del movimento, decisamente migliore del partito —, nasce dalla generica reazione alla mondializzazione e all’appiattimento culturale che ne deriva e dalla svalutazione della società multiculturale che l’immigrazione dai Paesi extra europei sta creando.
Se vogliamo, quindi, si può parlare di una componente «revisionistica» antica, se non permanente e di una componente invece recente di questa linea.
Un pensiero critico «da destra» sul Risorgimento e non di rado anche dell’Unità, dai gesuiti ai pochi legittimisti e contro-rivoluzionari italiani, è in effetti «sempre» esistito, anche se è vissuto come rivo carsico, fino all’incirca agli anni Novanta del secolo scorso. Allora, quando sono ricorsi il bicentenario della Rivoluzione del 1789 prima, e quello delle repubbliche «giacobine» e delle insorgenze popolari anti-napoleoniche poi, di fronte al tentativo «ufficiale» di rilanciare l’agiografia — ancor più paradossale in tempi di «pensiero debole» — e la mitologia in tema, si è palesato il bisogno diffuso di una revisione profonda del processo storiografico e si è assistito all’emergere — in forma sporadica ma percettibile ai più — di tesi «controcorrente» sulla formazione della Francia e dell’Italia contemporanee a loro volta non sempre corollari di visioni ideologiche che finalmente dopo la caduta del Muro di Berlino trovavano nuovo spazio ma anche quale risultato di indagini che ambienti «paralleli» a quelli ufficiali avevano condotto a partire all’incirca dall’inizio degli anni 1960.
A oggi i contributi storiografici innovativi, nonostante il sostanziale disinteresse dell’ambiente accademico, si sono moltiplicati e, quanto meno sui suoi aspetti negativi del Risorgimento esiste ormai una letteratura fuori dagli schemi che non si può non definire abbondante.
4. In primis esiste dunque fra i «revisionisti da destra» un esiguo numero di studiosi e di uomini di azione per i quali il Risorgimento non ha iniziato a «far problema» dal 1989. Sono questi i cattolici più o meno conservatori, che per motivi storico-culturali hanno da sempre letto le vicende risorgimentali con le categorie del pensiero politico cattolico classico e della dottrina sociale della Chiesa. E, in questo orizzonte, il plesso di avvenimenti che si rileva nell’Ottocento italiano, per il suo carattere eversivo di un ordine conforme alla ragione e al Vangelo, per la sua intronizzazione di valori morali privati e pubblici poco assimilabili a valori cristiani, per l’attacco diretto perpetrato contro la Santa Sede e contro l’identità cattolica degl’italiani, lungi dal costituire un «caso di coscienza» — come accadrà per i cattolici «liberali» e per i cattolici «democratici» —, non poteva non incorrere in una drastica censura. Saranno questi ambienti a dar vita ai contributi forse più efficaci in tema di nuova visione del fenomeno.
5. Ma, come detto, vi sono anche le ricerche di quegli studiosi che, partendo da posizioni culturali diverse e magari anch’esse non esenti da venature ideologiche, davanti alla tentata riproposizione del cliché, hanno reagito con lavori di maggior o minor pregio che hanno comunque accumulato una grande mole di elementi fattuali alla luce dei quali si sono letteralmente sgretolati gli stereotipi civico-ufficiali, tanto nella loro versione liberalnazionale, quanto nella loro versione socialista, quanto, infine, in quella nazionalistica. Penso, fra i tanti, a studiosi, magari non professionisti, come Carlo Alianello, Emilio Gin, Sandro Petrucci, Gustavo Buratti Zanchi, Francesco Mario Agnoli, Francesco Pappalardo, Massimo Viglione, Angela Pellicciari.
6. Il problema riguardo a questo genere di «revisionismo», peraltro tanto necessario quanto benemerito — perché condotto in scarsità di risorse e nel silenzio mediatico, rotto solo quando il giornalista fiutava lo scoop nel riproporre le tesi di qualche studioso-kamikaze —, nasce quando dai dati si passa a far parlare, come doveroso in sede storiografica, i dati medesimi.
A questo punto iniziano le interferenze politiche, si assiste a fenomeni di «torsione» del dato della ricerca, alla anteposizione cioè di premesse ideologiche a una corretta ermeneutica dei fatti.
Da quella, legittima, volta a ridisegnare l’immagine del passato in base delle nuove acquisizioni della ricerca, si passa a operazioni non di rado di segno uguale e contrario al «canone» ufficiale, perché anch’esse intese a legittimare esigenze estranee al dominio della storia. Così, le insorgenze contro Napoleone nell’Italia settentrionale diventano reazioni di una misteriosa «nazione» padana contro il centralismo rivoluzionario; l’epopea del cardinale Ruffo e il cosiddetto brigantaggio post-unitario rivolte per restaurare la monarchia borbonica; la lotta fra la Rivoluzione italiana e la Chiesa un mero pretesto per alimentare polemiche intraecclesiali.
Sia chiaro: è del tutto lecito e doveroso leggere le realtà storiche che ho menzionato a mo’ di esempio nel senso descritto. L’insorgenza rivela di certo che esiste fra gl’italiani un idem sentire, una forma di nazionalità «spontanea», ben diversa dalla nazione «inventata» dopo l’Unità. Ruffo e Crocco sono senz’altro partigiani filo-borbonici ma la contro-rivoluzione del Mezzogiorno ha motivi e componenti ben più profondi. E la quintessenza del Risorgimento è stata di sicuro la lotta anti-temporalistica per una riforma in senso «liberale» della Chiesa.
L’importante è infatti non pensare che la propria sia l’unica lettura possibile. Assumere come spiegazione determinante un frammento, un solo elemento causale significa falsare e strumentalizzare la storia. E in questo si finisce per non differenziarsi affatto dagli altri filoni culturali inficiati dal «riduzionismo» dell’ideologia. Insisto sul punto: tutte queste letture — peraltro ribadisco corrette se prese a una a una — rivelano una vera e propria carenza metodologica che in ultima analisi ne inficia in radice le conclusioni.
Da dove nasce questa lacuna? Lasciando da parte interessi di parte più macroscopici, essa si crea quando davanti alla complessità della storia — «ciò che non è complicato è falso», ammonisce Nicolás Gómez Dávila —, vuoi per l’inadeguatezza della strumentazione, vuoi per un’apprezzabile ma spesso fuorviante zelo della verità storica, si è tentati di operare dei «corti circuiti» esplicativi; cioè di ampliare arbitrariamente, in termini di spazio e di tempo, conclusioni che valgono invece solo per parti e momenti del fenomeno studiato. Quando accade quando si ha fretta di arrivare a un «dunque», una fretta che a volte scaturisce dal voler tenere un atteggiamento «pragmatico» e polemicamente anti-accademico, ma che spesso si traduce solo in un modo sbagliato di concludere. L’esempio più pertinente di reductio ad unum malintesa, di spiegazione monocausale pregiudiziale, è quanto si afferma delle società segrete, non viste, come corretto, quali «agenti d’influenza» e «rete» discreti del processo risorgimentale, bensì in veste di causa diretta, se non di protagonisti assoluti.
7. Possiamo a questo punto domandarci quale sarà il futuro dell’oggetto cui si applicano il paradigma e le critiche che ho succintamente descritto, cioè dello Stato-nazione in Italia.
Si «scioglierà» nell’«acido» eurocratico? Sarà smantellato a favore di «patrie» più piccole e magari più antiche? Oppure durerà, forse anche a lungo, limitandosi eventualmente a perdere qualche altra prerogativa? Nessuno, credo, è oggi in grado di dirlo. E, come corollario, coloro che condividono con diverse nuance il medesimo orizzonte critico in ordine alla sua genesi devono cooperare a che lo Stato-nazione per un verso o per l’altro finisca?
7.1 Una premessa s’impone. L’unità politica di un popolo può essere un bene, ma, come ogni forma politica, è un bene relativo e, come ogni realtà umana, conosce una nascita, attraversa uno sviluppo, incontra un declino e poi scompare, magari per riapparire in forme nuove e diverse. Come ho cercato di mettere a fuoco in un precedente intervento, pur conoscendo anch’essa un processo di formazione più o meno lungo e articolato, la nazione può sopravvivere anche senza Stato — lo ha fatto in massima parte nei gironi successivi all’8 settembre 1943 — oppure anche divisa in una pluralità di unità politiche: è la lunga — e non sempre dolorosa — storia del nostro popolo dalla caduta dell’Impero di Roma fino a Porta Pia. Se è vero che dell’autorità politica in forma istituzionalizzata, ovvero di ciò che nell’età moderna e contemporanea ha preso nome di «Stato», i corpi storici come la nazione italiana hanno strutturalmente bisogno, sono le circostanze che fanno giudicare in positivo o in negativo un determinato obiettivo o una determinata forma politica.
7.2 Per altro aspetto, non vi è dubbio che una organizzazione politica che pretende di trarre la sua legittimità dal fatto di rappresentare politicamente — in tesi — tutti gl’italiani e di ottenerne il riconoscimento attraverso le forme di democratiche, non solo esista ma vanti ormai centocinquant’anni di storia, ricchi di ombre ma anche di luci. Una realtà che per moltissimi italiani di oggi è un «dato di natura», in quanto è ciò che si sono trovati di fronte venendo al mondo, ma soprattutto al momento dell’incontro fatale con il civismo che avviene in età scolastica.
Se si escludono fenomeni minori di separatismo come quello siciliano dell’immediato dopoguerra e quello — più comprensibile — sudtirolese, non è un caso che dal 1870 in avanti, repressa la rivolta del Mezzogiorno e acquisiti a Vittorio Emanuele gli Stati della Chiesa, l’unità non sia mai contestata e dal momento della scomparsa delle formazioni monarchiche, «cent’anni dopo», intorno agli 1970, la stessa forma repubblicana non sia più stata più rimessa in discussione. Dalla fine del secondo conflitto mondiale in avanti si può dire che la dialettica politica, nonostante gli scontri anche durissimi avvenuti fra le diverse forze e i tentativi di «torsione» in senso democratico-popolare dei nostri ordinamenti degli anni 1960-1990, non ha mai travalicato gli argini, si è sempre svolta, almeno di facciata, all’interno del quadro istituzionale varato centocinquant’anni fa e in seguito solo ritoccato. E questo vale sia in senso autoritario, come accaduto nel ventennio mussoliniano, quando si creò una inedita diarchia Re-Duce, sia in senso più «liberale» nel secondo dopoguerra e con le cosiddette «battaglie per i diritti civili» degli anni a partire dal 1970.
8. Questa realtà, che pur con tutte le gracilità e le ferite che ne hanno afflitto la nascita e lo sviluppo, qualche radice ha messo sul nostro suolo, ha senso che continui a esistere per due motivi principali: primo, perché un background storico, un vissuto collettivo di un qualche spessore esiste; e, quindi, perché la collettività nazionale è oggi esposta a una duplice pressione, a un duplice focolaio d’interferenze fra loro cooperanti, che come a suo tempo il Risorgimento, minacciano di alterare la sua identità culturale, così a fatica costruita, e mettono in forse la sua sovranità.
8.1 Il primo fenomeno è rappresentato dagli organismi politici europei, i quali operano con sempre maggior forza per modificare le leggi del Paese introducendovi elementi estranei all’identità e alla cultura italiane così come la storia le ha determinate.
Finché gl’italiani — e, oggi, dire questo non significa più come ai tempi del principe di Metternich fare riferimento a una geografia — avranno come «guscio» istituzioni proprie, pur con tutte le possibili debolezze contingenti dovute alla cultura di chi li governerà, essi avranno qualche chance di resistere a tali pressioni indebite. Se viceversa l’Italia si tramuterà in un pulviscolo di realtà politiche minori — è questa l’altra e opposta fonte di pressione indebita — è ben difficile immaginare di potersi opporre validamente agli eurocrati e all’acre deriva laicista che sempre più si va imponendo a Bruxelles e nelle organizzazioni internazionali. In questo filone s’inserisce lo sforzo di superare la visione più rigidamente nazionalistica del processo risorgimentale.
8.2 Per diametrum, si rileva pure una pressione di segno contrario, anche se oggettivamente meno temibile. Ovvero si rilevano fenomeni di riscoperta delle identità locali, che hanno il loro risvolto positivo nel rivitalizzare identità particolari, spesso nobili e antiche, mortificate dall’unitarismo e dalla cultura livellatrice della prima modernità. Ma che si configurano altresì e senza alcun dubbio come un rischio: quello di infrangere una unità del corpo storico dei popoli della Penisola faticosamente conseguita per lo sfizio inane di risuscitare le forme politiche pre-unitarie oppure, peggio, di dar vita a soggetti del tutto sfuggenti come «il Nord», «la Padania» o «l’identità napoletana». E da queste premesse ideologiche trae alimento la maggior parte di quelle letture antirisorgimentali — un Risorgimento accentratore, burocratizzante e nemico del federalismo — che ho menzionato sopra.
8.3 Davanti a queste spinte centrifughe, dunque, pare opportuno nel frangente odierno non mettere in discussione l’esistenza dello Stato nazionale. Occorre invece prepararne un futuro migliore, aggiornandone i caratteri e il ruolo di sempre alla mutata condizione della società italiana e del contesto internazionale. Se ne possono e se ne debbono sanare i vulnera originari: la questione cattolica, la questione meridionale e la questione federale. Si devono superare gli anacronismi e gl’ideologismi della sua carta fondamentale, riordinare il fatiscente complesso legislativo, rivedere la sua pesante struttura amministrativa, appianare o attenuare gli squilibri non fondati in re fra regione e regione.
In questo senso le critiche alla genesi dello Stato unitario moderno si possono rivelare preziose, in quanto altrettanti indicatori delle aree di «sofferenza» sulle quali intervenire.
9. Ben venga dunque la revisione del Risorgimento: è la stessa dinamica della storia a esigerla e l’incensare una vulgata fuori dal tempo è non solo ingiusto ma dannoso, in quanto non si può mantenere una identità collettiva solida se la si fonda su miti esausti. L’Italia «adulta» di oggi — e l’Italia del futuro —, infine, deve essere consapevole dei limiti e dei problemi con i quali è nata e cresciuta e, soprattutto, di quanto profonde — nel tempo — ed estese — nella gamma delle culture — siano le sue radici.
Ma dev’essere una revisione indirizzata non a dirompere un assetto discutibile ma faticosamente costruito e mantenuto, bensì orientata a modificarlo, a correggerlo, a irrobustirlo per renderlo più consonante con la sua storia e con la sua identità culturale. Mettere in luce tutti i miti, le violenze, le violazioni di diritti, gl’inganni, le interferenze delle potenze europee, l’asservimento della politica ad alcune antiche dottrine gnostico-razionalistiche e tutte le altre anomalie che hanno accompagnato il processo unitario è non solo lecito bensì doveroso. Diventa però un esercizio, magari gratificante e vellicante, però sterile se si lega a prospettive irrealistiche o autoreferenziali: se serve da strumento per instaurare una improponibile Repubblica del Nord, per rivendicare il trono dei Borboni — non siedono più in trono nemmeno i Savoia! —, per combattere l’influsso di Bruxelles — qualcosa di utile c’è anche a Bruxelles, in un’epoca di globalizzazione, di giganti economici e di risorti imperi —, o per difendersi da nemici del cattolicesimo, senz’altro importanti in altri tempi, ma che ormai hanno esaurito il loro ruolo storico. Riguardo a quest’ultimo vessato punto, è un dato di fatto che la mentalità massonica non si forma più solo in loggia, ma, attraverso il tremendamente efficace linguaggio dei media, è oggi divenuta drammaticamente il senso comune della maggior parte dei nostri contemporanei.
10. Gli scopi «civili» cui orientare la revisione del Risorgimento esistono ma sono altri e si possono riassumere sotto un’unica voce.
Da un lato, ridare forma e respiro alla coscienza di appartenere a una realtà collettiva storicamente fondata anche se nata in modo problematico. Dall’altro, sfrondare dall’organismo politico unitario tutte le incrostazioni indebite formatesi nella sua storia: da un laicismo pubblico e da una «tirannia delle minoranze» — che stridono con duemila anni di cristianesimo civile, che negano un rapporto fra Italia e Santa Sede stretto come mai altrove: la classe dirigente vaticana ha tratto a lungo e a piene mani dalle élite italiane — a un abbandono del Mezzogiorno ai contropoteri criminali, alla presenza di una virulenta «cultura della morte», sempre più onnipervasiva della mentalità e delle leggi, la quale lede in radice l’amore per la vita, per la famiglia, per l’infanzia, per la disabilità e per la vecchiaia, quell’amore che ha fatto germogliare sul suolo della Penisola tante grandi figure di apostoli e tante feconde opere di bene.
Lo Stato nazionale, pur con tutte le pecche che un’analisi storica sempre più spregiudicata e raffinata rivela, c’è e, dimenticando per un momento tutte le operazioni cosmetiche cui la sua immagine è e sarà esposta — come quelle in previsione del 2011 —, esso svolge tuttora un prezioso ruolo di «camera di decompressione» verso le istanze globali più appiattenti e snaturanti, nonché è ostacolo alla polverizzazione politica del Paese. A mio avviso bisogna cercare di non buttarlo via «con l’acqua sporca del bagno» — come nell’immagine proverbiale del bagno del neonato — in nome di motivi ideologici o per amore di obiettivi alla lunga illusori. Anche se non lo amiamo alla follia, sforziamoci di tenercelo stretto, tamponandone le derive peggiori, migliorandone il tessuto e aumentando la sua «coerenza» con il «corpo molle» cui è tematicamente destinato a far da scudo, cioè la società e la cultura del nostro amato popolo.