Quello della metodica della ricerca — o della «metodologia» come si dice oggi, americaneggiando un po’ — è un argomento importante e delicato per qualunque studioso e, quindi, per chiunque voglia scrivere di storia. Ma lo è ancor di più per chi consapevolmente si pone in maggiore o minor misura in direzione opposta al «vento della storia» che oggi spira, soprattutto quando al suo bagaglio scientifico mancano uno o più di quei requisiti che oggi sono l’equivalente dell’etichetta «DOC» per i vini o del «bollino blu» per le banane o della certificazione di qualità per le aziende. E cioè, in primis, far parte di un organismo accademico o di un ente di ricerca o, almeno, di un centro studi ideologicamente «accreditato».
Vorrei qui riprendere alcuni aspetti di questo problema, per cercare di capire quali debbano essere, nel contesto odierno, i capisaldi di una ricerca storica corretta e — in senso sano — aggiornata.
1. La situazione attuale
1.1 I condizionamenti
Ogni stagione del pensiero umano si riflette sul modo di raccontare e di valutare criticamente i fatti del passato. La stagione culturale in cui viviamo vede ancora presenti — allo stato latente ma anche in esplicito — corposi cascami di ideologia novecentesca, i cui effetti inevitabilmente si traducono nel condizionamento della conoscenza, in genere, e delle scienze umane, in specie.
A questa fonte di condizionamento si aggiungono almeno altri due fenomeni dello stesso segno.
Il primo, strettamente legato alla persistenza dell’ideologia, è l’orientamento dell’«apparato». Solo un cieco può non vedere come un lungo lavoro di conquista e di occupazione dell’apparato culturale — la scuola, l’università, i media, le case editrici, le riviste di critica, il cinema, il teatro — svolto dalle forze progressiste a partire dal secondo dopoguerra sia oggi ripagato da una straordinaria capacità di ammortizzare le non poche sconfitte e di saper resistere a ogni cambiamento.
Questo potere «reale», un potere «forte», anzi dei più ossificati e «duri», blocca, filtra, insabbia, rende inerte non solo qualunque tentativo di concorrenza culturale che nasca sospinto da un potere politico-culturale avverso, al punto da opporsi al cambiamento quando esso è frutto del maturare di sensibilità nuove e del porsi di problemi inediti all’interno delle stesse «forze di occupazione». Non mi pare che serva esibire pezze d’appoggio particolari per confortare questa tesi: basta guardare ai cinque anni di governo del centro-destra per capire molte cose.
Posta questa refrattarietà del «sistema», ogni tentativo di reinterpretare la storia d’Italia in termini non convenzionali, così come i sempre più numerosi reperti documentari che si vengono accumulando rendono possibile e doveroso, si trovi frustrato perché privo del necessario apporto della struttura.
L’ultimo condizionamento, meno accidentale, nasce dal fatto che i temi che hanno relazione con la storia patria non sono mai neutri. Ogni Stato ha un «mito di fondazione», quell’«invenzione» storica che fonda la memoria e quindi l’identità della collettività. Una versione «autentica» e autorevole delle origini, di cui al massimo si possono discutere i contorni ma non metterne in discussione il giudizio, mutarne i «valori». E questo vale a maggior ragione se si tratta di uno Stato, come lo Stato moderno, che dal 1789 in poi trae la sua legittimità da una entità così concettualmente e fattualmente labile come quella di «nazione». Chi subisce di più questa forma di pressing sono soprattutto le pagine storiche più «fondanti» dell’epoca moderna, ossia per l’Italia l’esperienza napoleonica, il Risorgimento, la Resistenza.
1.2 Margini di libertà
Contemporaneamente, per altro verso, non si può non constatare che la condizione in cui ci si muoveva fino agli anni Ottanta del secolo scorso oggi non esiste più.
Dopo 1989 e a misura del crescente imporsi delle «filosofie» post-moderne — nel loro riverbero sulla ricerca storica — si può dire che il granitico bastione della storia ideologizzata, nelle sue tre o quattro articolazioni «classiche» — che si riconnettono alle tre anime delle origini repubblicane: la cultura gramsciana, la scuola azionista, gli autori d’ispirazione cattolico-democratica, con qualche spazio minore per i liberali, sulla scia dell’influenza del pensiero di Croce —, presenta numerose e sempre più profonde crepe.
2. Una nuova storiografia
Al loro interno, soprattutto negli anni 1990, si nota il fiorire di una timida vague di storiografia alternativa, non ideologizzata o comunque libera dai «complessi» delle ideologie progressiste, che si va sempre più irrobustendo, nonostante le difficoltà — non ultima l’accusa di «revisionismo» revanscistico — che incontra.
Come chiamarla?
Già al suo apparire la storiografia anti-conformistica è stata bollata dai suoi antipatizzanti di «revisionismo», applicando — non a caso significativamente — un’espressione del gergo marxista-leninista — in origine destinata a stigmatizzare i cedimenti in senso socialdemocratico di qualche bolscevico indisciplinato — ad un atteggiamento scientifico. E spesso l’accusa è andata anche oltre ed è diventata accusa di «negazionismo», ovvero di mettere in discussione l’esistenza di fenomeni di enorme gravità morale — in primo luogo l’olocausto ebraico del 1943-1945 — per difendere e per avvalorare invece prospettive estreme, condannate dalla morale internazionale, come il nazionalsocialismo. Ma il discorso in merito sarebbe lungo.
Mi limito a osservare in primis che è intrinseco alla storia avanzare nuove spiegazioni e interpretazioni nella misura in cui — come inevitabilmente accade, lo si voglia o meno — non solo si rendono disponibili nuovi dati, ma anche i punti di vista — e, quindi, le ipotesi di lavoro — si moltiplicano, si raffinano, si rivedono. Pensare di fermare il progresso fisiologico della ricerca storica sarebbe come tentare d’imbrigliare un torrente di montagna: alzando dighe si otterrebbero solo ristagni sempre meno salubri… Balza poi all’occhio che la storiografia di matrice gramsciana — la più accesa contro il «revisionismo» — nel secondo dopoguerra si è assunta un ruolo nei confronti della storiografia liberale cui è impossibile non applicare l’accusa di «revisionismo». Se volevamo avere una prova di quale sia tuttora la cultura dominante, la possiamo vedere proprio in questo impiego di termini dalla semantica estranea o ambigua per descrivere realtà nuove. Infine, la forzata lettura di ogni contributo storiografico originale all’interno dello schema dialettico «amico-nemico» può veramente contribuire al progresso della conoscenza del passato?
Se vogliamo dare un nome a questo nuovo fervore di studi potremmo usare l’aggettivo «alternativo» oppure «nuovo». Visto l’uso esagerato che si fa del primo per veicolare ogni e qualunque ulteriore nuance della cultura progressista e rivoluzionaria — la stampa alternativa, la cultura alternativa, i movimenti alternativi, il commercio alternativo, la musica alternativa —, preferisco il secondo. Reputo così conveniente parlare di una «nuova storiografia», in analogia con le espressioni francesi «nouvelle théologie» o «nouveaux philosophes», anche se poi il più delle volte ripercorre tracciati e indossa abiti metodologici non nuovi, ma resi tali dalla disabitudine e dall’abbandono.
2.1 Le origini
Tale corrente di studi si sviluppa principalmente a partire dalla crisi del pensiero ideologico e dal simmetrico riaffiorare — non tanto per una accresciuta forza intrinseca, ma grazie all’esaurirsi della capacità progettuale delle culture avversarie — di un «pensiero forte», anti-utopistico, che ricupera in parte le ragioni della tradizione italiana ed è sensibile, con maggiori o minori accentuazioni, al dato religioso. Ma muove pure dall’insofferenza per la inossidabile reiterazione di luoghi comuni, per il conformismo dei giudizi, per la voluta auto-limitazione delle ipotesi di lavoro a quelle più «innocue», per una pubblicistica monocorde, che gravano come una nube oscura sugli ambienti dove istituzionalmente la ricerca e la divulgazione hanno luogo. Così pure mal sopporta la realtà dei finanziamenti pubblici «orientati», e, infine, last but not least, che i percorsi di carriera accademica siano pesantemente determinati dall’essere «dentro» o «fuori» un certo schieramento o ambiente politico-culturale.
Né, per far nascere una storiografia alternativa, si può tacere del lavoro di apripista svolto da ambienti — centri culturali, movimenti religiosi, partiti politici, amministrazioni locali — ideologicamente coinvolti da determinati episodi della storia patria in senso diametralmente opposto a quello egemone magari attivatisi per ragioni non esclusivamente culturali — ma fra cultura e politica non deve esistere una «circolo virtuoso» fecondo? A essi si deve che, magari in forme clamorose o con proposte al confine del pittoresco, sia stato riportato — almeno per un po’ — sotto la luce dei riflettori il problema del ripristino di un’identità genuina del nostro paese.
2.2 L’oggetto
I luoghi su cui si appunta l’attenzione di questa nuova vague storiografica sono quei nodi della storia nazionale dove più acuta si avvertiva la frizione fra verità ufficiale e dato storico. Premettendo che analoga attenzione era viva già da parecchio negli ambiti regionali di frontiera e maggiormente eterogenei rispetto al modello storico-culturale «nazionale» come il Trentino, l’Alto Adige o la Val d’Aosta, grazie alla presenza di movimenti autonomistici di un certo spessore, venivano rimessi al centro dell’attenzione quei luoghi «topici» — il giacobinismo e l’insorgenza, il Risorgimento, la guerra civile del 1943-1944 —, in cui la verità storica era stata più deformata e, in conseguenza di ciò, il tessuto identitario aveva subito le maggiori lacerazioni. Ma anche singoli episodi controversi, dove la vulgata ufficiale maggiormente mostrava la corda, cadevano sotto il fuoco delle nuove indagini: per esempio, la figura del cardinale Ruffo, l’amministrazione asburgica, la conquista garibaldina del Sud, la repressione del brigantaggio, i moti di Milano del 1898, le stragi della Prima Guerra, Cefalonia, via Rasella, Malga Poržus, il Sessantotto e così via.
Tutti luoghi e temi, quindi, che riflettevano vivamente il bisogno del ricupero di una storia autentica del Paese e il rinnovamento di una nozione di identità civile troppo a lungo compressa e lasciata inaridire nell’epoca dalle ideologie cosmopolitiche e internazionalistiche, e prima sommersa sotto la valanga di stilemi «nazionali» — più spesso autentiche torsioni identitarie —, di cui è artefice — prima stentato, poi, nel ventennio fascista, in gran parte riuscito — il Risorgimento.
Quest’ultima necessità di riscoperta delle identità culturali e locali è emerso prepotentemente un po’ ovunque in Europa dopo la caduta dell’impero socialcomunista moscovita e la riconquistata libertà di soggetti culturali prima rinchiusi all’interno di quella «prigione di popoli» che era l’Urss, soggetti che ora riapparivano sulla scena della storia ben intenzionati a riconquistarsi lo spazio a loro per lungo tempo sottratto.
Tuttavia, se altrove, fra i soggetti-clou del rinnovato interesse alla storia dei popoli, l’attenzione si fissa con ruolo primario sul comunismo, da noi — e questa differenza testimonia quanto astuta e profonda sia stata la penetrazione della mentalità socialista, e non solo della mentalità ma anche della strutturazione sociale —, l’applicazione a questo soggetto sembra sia stata molto meno intensa. È mancato infatti, salvi pochi casi, non dico un nuovo processo di Norimberga, questa volta per i gerarchi comunisti, ma almeno un minimo di ripensamento delle devastazioni reali e morali del marxismo in tutte le sue versioni, uno sforzo per smascherare la menzogna di cui il comunismo — reale o utopico che sia — è strutturalmente intriso e la denuncia delle pesanti ipoteche accese dal «partito di lotta e di governo» sul vissuto storico della nazione italiana.
Basti pensare alla eco pressoché nulla che ha avuto nella pubblicistica nostrana di questi mesi — salve le furibonde reazioni a botta calda dei neo-comunisti — un fatto di assoluto rilievo come il viaggio del segretario del partito post-comunista italiano Piero Fassino a San Pietroburgo e il discorso, questo sì di accento almeno moderatamente «revisionista», da lui pronunciato il 29 giugno 2007 — San Pietro e Paolo —, davanti alle fosse comuni del cimitero-memoriale di Levashovo, rigurgitanti di scheletri di cittadini, anche italiani e comunisti, «liquidati» dal regime sovietico.
I pochi casi in cui si avverte un’inversione di tendenza — cioè in cui le due esigenze che ho nominato sono state fatte proprie anche da studiosi già «allineati», se non «sdraiati sulla linea» — hanno suscitato la rivolta della classe intellettuale progressista e neo-marxista, come dimostra il «caso Pansa» oppure vengono passati sotto silenzio. Oppure ancora, alla lunga, riescono a essere riammessi, anche se a denti stretti, purché si possano «ricuperare» in vista di ricavarne profitti editoriali.
Ma gli autentici «buchi neri» della biografia nazionale, come per esempio il grande ciclo dei movimenti popolari contro la Rivoluzione francese negli anni della dominazione napoleonica in Italia e in Europa, le cosiddette insorgenze — una realtà enorme, che deborda dall’Italia e dall’Europa stessa per toccare il Nuovo Mondo ed epoche di molto posteriori —, sono ancora più o meno tabù.
2.2 I caratteri
Quali esigenze autentiche si intravedevano, in definitiva, dietro questa fioritura di studi non convenzionali? Tante cose, ma, come minimo, il desiderio di battere piste di ricerca inedite e in larga misura «proibite»; di accedere a nuove fonti, soprattutto a quelle «congelate» dalla Guerra Fredda, ai giacimenti documentari rimasti inesplorati a causa del disinteresse, dai divieti o dalla focalizzazione su altri oggetti, quelli prescritti dal cliché vigente; di riscoprire personaggi trascurati e idee rimaste in ombra; di trovare spazio nella comunicazione — l’editoria, i media, i circuiti formativi e scolastici —; di attingere a risorse meno sparute e meno rapsodiche per proseguire e moltiplicare i già promettenti risultati. O, se non altro, che il ventaglio delle opzioni ideali ammesse nel «salotto buono» della ricerca si ampliasse e, se non altro per par condicio, vi fosse spazio anche per altri riferimenti culturali.
Si può parlare, nella fattispecie, di una operazione lanciata «a freddo» da una qualche «centrale» avversa alla cultura dominante, e affermatasi grazie alla sua preordinata organizzazione?
Credo sia errato inquadrare il fenomeno in questi termini.
Premesso che non si vede quale sia questa ipotetica centrale, il modo innovativo di far storia pare più il prodotto dell’ispessirsi di una sensibilità già sporadicamente diffusa, la quale, a fronte di mutate condizioni esterne, sfocia nella ripresa e nella rielaborazione di materiali già esistenti allo stato semi-clandestino — penso, per esempio, alle memorie dei «vinti» della guerra civile o alle numerose e talora pregevolissime storie locali —, aprendo percorsi di ricerca ancora poco praticati. Una sensibilità prevalentemente concentrata in persone giovani, in storici «della domenica» o in docenti non accademici: e non di rado in studiosi agli esordi o semplicemente improvvisati, francamente carenti, non solo di blasone, ma anche di strumenti metodologicamente adeguati per operazioni di relativamente ampio respiro.
Se questa corrente ha trovato uno spazio pressoché nullo nella produzione culturale istituzionale — centri universitari, deputazioni di storia patria, grandi case editrici —, se una certa ospitalità è riuscita a ottenere nella divulgazione — centri culturali, media locali, piccole e medie case editrici, volumi di storia di pubblicisti anti-conformisti attratti dal fenomeno «revisionista» come Paolo Mieli o Sergio Romano —, più ampia eco essa di certo ha avuto nella pubblicistica, se non addirittura nelle cronache. Si tratta tuttavia di una eco esclusivamente fattuale. Se è vero che grazie al cronista un pubblico più largo ha appreso l’esistenza di un’opinione diversa e controcorrente su un determinato tema dato ormai per scontato, di norma però questa emersione del fatto nuovo o censurato è stata accompagnata dai toni malevoli assunti del reporter: ogni intervista allo storico «revisionista» di turno è infatti sempre accompagnata da un’analoga contro-intervista a uno storico «DOC», che in genere contraddice le conclusioni del collega, spesso le anatemizza oppure le riduce o le dequalifica, sottolineando ogni volta che l’interlocutore non è storico accademico.
2.3 Lo stile
Continuando nell’analisi, qual è stato ed è lo spessore di questi studi non convenzionali? Le prime esperienze, con il senno di poi, non possono non esser globalmente censurabili: si è trattato sovente — e non mi escludo affatto da tale novero — di pamphlet vibranti di furore ideologico anti-moderno, piuttosto che di meditati saggi storici, fondati su ricerche originali, a loro volta facenti stato di fonti inedite o, comunque, frutto di buone letture e, infine, scritti ed editati in forma conveniente.
Ma oggi non è più così: nonostante il mancato appoggio, se non l’ostruzionismo palese, del mondo della ricerca ufficiale, si sono visitati archivi, si sono trovati e letti i documenti, si sono elaborate molteplici fonti intermedie, si sono creati sussidi per la ricerca, si sono assegnate tesi di laurea, si sono tenuti convegni scientifici, si sono pubblicati volumi e perfino sussidi per la scuola.
Se è difficile quantificare il frutto di questa stagione ormai ventennale, è però possibile dire che, come minimo, la storiografia ufficiale fatica sempre più a usare dell’arma dell’«ignoranza», a dire cioè che certe realtà sgradite non sono mai esistite: troppi sono i materiali che sono stati acquisiti per poterli ignorare. E deve adottare altre modalità di contenimento: il riduzionismo, l’inquinamento, il richiamo ai valori repubblicani «non negoziabili».
2.4 I problemi
Ma accanto a questi oggettivi successi permangono gravi insufficienze. A parte piccole e lodevoli eccezioni l’ambiente accademico rimane pigro nel promuovere ricerche su quelle realtà che gli studiosi indipendenti prospettano come nodali per la storia del paese. L’editoria controcorrente è ancora figlia di un Dio minore. Gli storici innovatori continuano a essere in maggioranza «storici della domenica» oppure giornalisti che si improvvisano storici anche per sopperire alle carenze create dall’ultra-specializzazione della storiografia accademica. Mancano iniziative volte a individuare e a inventariare fonti nuove a mano a mano che affiorano. Le riviste specializzate sono sempre più in crisi: a differenza della Francia, in Italia c’è una sola rivista a diffusione popolare, la neonata Storia in network, mentre gloriose testate come Storia illustrata e Historia hanno chiuso i battenti da anni. Quelle superstiti non conoscono soste nel riproporre tesi convenzionali ormai logore. La comunicazione popolare — il centenario garibaldino di quest’anno ne è conferma —, soprattutto i serial televisivi a sfondo storico seguita imperterrita e spudorata a propalare tesi false e calunnie disgustose. Gli sponsor privati preferiscono sostenere iniziative a più immediato ritorno economico, mentre quelli pubblici, o sono tuttora orientati in senso ideologico — quindi de facto «conservatori» — oppure mostrano una corposa insensibilità verso il sostegno a ricerche svolte al di fuori degli ambienti «certificati».
3. Che fare, dunque?
Che fare allora? Anche se la cultura progressista, che oggi esprime di fatto visioni «conservatrici» o addirittura misoneiste, è sempre più in crisi, ciononostante le restano ancor cospicue rendite di posizione e di potere. Sul versante pubblico cinque anni di governo di centro-destra hanno visto la vittoriosa «resistenza» dell’apparato, ma hanno anche evidenziato la refrattarietà di un certo ceto politico verso la cultura e, infine, la scarsità negli apparati dei partiti di risorse intellettuali su cui costruire. Di fronte alla condizione attuale non pare vi siano alternative se non proseguire nell’azione di erosione e di controproposta.
Ma occorre farlo con intelligenza, cercando di colpire dove ha più senso farlo o si è più forti, evitando al massimo la duplicazione e la frammentazione delle iniziative, cercando invece quanto più possibile di «fare sinergia» e di raggiungere «una massa critica», anche sotto il profilo delle risorse. I soggetti con cui ci si deve misurare hanno una dimensione ben maggiore e un capitale di esperienza e di radicamento assai ingente.
4. Una metodica
Venendo alla metodica, premetto che non intendo erigermi assolutamente a maestro di alcuno: voglio solo richiamare qualche principio di buon senso — forse ovvio: ma repetita juvant — che considero necessario e particolarmente urgente.
4.1 In primis sul piano delle ipotesi di lavoro: le nostre rispettive visioni della vita, del mondo, della società, della storia stessa ci inducono a considerare certi fatti e a ometterne altri, a dare maggior rilievo a questo piuttosto che a quel personaggio, a definire più urgente o meno urgente un’indagine piuttosto che un’altra. E questo è intrinseco e lecito a ogni processo di osservazione scientifica: e la storia, anche se il suo oggetto è il passato, cade senz’altro in questo novero. Se nella nostra idea di mondo e di politica, per esempio, il comunismo è visto come un fenomeno nocivo per l’uomo e per la società, è giusto e lecito lavorare per esaminare storicamente i comportamenti dei comunisti, per ricostruirne le costanti, per darne una valutazione sulla base dei dati elaborati. Se poi l’esame rivela risultati diversi dalle attese — per esempio che la pericolosità è superiore a quella ipotizzata, è distribuita geograficamente o socialmente in maniera diversa da quella attesa, la responsabilità di una determinata azione va attribuita a questo invece che a quel gruppo oppure non è imputabile all’ideologia comunista ma è prodotto di altre cause — occorre prenderne serenamente atto e, al limite, verificare la bontà e l’attendibilità delle fonti utilizzate.
4.2 Poi, l’elemento fattuale. Non si possono trarre conclusioni se non sulla base di fatti. Trattandosi di fatti del passato, in certi casi, di un passato remoto, di tali fatti si può avere un’immagine più o meno sfuocata: quindi le conclusioni vanno dimensionate sulla base della certezza ottenibile, circostanziate e condizionate. E se l’ipotesi non trova riscontro nei fatti, va abbandonata. Se i fatti smentiscono l’ipotesi adottata l’ipotesi va cambiata: non si deve fare il contrario, cioè piegare i fatti all’ipotesi. Il tallone d’Achille — e il dramma — di molta storiografia contemporanea, soprattutto di quella dialettico-immanentistica, sia essa di matrice idealistico-crociana o materialistico-gramsciana, è che affronta la storia con modalità predittiva, provocando torsioni addirittura drammatiche nelle conclusioni e, di conseguenza — qui sta il dramma —, nei processi formativi che su di esse si fonderanno. In questa prospettiva, per esempio, se Mazzini è un «santo», tutti i fatti che ne possano menomare l’immagine verranno scartati o sottovalutati, e viceversa.
I fatti invece vanno raccolti e documentati con la maggiore ampiezza possibile, gerarchizzandone l’importanza relativa e verificando l’attendibilità delle fonti che li riportano: quanto più ampia è la base di applicazione, tanto migliore sarà l’interpretazione. Non per difendere il positivismo, ma questa fase è essenziale e — se la prima, l’individuazione, cade sotto il segno della spregiudicatezza — essa va condotta con estremo scrupolo, soprattutto nell’analisi e nella selezione critica delle fonti. Analogo è il discorso per le fonti intermedie, ossia per i contributi critici e le relative interpretazioni parziali da prendere in esame per arrivare all’interpretazione finale. Anch’essi devono essere molteplici e, possibilmente, provenire da angoli visuali differenti, magari in lingue diverse, se l’argomento lo richiede.
4.3 Quindi, le interpretazioni: l’ermeneutica è la scienza che serve a far parlare i fatti o a dare il giusto senso — il senso autentico, quello che ne dà l’autore — ad asserzioni e a prescrizioni del passato. Pertanto ha le sue leggi e il suo vincolo fondamentale negli oggetti a cui si applica. Sarebbe troppo lungo affrontare in maniera tematica questo argomento: basti dire che esistono interpretazioni lecite e interpretazioni abusive, interpretazioni libere e interpretazioni forzate, interpretazioni soggettive e interpretazioni oggettive, interpretazioni certe, sicure o solo probabili o addirittura meramente possibili. Fra i diversi criteri che rafforzano la validità di una interpretazione particolare importanza ha quello comparativo. Infine, è fondamentale la completezza di orizzonte: non tutte le ragioni di un evento sono parimenti importanti, occorre tuttavia segnalarle tutte, gerarchizzandole.
4.4 Concludendo, la comunicazione. La valutazione che viene data di un episodio o di un plesso di episodi, cioè la loro lettura e lo stile con cui i suoi esiti vengono presentati, è un elemento cruciale perché il portato dell’attività dello storico possa giungere ai suoi beneficiari «naturali». Del un prodotto di una ricerca si possono fare più usi. Se ne può fare la base di partenza per un dibattito culturale in senso ampio; se ne può fare oggetto di confronto e anche di polemica storiografica oppure trarne conclusioni «politiche»; se ne può fare uno strumento per fornire nuovi spunti alla ricerca stessa; se ne può fare la fonte per lo sviluppo di altri prodotti: per esempio in ambito formativo, oppure per i canali dell’informazione.
Personalmente, consapevole dell’ostilità di fondo imperante e comprendendo che la voglia sia tanta, da un lato di reagire contro una condizione spesso sentita come ingiusta e, dall’altro, di tradurre l’amore per le proprie idee in contrapposizione talora violenta, credo però che occorra continuare a battere la strada della persuasione e non quella del confronto, né, tanto meno, quella dell’aggressione polemica e dello scontro: almeno come primo atteggiamento. La condizione di partenza è tuttora di sostanziale debolezza e ancor oggi non è facile produrre contributi qualitativamente all’altezza del dibattito e dell’opinione avversa.
4.5 Infine, la strategia. Credo che i discorsi intorno alla «memoria condivisa» non siano destinati al successo. Tuttavia l’esigenza pressante del ritorno alla verità — che Benedetto XVI ha così fortemente sottolineato in relazione al problema della pace nel suo discorso Nella verità, la pace per la Giornata della Pace 2006 — impone l’abbandono quanto meno delle memorie ideologiche, delle memorie artificialmente costruite, e comunque il rispetto delle memorie altrui, per quando censurabili esse si presentino, per puntare, piuttosto a una memoria «riconciliata», frutto di una verità, pur minima, riconosciuta e accettata, tale quindi da non produrre effetti divisivi nella vita della nazione.
Poi, è consigliabile evitare di sperare o pretendere di ottenere dei risultati per le vie o in tempi brevi. È bene pensare la propria azione in tempi lunghi o, addirittura, «per epoche», come suggeriva Gonzague de Reynold (1880-1970): la condizione difficile in cui i nuovi storici si muovono non è nata oggi, né ieri, ma è l’esito di una battaglia culturale persa molti decenni — se non molti secoli — addietro.