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a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale




Marco Tangheroni



Dell’utilità della storia e del rapporto passato-presente




«Lo storico non si installa nel passato con l’intento di intendere meglio il presente. Quello che siamo stati non ci interessa per ricercare ciò che siamo. Quello che siamo interessa per ricercare ciò che siamo stati. Il passato non è la meta apparente dello storico, bensì quella reale» (1).

  Questo aforisma del pensatore colombiano Nicolás Gómez Dávila (1913-1994) colpisce in modo radicale una convinzione, quanto mai diffusa, circa l’utilità della storia. Non vi è circolare ministeriale né progetto relativo al posto dell’insegnamento di tale disciplina nei curricula scolastici che non si fondi su di essa. Lo studio del passato è finalizzato alla comprensione del presente: una tesi, si badi, diversa dall’affermazione di senso comune «la conoscenza del passato è indispensabile alla comprensione del presente». Ne deriva, conseguentemente, che l’accento batta soprattutto sul passato più vicino al presente; così è accaduto in Italia con la riforma della distribuzione cronologica dell’insegnamento della storia, decisa d’autorità, con decreti ministeriali, dall’allora ministro della Pubblica Istruzione, on. Luigi Berlinguer (2), nel 1997.

  Il fisico Lucio Russo, nella sua lucida analisi su «dove sta andando la scuola», ha scritto: «La tendenza a privilegiare la storia recente, ritenendo che l’unica scala temporale che veramente ci interessi sia quella di breve periodo, è effetto e causa di profonda ignoranza. La storia di lungo periodo fornisce strumenti concettuali preziosi per approfondire la comprensione della civiltà attuale, ma naturalmente non è utilizzabile per dedurre informazioni di utilità pratica immediata. [...] La riduzione della storia a “storia del presente” tende, in particolare, a sovrapporla all’educazione civica, finalizzandone lo studio all’apprendimento di una serie di norme di “corretto” comportamento civile e politico» (3).

  Apriamo un libro di scuola per le secondarie superiori ― nel caso concreto quello di mia figlia (4), ma ho sufficiente conoscenza dei libri di testo per assicurare che si tratta di un’impostazione assolutamente dominante ―, il quale ambisce, come avvertono gli autori, a essere «in linea con le più significative esperienze didattiche maturate in questi ultimi anni, e in larga misura recepite dai nuovi programmi ministeriali» (5). E ― aggiungo ― non si tratta di uno dei libri peggiori in circolazione.

  Il primo «modulo» ― avverto il lettore ignaro delle novitΰ pedagogiche: i libri di testo si dividono ora in moduli e non più in capitoli ― è dedicato ad un «avvio allo studio della storia». Inizialmente, come esempio di una ricerca di tipo storico, si riporta un lungo brano del romanzo di avventure I figli del capitano Grant di Jules Verne (1828-1905) e così si prosegue, chiarendo la domanda che si pongono gli uomini del Duncan per poter salvare i profughi del Britannia: «Essi devono scoprire che cosa è avvenuto nel passato per decidere che cosa fare nel presente». E ancora: «I protagonisti del romanzo non si sforzano di conoscere il passato per semplice curiosità [...]. Anche il nostro interesse per il passato non è dettato da semplice curiosità. Infatti ci sforziamo di conoscere e di ricordare solo ciò che riteniamo importante per noi [...]. Anche la storia non si occupa del passato in generale. Essa si occupa solo di quelle cose che sono degne di essere ricordate. Gli storici, cioè, studiano quegli aspetti del passato che interessano al presente» (6).

  Per quanto ritenga che gravissimi siano i danni che i pedagogisti abbiano fatto, in particolare quelli incistati da anni nel Ministero dell’Istruzione, occorre riconoscere che circolari, decreti, libri di testo, rispondono a convinzioni diffuse anche fra gli storici, in specie fra quelli più organizzati e più influenti. Il settimanale Panorama ― edito da Mondadori, di proprietΰ di Silvio Berlusconi ― sta, nei giorni in cui scrivo [2003], riproponendo in Cd Rom la Storia d’Italia della Einaudi, che già ha avuto una larghissima diffusione da quando uscì, a partire dal 1972.

  Non è agevole, va detto, individuare una impostazione di base in un’opera collettiva, cui hanno collaborato tanti autori, di formazione anche assai diversa, con contributi di differente livello, in alcuni casi, fra l’altro, di notevole altezza storiografica. Ciò tanto più in quanto la stessa struttura dell’opera, con un primo volume dedicato ai «caratteri originali» e uno, intitolato ai «documenti» ― ma in realtΰ composto di saggi di approfondimento ―, si presenta, almeno in parte volutamente, come particolarmente disordinata (7). Tuttavia, in essa è ricuperabile un’impostazione prevalente, improntata a una sorta di «annalismo» aperto al marxismo (8). Ritorna pure centrale il nesso presente-passato, nel senso di un utilitario conoscere il passato per capire il presente, con la finalità di potersi liberare definitivamente di esso. Parafrasando Karl Marx (1818-1883), compito degli storici e della storia, sarebbe, insomma, quello di fornire gli strumenti per l’ultimo decisivo sforzo sulla strada del progresso.

  Si legge, infatti, nella Presentazione dell’editore, dovuta, forse, alla penna di Ruggero Romano (1923-2002): «Qual è il peso di situazioni passate, capaci ancora di frenare il processo di sviluppo del nostro tempo, e quali tradizioni, invece, hanno offerto e offrono nel presente un incentivo e uno stimolo per trasformare la società in cui viviamo? L’opera che presentiamo ha l’ambizione non piccola di voler contribuire a rispondere a tali interrogativi, di aiutarci a capire chi siamo e quali radici e presupposti abbia la nostra società» (9).

  Dopo l’attentato dell’11 settembre 2001 alle Twin Towers di New York abbiamo assistito a molti dibattiti televisivi. In essi la storia ha avuto largo posto: un posto eccessivo, a mio parere. Le è stato troppe volte attribuito, nuovamente, quel ruolo di giudice, che già aveva avuto nell’Ottocento e del quale si sperava che si fosse liberata. Allora era chiamata a decidere dei confini, del diritto delle nazioni a esistere statualmente, della legittimità delle guerre e, quindi, anche di chi dovesse vincerle. Oggi, in recenti processi contro collaborazionisti francesi coinvolti nelle retate nazionalsocialiste di ebrei, sono stati ascoltati come testimoni sul contesto, molti storici contemporaneisti, con una pericolosa tendenza ad assimilare il compito «sociale» dello storico a quello del giudice (10). Né è perché è celebre come storico acuto e innovatore che l’opinione di Carlo Ginzburg (11) sull’innocenza di Adriano Sofri dovrebbe avere un particolare valore. Una frase di Maurice Sartre, citata da Olivier Dumoulin, secondo cui «Una repubblica degli storici sarebbe altrettanto pericolosa di una repubblica dei giudici», è da me pienamente condivisa (12).

  Il passato è passato. Può sembrare una banalità, ma non lo è. Esso è diverso dal presente, anche quando è un passato recente o recentissimo. Pure quando gli storici contemporanei possono interrogare i protagonisti, come, nel caso delle belle ricerche di Paolo Pezzino (13), il meccanismo trasformante della memoria gioca un ruolo decisivo. Esiste tutta una problematica metodologica che gli specialisti della «storia orale» hanno ormai sottilmente approfondito. Pur se ci sono problemi specifici per la storia contemporanea, che sorgono dal carattere recente del passato che essa studia; come vedremo tra poco.

  È nota la tesi del filosofo Benedetto Croce (1866-1952) sulla «contemporaneità» di qualsiasi storia. «Anche questa storia già formata, che si dice o si vorrebbe dire “storia non contemporanea” o “passata”, se è davvero storia, se cioè ha un senso e non suona come discorso a vuoto, è contemporanea»; ciò «perché è evidente che solo un interesse della vita presente ci può muovere a indagare un fatto passato; il quale, dunque, in quanto si unifica con un interesse della vita presente, non risponde a un interesse passato, ma presente». Proprio da questa tesi, Croce faceva discendere la scomparsa di ogni dubbio «[…] intorno alla certezza e all’utilità della storia. Come mai potrebbe essere incerto ciò che è un presente produrre del nostro spirito? Come potrebbe essere inutile una conoscenza, che risolve un problema sorto dal seno della vita?» (14). Mi pare evidente che questa soluzione dei problemi dell’utilità della storia e della verità della storia possa essere accolta solo collocandosi all’interno del sistema filosofico di Croce. A proposito del quale non è forse male aprire una parentesi.

  Per la formazione della generazione degli storici precedente la mia, l’influenza di Croce, e per le sue opere storiche e per le sue riflessioni teoriche, fu spesso assai forte. Cinzio Violante (1921-2001), sia scrivendo di sé stesso, sia nelle conversazioni private ― anche con me ―, ha sempre dichiarato non soltanto una forte influenza sulla sua formazione giovanile ― del resto egli fu borsista dell’Istituto Italiano di Studi Storici quando esso era stato appena fondato dal filosofo napoletano (15) ―, ma anche una sostanziale fedeltΰ allo storicismo crociano; pur ― va aggiunto ― formulando riserve a proposito della «contemporaneità» di ogni storia, sulla possibilità di circoscrivere le ricerche dello storico a problemi connessi a interessi del presente (16). In verità, esaminando le principali opere storiche di Violante non è facile individuare caratteristiche metodologiche specificamente crociane; l’influenza di Gioacchino Volpe (1876-1971) appare molto più evidente. Ma, probabilmente, la dichiarata fedeltà crociana del maestro pugliese è da collegarsi nell’esigenza, che egli sentiva vivissima, di legare problemi esistenziali e professione di storico; tanto da ritenere che la storiografia fosse ormai in crisi proprio per aver rinunciato a questo nesso (17). Una posizione per certi versi analoga si trova in considerazioni, pure pessimistiche, di Ovidio Capitani sull’a-teoreticità della medievistica italiana (18).

  Alla mia generazione Croce è rimasto, mi pare, completamente lontano, per l’estraneità del suo sistema filosofico e, direi, del suo stesso linguaggio. In particolare, poi, spiaceva il primato da lui accordato alla storiografia «etico-politica» e la sua concezione del rapporto fra storia e filosofia. Mi rendo ora conto che il nostro rifiuto fu forse eccessivo, che la rimozione di Croce fu forse troppo totale e rapida, che più di una pagina ci sarebbe stata utile e ci avrebbe evitato cammini più lunghi e complessi, che avremmo dovuto lasciarci guidare maggiormente da Croce storico, il saggio, assai fine, di un maestro come Federico Chabod (1901-1960) (19); ma il suo «storicismo assoluto» resta irrimediabilmente lontano.

  Il problema che l’aforisma posto in apertura di capitolo mette a fuoco è il seguente: studiare del passato solo ciò che ha avuto continuazione nello svolgimento storico porta a un doppio fatale travisamento. In primo luogo, a una deformazione totale del passato e della sua complessità, ridotta a una sola variante, rispetto alle molte possibilità di cui esso ― nel tempo e nello spazio ― era stato ricco. [In altro capitolo del libro, cui dovrebbero appartenere queste pagine, dedicato al filosofo Sören Kierkegaard (1813-1855), questa affermazione troverà un suo sufficiente fondamento].

  A ben vedere, lo ripeto, contro lo slogan corrente, a scuola e fuori, che «la storia non si fa con i «se», è abbastanza vera l’affermazione contraria: la storia si fa, in certo senso, proprio con i «se», cioè ricostruendo il passato nella ricchezza delle sue possibilità, anche e proprio per meglio intendere le possibilità diventate realtà, come pure realtà non più possibili, se non in vista del futuro, ma in sé ormai dotate dell’irrevocabile necessità dell’avvenuto. Ha scritto Paul Veyne: «Nessuno sarà storico se non avverte, attorno alla storia che si è realmente prodotta, una molteplicità indefinita di storie compossibili, di “cose che sarebbero potute andare altrimenti”» (20). Le «cose / che potevano essere e non sono / state...» di Guido Gozzano (1883-1916) [(21)]. E qui sta il secondo travisamento: perché anche quel passato sopravvivente nel presente, che si è voluto selezionare, se deformato, se non compreso, non serve affatto a capire il presente e ci porterà fuori strada. Si viene così meno alla pietas verso il passato, che deve caratterizzare la storia e lo storico. L’uso del termine latino «pietas» invece dell’italiano «pietà» non è un vezzo. Gli studenti di un tempo ricorderanno: «at pius Aeneas...», ovvero quel farsi carico del vecchio padre e dei Penati, e anche dei ricordi: «infandum regina iubes renovare dolorem», con la splendida ripresa dantesca «Tu vuo’ ch’ io rinovelli disperato dolor che ’l cor mi preme» (22). Questa pietas mi sembra essere già qualcosa di più della semplice curiosità, che è pure già una prima risposta significativa alla domanda «a che cosa serve la storia?», come ricordava, in apertura della sua riflessione sul mestiere di storico, purtroppo rimasta incompiuta, Marc Bloch (1886-1944) (23). Per Paul Veyne, anzi, soddisfare la legittima curiosità sarebbe l’unica risposta altrettanto legittima a una questione mal posta. «Questa spiegazione basta a se stessa: la storia è una attività culturale, e la cultura gratuita è una dimensione antropologica» (24).

  Come dice molto bene l’aforisma d’apertura, lo storico — il vero storico — deve installarsi nel passato, per comprendere il passato. Ma qui bisogna intendersi, occorre chiarire le modalità di questo installarsi, radicarsi. Radicarsi non vuol dire illudersi di annullare la distanza temporale, sperare di essere «un americano alla corte di re Artù» (25). Anzi, quella distanza temporale, non cancellabile, va valorizzata positivamente, come mostra bene l’opera di Henri Irénée Marrou (1904-1977). «Quando era “reale”, quello che noi oggi chiamiamo passato era tutt’altra cosa per i suoi protagonisti, per gli uomini che l’hanno vissuto [...] un presente imprevedibile, in cui tutto era in movimento e in divenire, a-becoming, in fieri» (26). Ciò comporta, tra l’altro, capire bene che «quando il passato era qualcosa di vivo e quindi «presente», lo era non diversamente dal presente che noi viviamo oggi; un che di nebbioso, confuso, multiforme e inintelligibile, un intricato sviluppo di cause e di effetti, un campo in cui scontrano forze indicibilmente complesse, qualcosa che la coscienza dell’uomo — attore o spettatore che sia — si mostra necessariamente del tutto incapace a cogliere nella sua vera realtà (almeno su questa terra non esistono posti di osservazione privilegiati)» (27).

  Lo storico, invece, proprio in forza della distanza temporale, guarda al passato in modo diverso, cercando di comprenderlo, spiegarlo, con una visione ordinata, costruendo linee generali. «Fine dello storico è proprio quello di guardare al passato con uno sguardo razionale, capace di impadronirsene, di comprenderlo e, in un certo senso, di spiegarlo; uno sguardo che noi non potremo mai gettare sul tempo presente» (28). Così, «la storia è un incontro, il rapporto posto in essere dallo storico tra due piani di umanità: il passato vissuto dagli uomini di un tempo e il presente in cui si sviluppa tutto uno sforzo inteso a rievocare questo passato, perché ne tragga profitto l’uomo, cioè gli uomini che verranno» (29).

  Non dissimili espressioni si possono leggere in Fernand Braudel (1902-1985). «Che cosa è un grande evento? Non certo quello che fa più scalpore sul momento [...]. Ma quello che provoca le conseguenze più importanti e numerose. Le conseguenze non si manifestano al momento, sono figlie del tempo. Di qui i molteplici vantaggi che derivano dalla possibilità di osservare un’epoca a distanza. È infatti un gran vantaggio poter cogliere i fatti in una successione coerente, non come punti, ma come linee di luce. Per chi studia un dramma, è importante conoscerne la conclusione» (30).

  Pure nell’ermeneutica, quale la concepisce e la propone Hans-Georg Gadamer (1900-2002), la distanza temporale fra il presente e il passato ha un’importanza cruciale. Le considerazioni sono molto simili a quelle svolte da Marrou; del resto, in ambedue — molto di più, com’è noto, nel tedesco — l’influenza di certi aspetti di Heidegger è forte, e ambedue, su questo punto, si allontanano esplicitamente e consapevolmente dallo storicismo tedesco «classico». Scrive Gadamer: «La distanza temporale non è qualcosa che debba essere superata [...]. In realtà si tratta di riconoscere nella distanza temporale una positiva e produttiva possibilità del comprendere. Questa distanza non è un abisso spalancato davanti a noi, ma è riempito dalla continuità della trasmissione e della tradizione, nella cui luce ci mostra tutto ciò che è oggetto di comunicazione storica». Solo quando il passato è «abbastanza morto da poter essere oggetto di un interesse soltanto storico», quando è conchiuso, può essere fatto oggetto di vera comprensione (31). E Paul Ricoeur (1913-2005) scrive: «La storia ha il peso dei morti del passato, dei quali noi siamo gli eredi. L’intera operazione storica può essere considerata come un atto di sepoltura» (32).

  È la considerazione della distanza temporale e della discontinuità che permette di capire la letteratura medievale e anche di renderla fonte di piacere estetico. Paul Zumthor (1915-1995), che ha aperto prospettive nuove in questa direzione, ha insistito sulla rottura definitiva rappresentata dall’invenzione della stampa (33). Con esplicito riferimento anche all’ermeneutica di Gadamer, Hans Robert Jauss (1921-1997) ha approfondito il concetto di alterità della letteratura medievale (34). È per noi difficile, abituati come siamo a considerare il testo come qualcosa di conchiuso, di cui il filologo deve ricostruire l’originale, strettamente connesso al suo autore, porci nella prospettiva di una trasmissione orale, di un’opera aperta e mutevole, di una ricezione fondata in gran parte sull’ascolto.

  Guy Thuillier e Jean Tulard, in un loro libro sul mestiere dello storico, affermano che questi deve possedere curiosità, capacità progettuale, capacità di intuire, preoccupazione per la morte. «La relazione dello storico con la morte è cosa essenziale. Il mestiere di storico deforma, crea dei riflessi dominati da un sentimento della fuga irreversibile del tempo: lo storico ha il senso dello scacco finale, ordina cose morte, fallimenti, un mondo già finito, già votato all’assenza, alla rovina [...]. Il passato che egli studia rinvia alla sua morte, è in un certo senso anticipazione della propria morte» (35).

  Questo non significa che anche alla storia più contemporanea — che rimanda alla vita, più che alla morte, che affronta un passato che è quasi presente — non si possa e non si debba richiedere rigore e metodo; semmai dovremmo chiederle anche una maggiore consapevolezza dei propri limiti, invece di tranciare sentenze che, del resto, nascono spesso dalla passione politica, cioè dalla mancanza della distanza temporale.

  Scrive ancora Gadamer che «Un pensiero autenticamente storico deve essere consapevole della propria storicità. Solo così esso non si ridurrà a inseguire il fantasma di un oggetto storico [...] ma sarà il modo di riconoscere ciò che è altro da sé, riconoscendo così, con l’altro, se stesso. Il vero oggetto della storia non è affatto un oggetto, ma l’unità di questi due termini, un rapporto in cui consiste sia la realtà della storia, sia, insieme, la realtà della comprensione storica» (36). Come si può comprendere anche dalle citazioni fatte, la matricola cui Cinzio Violante aveva fatto scoprire, nel 1964, non senza impatto traumatico, le posizioni dello storico francese sul rapporto presente-passato, quando, circa un quarto di secolo dopo, incontrò sulla propria strada Gadamer, rimase molto colpito dalla quasi completa assonanza sul tema fra i due autori.

  Radicamento, dunque, consapevole. Strumentalizzare questo radicamento solo in vista di una pseudo-comprensione del presente, basata, come visto, su una pseudo-comprensione del passato, non porta ad alcuna strada utile da battere. Tanto meno quella della previsione del futuro. Ricordo di avere scritto una volta che in politica il parere del premio Nobel Rita Levi Montalcini valeva quello del mio barbiere di Asciano Pisano. E infatti è così: circa il futuro, il parere di uno storico vale quello del mio barbiere di Asciano.
Fra parentesi: quante cose ho imparato nella sua bottega; nei paesi ci si andava — e ancora i vecchi ci vanno — «a fare quattro chiacchiere», e quando ero giovane, e il mio era un paese contadino, le persone pensavano ancora con la propria testa...

  Con tanti «cremlinologi» al lavoro, nessuno aveva previsto l’improvvisa implosione dell’impero comunista sovietico nel 1989. Con un’eccezione, Andrej Alekseevic Amal’rik (1938-1980), dissidente ed esule sovietico, forse assassinato da uomini dei servizi segreti comunisti. Il suo Sopravviverà l’Unione Sovietica fino al 1984? fu pubblicato a Roma, da una piccola casa editrice (37). Come data non ha sbagliato di molto. Amal’rik aveva cominciato come storico, ma era stato espulso dagli studi per aver sostenuto nella sua tesi di laurea, che le prime città della Russia erano state fondate dai varieghi ― ramo svedese dei normanni ― contro la dottrina, ufficialmente imposta, che le voleva fondate dai russi stessi. Ecco un esempio in cui l’esperienza del mestiere di storico, con l’educazione alla complessità dell’analisi del reale, favorì poi un’analisi complessa anche del presente, in particolare dell’Unione Sovietica e delle sue criticità.

  Un esempio analogo, anche più importante, aveva offerto Marc Bloch. Il grande storico francese, che già aveva combattuto nella Prima Guerra Mondiale, partecipò anche alla seconda sul fronte belga, pur potendo, per età e numero di figli, evitare il richiamo. Dopo il crollo francese del maggio-giugno 1940, vissuto sul fronte del nord-est, fra il luglio e il settembre successivi, egli scrisse una «testimonianza», come egli la chiamò, che, oltre al racconto delle esperienze personali, ci offre anche le sue amare ma incisive analisi delle ragioni della sconfitta; un libro, del resto, dal quale in precedenza ho tratto riflessioni e citazioni. Il manoscritto si salvò, diversamente dal suo autore ― il quale, com’è noto, essendosi arruolato nella resistenza francese, morì fucilato dai tedeschi nel 1944 ―, e fu pubblicato postumo. Vi si legge, quasi in apertura, che «Scrivere di storia e insegnarla: è questo, da circa trentaquattro anni, il mio mestiere. Mi ha portato a scartabellare molti documenti di epoche diverse per selezionarvi, come meglio potevo, il vero dal falso. E mi ha anche insegnato a molto guardare e osservare. Perché ho sempre pensato che il primo dovere di uno storico, come diceva il mio maestro [Henri] Pirenne [(1862-1935)], “sia quello di interessarsi alla vita”» (38).

  Historia magistra hominis, insomma, più che magistra vitae. Studiando il passato possiamo vedere che, se i singoli eventi sono unici ed irrepetibili, è possibile riscontrare molte analogie; ed è indubbio che se ne possa trarre arricchimento e migliori predisposizioni alla comprensione anche del presente e del futuro. Marc Bloch, nella sua riflessione sulla disfatta francese, ebbe a scrivere: «La storia è essenzialmente scienza del mutamento. Essa sa ed insegna che mai si ripresentano due eventi del tutto simili, poiché le condizioni non sono mai esattamente le stesse. Certo la storia riconosce nell’evoluzione umana alcuni elementi che, se non permanenti, possono definirsi durevoli. Ma solo per confessare subito dopo la varietà quasi infinita delle loro combinazioni. Ammette, certo, da una civiltà all’altra, il riproporsi di taluni fenomeni che a grandi linee sembrano evolvere in una stessa direzione. E nota allora come da entrambe le parti sussistessero condizioni fondamentali simili. Può tentare di avventurarsi nel futuro, non credo che ne sia incapace. Ma non per insegnarci che il passato si ripete, che ciò che era ieri sarà anche domani» (39).

  Anche i saperi dimenticati servono alla formazione critica e alimentano, insospettatamente, la nostra capacità di orientamento, come ci ha mostrato la grande grecista Jacqueline Worms de Romilly (40). Ma senza pretendere che questo dia la possibilità di prevedere il futuro. Sembrano non bastare i fallimenti dei futurologi o degli economisti, la loro incapacità di previsioni, non dirò esatte, ma almeno non troppo discoste da ciò che accade poi. Così, leggo sul catalogo della Oxford University Press del 2002, che nel marzo del 2003 è prevista l’uscita di un libro intitolato The Economic Future in Historical Perspective. Nella presentazione si afferma: «The essays in this volume demonstrate the power of using history to improbe our understanding of the economic and social challenger of the present and of the future» (41). The power of the history! Ne rifugga lo storico: questo potere attribuito alla storia ha già combinato abbastanza guai nel passato. Come si è rivelata, oltre che errata, pericolosa questa frase del filosofo positivista Auguste Comte (1798-1857), citata da Marrou: «La scienza che avrà spiegato in maniera soddisfacente il passato, per questo solo motivo, otterrà inevitabilmente una funzione di supremazia spirituale per l’avvenire» (42).

  Indubbiamente, la statistica qualche previsione permette di farla. Per esempio, purtroppo, è approssimativamente prevedibile, come ordine di grandezza, il numero delle morti per incidente stradale nel prossimo week-end, e anche, secondo la stagione, la percentuale di giovani o di famiglie intere sul totale. Intanto, già sul medio periodo la previsione si è rivelata impossibile; per esempio il numero degli incidenti mortali non è cresciuto in modo analogo alla crescita delle vetture circolanti, le due curve essendosi progressivamente allontanate. Poi, non è possibile prevedere chi morirà. E proprio questo — un evento accidentale, casuale — può avere importanza storica.

  Dunque: il passato come meta reale e non apparente dello storico. Verso il passato lo storico può muovere utilmente dal presente: infatti, quello che siamo interessa per ricercare ciò che siamo stati. In senso generale questa affermazione ci ricorda che un buono storico non è un animale da tavolino, un cosiddetto «topo di biblioteca». È immerso consapevolmente, in modo vigile e attento alla realtà, nel suo tempo. La sua personalità acquisisce così quella esperienza degli uomini e del mondo che spiega la frase di Robert Graves (1895-1985): «History is an old man’s game» [«La storia è un gioco da vecchi»] (43). Natu-ralmente, aggiungerei, se non si rimbecillisce per invecchiamento precoce. Res mea agitur? Nel libro già menzionato Guy Thuillier e Jean Tulard scrivono delle belle pagine sullo scoraggiamento legato all’in-vecchiamento dello storico... (44).

  Mi piace citare quanto ricordava, da vecchio, il grande storico Gioacchino Volpe, del suo periodo pisano. Dopo aver evocato una certa influenza di Arturo Labriola (1873-1959) e Giovanni Gentile (1875-1944), aggiunge: «Dunque certa influenza dei due scrittori su di me. Ma su di me ci fu anche l’influenza esercitata dagli eventi del tempo [ultimo decennio del XIX secolo], da quei vasti moti di operai e contadini, esplosi fra l’uno e l’altro secolo, più o meno colorati di socialismo, e socialisticamente, marxisticamente commentati; quel pullulare di leghe ed associazioni contadine ed operaie da ogni parte. Tutto questo suscitava in me ed in giovani della mia generazione, anche se non propriamente socialisti, l’idea che la società si venisse trasformando e rinnovando in ogni sua manifestazione, come otto o nove secoli addietro, in Italia. Ecco che quell’Italia presente sollecitava il mio interesse per il passato, per un certo passato, per certe manifestazioni del passato; creava un nesso tra il presente e quel passato, utile a noi per capire presente e passato» (45).

  Citazione lunga, però fatta volentieri, come esempio di un bello scrivere, ma anche per l’indubbia consonanza tra quella frase che ho sottolineato e la parte dell’aforisma posto in apertura di capitolo che recita «Quello che siamo interessa per ricercare ciò che siamo stati». Indubbiamente Volpe non cercava quel che di otto secoli prima sopravviveva nel suo presente, né cadeva in anacronismi. Come scrive chiaramente, era spinto a studiare un certo passato e certi aspetti di esso. Aggiungo un’altra citazione di Volpe, bella ma più breve, che Cinzio Violante ha posto in epigrafe a una sua intervista sulla storia, uscita postuma alla fine del 2002: «[...] quel poco che io sono mi è venuto sempre più dal di dentro che non dal di fuori, più dalla osservazione diretta delle cose, più dalle circoscritte esperienze, più da un alto sentimento della vita (posso dire naturaliter philosophus?) che non dal di fuori, dai libri letti, da elaborate filosofie» (46).

  In senso più specifico l’affermazione di Gómez Dàvila evoca un metodo difficile da maneggiare con prudenza, ma utile: il metodo regressivo, il procedere appunto da certi aspetti del presente verso il passato. Alla sua diffusione ha certo contribuito l’applicazione felice che ne fece Marc Bloch nei suoi studi sulla storia agraria francese, partendo dall’aspetto dei campi che aveva sott’occhio: campi aperti e campi chiusi, forma del campo… (47). In qualche modo si tratta di metodi analoghi ad alcuni metodi dell’archeologia.

  Radicarsi nel passato. Proprio nella prima pagina di un’opera ormai classica di André Miquel sui geografi musulmani fino alla metà dell’XI secolo, rileggo e traduco questo passo, nel quale spiega la novità della sua scelta: «Perché, mi dicevo, non esplorare le opere dall’interno, e invece di tentare di distaccare, di ritagliare da esse una realtà oggettiva, quella della storia, perché non prendere questi testi come un tutto, considerandoli come testimoni non tanto di una realtà quanto di una rappresentazione della realtà, cercando, in una parola non il mondo ricreato dalla nostra ricerca, a mille anni di distanza, ma il mondo sentito, percepito, immaginato forse, dalle coscienze di allora?» (48).

  Erede della grande tradizione della geografia umana francese, Miquel si sente geografo umano. Si dovrebbe qui aprire una discussione sulla geografia oggi, ma lasciamo perdere. Il problema specifico è un altro: a me pare che i due metodi che egli contrappone siano due metodi pienamente appartenenti al campo della storia. Lo afferma chiaramente e lucidamente il seguente aforisma: «Il compito dello storico consiste meno nello spiegare quello che è accaduto, che nel far comprendere come i contemporanei compresero quello che è accaduto».

  È vero che non bisogna estremizzare questa posizione diltheyana per non perdere di vista, nella sua utilità, il distacco temporale fra lo storico e il passato che studia. Aggiungo che in buona misura l’aforisma potrebbe adattarsi alla storia come «storia della coscienza riflessa», che ha caratterizzato, in Italia, l’importante attività di ricerca e di riflessione teorica di Ovidio Capitani, uscito dalla scuola romana di Raffaello Morghen (1896-1983). Contro di essa hanno polemizzato Gabriella Rossetti e Cinzio Violante.

  Diremo, comunque, dopo queste considerazioni, che praticare la storia è inutile a chi voglia conoscere meglio il presente? Certamente no, anzi. Ma non nel senso ingenuo e fuorviante che abbiamo fin qui criticato. La funzione didattica dello storico consiste nell’insegnare a ogni epoca che il mondo non è cominciato con essa.

  Riconosciuta nella sua complessità, nei suoi limiti, la storia ha straordinarie capacità formative. Dà spessore. Abitua all’incontro con «l’altro da me» (49). Accresce la conoscenza dell’uomo e degli uomini riuniti in società e gruppi. In questo senso, interrogato da Cosimo Damiano Fonseca sull’utilità della storia, Cinzio Violante ha affermato: «[...] bisogna considerare la storia come “liberazione dalla Storia”» (50); la liberazione, per mezzo della conoscenza storica, dal peso del passato e del futuro conseguente a certe concezioni qui riassunte con la parola «Storia», con la «S» maiuscola.

  Forse questo è il punto in cui è opportuno ricordare che, nella radicale critica della «cultura storica» del suo tempo, Friedrich Nietzsche (1844-1900) (51) è arrivato a parlare della necessità dell’oblio del passato. All’interno della sua più generale contrapposizione di natura e cultura, egli vede un contrasto di fondo tra vita e storia. «La storia, intesa come pura scienza e diventata sovrana, significherebbe una specie di chiusura e di bilancio della vita per l’umanità», o «un eccesso di storia danneggia l’essere vivente» (52). E tuttavia, secondo altre prospettive, lo stesso Nietzsche recupera la possibilità della storia di essere utile.

  Contrariamente a quanto credeva chi ne dilatava i compiti, e affidava ad essa la comprensione completa, tendenzialmente definitiva, positiva e scientifica del passato, del presente e anche del futuro, la storia non offre la risposta decisiva alle domande essenziali sull’uomo; non è a essa che tali domande, che il mondo tende a eludere, ma che si riaffacciano prepotenti, ineludibili, fondamentali, non è a essa che tali domande vanno poste. Ciò non esclude che in qualche modo la storia ci prepari a tali domande, e alle relative risposte, sgombrando in un certo senso il campo.

  Ci aiuta a capire che l’uomo non è un Dio. Contro, va detto, l’atteggiamento di molti storici. «Sebbene pensi di essere un dio che guarda il mondo dall’alto, lo storico attuale non è altro che un universitario di umile estrazione» (53).

  La storia educa alla complessità e con ciò stesso affina la nostra capacità di «leggere» il presente. Il caso Amal’rik, poc’anzi evocato, sembrerebbe esserne un buon esempio. Una delle grandi lezioni che ho avuto da Giovanni Cantoni — l’amico che per primo mi ha stimolato a mettere per iscritto questi miei pensieri — è proprio quella che mi è derivata dal suo costante, e crescente, richiamo a cercare la complessità: che non è — si badi — la dietrologia a ogni costo, o il comodo rifugio del «complottismo», bensì, di fronte alle letture semplici degli avvenimenti, l’abitudine a domandarsi: tutto qui?

  La storia, come conoscenza storica, ci deve abituare anche alla dimensione drammatica, spesso tragica, della storia come passato; e, quindi, alla drammaticità, alla tragicità del presente. Come irritano il vero conoscitore della storia certe affermazioni, «politicamente corrette», che semplificano e giudicano. Si pensi all’ormai consolidato schematismo sul «genocidio» spagnolo in America Latina nel Cinquecento: certo, l’incontro fra le due civiltà fu drammatico, anche tragico, ma quale complessità deve invece riconoscervi lo storico...

  Così, per venire ai nostri giorni, ecco sui telegiornali le immagini drammatiche, tragiche, che ci vengono dalla Palestina, che per me, cristiano, è poi la Terrasanta. Seguono i cosiddetti approfondimenti dei talk show e i protagonisti semplificano, semplificano, semplificano, spesso in nome della storia, ricorrendo alla storia. Anche quando sono storici, e assai bravi quando praticano la disciplina per altri temi e altri periodi, semplificano in nome della storia, invece di richiamare alla complessità del presente, eredità del passato compresa. Non c’è dubbio che il conduttore toglierebbe loro la parola: non è la complessità che il pubblico desidera, ma una spiegazione semplice, chiara, univoca. Bisognerebbe pagarne il prezzo.

  La storia, inoltre, educa alla responsabilità. E penso qui al ruolo della disciplina nella scuola, tema dal quale sono partito in questo capitolo. Mostrando che ciò che accade, accade non necessariamente, ma per le scelte libere degli uomini, talora di un uomo qualsiasi che si trova, casualmente (54), all’incrocio decisivo, abitua e forma alla responsabilità delle proprie scelte. Non è, come talora si dice, indispensabile componente, o sostituto, della «educazione civica», pallida imitazione in tempi democratici e di pensiero debole, delle pretese totalitarie della formazione dell’uomo nuovo proprie dei regimi totalitari del Novecento. Essa deve contribuire a formare l’uomo, l’uomo libero e responsabile.

  All’epoca del ministero Tullio de Mauro, quando si trattò di riempire di contenuti l’unico quinquennio di taglio cronologico previsto per la storia ― per il “triennio liceale” erano intravisti solo approfondimenti tematici ―, circolava una bozza di programmi che, trascurando del tutto l’identità nazionale, comprendeva lo studio delle «migrazioni bantù». Questo modo di favorire l’integrazione etnica a scuola è illusorio e fallace: insegnare tutta la storia del mondo, per sfuggire all’impostazione eurocentrica, è impossibile. E poi perché le migrazioni bantù e non la storia dell’Albania o del Kurdistan, o quella, ben lunga, della Cina?

  In questa prospettiva, la vera utilità della storia consiste, come ho accennato, nell’abituare all’incontro con l’«altro da noi», con civiltà e culture lontane nel tempo, senza appiattimenti sul Novecento. Occorre scegliere; ed è bene scegliere tenendo conto delle tre identità che ci caratterizzano, come è ben scritto nel documento-base predisposto per i contenuti da dare agli otto licei, quinquennali, ora previsti dalla «riforma Moratti» (55): identità regionale, identità nazionale, identità europea. Cito a memoria da una epistola di Cola di Rienzo (1313-1354), scritta nei primi tempi della sua signoria romana a metà Trecento, in cui si auto-definiva «liberator urbis, zelator Italie, amator orbis». Ogni epoca fa le sue scelte, e questa indicata mi pare la più consona ai problemi formativi della scuola d’oggi, e insieme la più rispettosa della nostra tradizione storiografica.

  Venendo da fuori, con la forza della armi, l’armata rivoluzionaria francese, negli ultimi anni del Settecento, modificò il contenuto dell’insegnamento della nostra disciplina, centrandolo sull’insegnamento «massimamente delle Repubbliche antiche e mo-derne» (56). Una certa spinta verso la valorizzazione del repubblicanesimo nella storia d’Italia si avverte anche oggi, non senza un qualche venticello che spira dal colle più alto, politicamente, di Roma. Il problema è recepire questi stimoli in modo costruttivo e rigoroso, come si è cercato di fare in un recente convegno organizzato presso la Scuola Normale di Pisa (57).

  La critica della storia come fornitrice di alibi ai governanti e la sottolineatura delle manipolazioni in occasione di anniversari appartengono al repertorio classico di chi vuoi demolire la storia come disciplina in qualche modo organizzata, come, per prendere una posizione estrema, Jean Chesneaux (58). Né ce ne libereremo rinfacciando a Chesneaux la sua simpatia per Mao Zedong (1893-1976), per la rivoluzione culturale cinese e perfino per il sanguinario dittatore ugandese Idi Amin Dada (1925?-2003), anche se pesa invece sulla valutazione della filosofia di Heidegger la sua adesione al nazionalsocialismo: ma, lo si sa, la diversità della memoria del nazismo e del comunismo è, di per sé, un problema storico (59). Ma non tutte le occasioni vanno perse. Nelle vicinanze del secondo centenario della Rivoluzione Francese si è prodotto, soprattutto nella storiografia transalpina, un imponente movimento di ripensamento critico del tema che è andato ben al di là degli aspetti celebrativi.

  E il morettino che l’insegnante si trova in classe insieme a un cinesino, un marocchino e un albanese? Gli fa violenza, se non insegna anche la loro storia? In realtà egli abituerà tutti i «suoi» ragazzi, insegnando loro la «nostra storia», all’incontro tra le culture, nelle possibilità effettive, e non in quelle immaginate dal «buonismo» ad ogni costo. Personalmente, padre adottivo di tre ragazze tutsi, all’epoca del genocidio ruandese, avevo sì studiato, com’era giusto nel mio caso specificò, un po’ di storia ruandese, ma ero stato soprattutto preparato a capire quel particolare avvenimento, anche nella sua dimensione tragica, proprio dalla pratica in generale della ricerca storica.


[Questo articolo di Marco Tangheroni è apparso con il medesimo titolo (e il titolo di copertina Per un’assiologia della storia), in Nova Historica. Rivista internazionale di storia, anno II, n. 6, Ed. Pagine, Roma aprile-giugno 2003, pp. 129-144), che ringraziamo per la cortesia].

  



Note

  (*) Anticipo qui un capitolo di un libro che sto scrivendo e che — se lo finirò e troverà un editore — si intitolerà Della storia. Note in margine agli aforismi di Nicolás Gómez Dávila.

  (1) Nicolás Gómez Dávila, In margine a un testo implicito, a cura di Franco Volpi, trad. it., Adelphi, Milano 2001, p. 154.

  (2) Di lui cfr. Luigi Berlinguer, La nuova scuola, Laterza, Roma-Bari 2001.

  (3) Lucio Russo, Segmenti e bastoncini. Dove sta andando la scuola?, 2a ed., Feltrinelli, Milano 2001.

  (4) Gianni Gentile; Luigi Ronga e Aldo Salassa, Storia contemporanea e sue radici per gli istituti professionali secondo i nuovi programmi, La Scuola, Brescia 1997. Già dal titolo è chiaro che le altre storie, compresa la preistoria, contano solo come radici della storia contemporanea.

  (5) Ibid., p. V, della seconda parte del «multilibro».

  (6) Ibid., p. 15, della prima parte del «multilibro».

  (7) Così la presenza in Italia del centro della Chiesa cattolica non è affrontata nei «caratteri originali», fra i quali troviamo invece, per esempio, «La scena».

  (8) È opportuno ricordare che nella cultura francese degli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, i marxisti avevano combattuto con violenza polemica la celebre scuola storiografica della rivista Annales d’Histoire Économique et Sociale (in breve: Annales), fondata nel 1929 da Marc Bloch e da Lucien Febvre (1878-1956); poi le cose cambiarono.

  (9) Storia d’Italia, 20 voll., Einaudi, Torino 1972-2004, vol. I, I caratteri originali, Presentazione, pp. XV-XXV (pp. XIX-XX).

  (10) Come è ricordato nella recentissima ricerca sul ruolo sociale dello storico e sui suoi cambiamenti nell’Ottocento e nel Novecento di Olivier Dumoulin, Le ròle social de l’historien. De la chaire au prétoire, Albin Michel, Parigi 2003.

  (11) Con riferimento a Carlo Ginzburg, Il giudice e lo storico. Considerazioni intorno al processo a Adriano Sofri, Einaudi, Torino 1991.

  (12) O. Dumoulin, op. cit., p. 23.

  (13) Cfr., per esempio, Paolo Pezzino, Anatomia di un massacro. Controversia sopra una strage tedesca, il Mulino, Bologna 1997.

  (14) Cfr. Benedetto Croce, Teoria e storia della storiografia, in Filosofia. Poesia. Storia. Pagine tratte da tutte le opere a cura dell’autore, Ricciardi, Milano-Napoli 1952, pp. 443-445 (n. ed., con una introduzione e apparati a cura di Giuseppe Galasso, Adelphi, Milano 1996).

  (15) Sul quale cfr. ora Elsa Romeo, La scuola di Croce: testimonianze sull’Istituto Italiano per gli Studi Storici, il Mulino, Bologna 1999.

  (16) Cfr. Cinzio Violante, Le contraddizioni della storia. Dialogo con Cosimo Damiano Fonseca, Sellerio, Palermo 2002, pp. 83-86.

  (17) Ne ho parlato anche con il giovane collega Simone Collavini, che di Violante è stato l’ultimo allievo: egli concorda con me su questa valutazione.

  (18) Cfr. Ovidio Capitani, Medioevo passato prossimo. Appunti storiografici tra due guerre e molte crisi, il Mulino, Bologna 1979.

  (19) Cfr. Federico Chabod, Croce storico, ora in Idem, Lezioni di metodo storico, Laterza, Roma-Bari 1972, pp. 179-256.

  (20) P. Veyne, Come si scrive la storia, trad. it., Laterza, Roma-Bari 1973.

  [(21)] «Il mio sogno è nutrito d’abbandono, di rimpianto. / Non amo che le rose che non colsi, / non amo che le cose che potevano essere / e non sono state» (Guido Gozzano, Cocotte, da I colloqui (1911), in Tutte le poesie, Mursia, Milano 1993, pp. 129-212 (pp. 184-187).

  (22) Dante Alighieri, La Divina Commedia, commento e parafrasi di Carlo Dragone, Edizioni Paoline, Roma 1982, Inferno, c. XXXIII, pp. 385-398, vv. 4-5 (p. 386).

  (23) M. Bloch, Apologia della storia, o mestiere di storico, trad. it., Einaudi, Torino 1974.

  (24) P. Veyne, op. cit., p. 140.

  (25) Cfr. la nota opera di Mark Twain (pseud. di Samuel Langhorne Clemens) (1835-1910), Un americano del Connecticut alla corte di Re Artù, 1889, trad. it., Edizioni Nord, Milano 2002.

  (26) Cfr. le considerazioni di Henri-Irénée Marrou, La conoscenza storica, trad. it., il Mulino, Bologna 1962, pp. 40-43.

  (27) Ibid., p. 43.

  (28) Ibid., p. 44.

  (29) Ibid., p. 33.

  (30) Fernand Braudel, Storia e misura del mondo, trad. it., il Mulino, Bologna 2002.

  (31) Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo, trad. it., a cura di Gianni Vattimo, 10a ed., Bompiani, Milano 1995, pp. 347-349.

  (32) Paul Ricoeur, La mémoire, l’histoire, l’oubli, Seuil, Parigi 2000, p. 648 (trad. it., La memoria, la storia, l’oblio, Cortina, Milano 2003).

  (33) Cfr. Paul Zumthor, Semiologia e poetica medievale, trad. it., Feltrinelli, Milano 1973, in part. pp. 42 e sgg.

  (34) Hans Robert Jauss, Alterità e modernità della letteratura medievale, Bollati Boringhieri, Torino 1989.

  (35) Guy Thuillier e Jean Tulard, Le métier d’historien, PUF, Parigi 1999, pp. 30-32.

  (36) H.-G. Gadamer, op. cit., p. 348.

  (37) Andrej Alkseevic Amal’rik, Sopravviverà l’Unione Sovietica fino al 1984?, trad. it., Coines Edizioni, Roma 1970.

  (38) M. Bloch, La strana disfatta, trad. it., Einaudi, Torino 1998, pp. 5-6.

  (39) Ibid., p. 109.

  (40) Jacqueline de Romilly, Le trésor des savoirs oubliés, De Fallois, Parigi 1998.

  (41) Cfr. il catalogo History 2002-2003, Oxford University Press, p. 19; la sottolineatura è mia (cfr. Paul A. David e Mark P. Thomas (a cura di), The Economic Future in Historical Perspective, Oxford University Press, Oxford 2003).

  (42) H.-I. Marrou, op. cit., p. 8, che rimanda a Auguste Comte, Discours sur l’esprit positif, Carilian-Goeury et V. Dalmont, Parigi 1844, p. 73 (trad. it., Discorso sullo spirito positivo, a cura di Antimo Negri, Laterza, Roma-Bari 1985).

  (43) Citata, senza riferimento, ibid., p. 78.

  (44) G. Thuillier e J. Tulard, op. cit., pp. 67-73.

  (45) Gioacchino Volpe, Toscana Medievale. Massa Marittima, Volterra, Sarzana, Sansoni, Firenze 1964.

  (46) C. Violante, op. cit., p. 9.

  (47) M. Bloch, I caratteri originali della storia rurale francese, trad. it., Einaudi, Torino 1973.

  (48) André Miquel, La géographie humaine du monde musulman jusqu’au milieu du 11me siecle. Géographie et géographie humaine dans la lettérature arabe des origines à 1050, 2a ed., Editions de l’EHESS-Mouton, Parigi 1973 (la prima edizione era del 1967); del volume esiste una ristampa del 2001; negli anni Miquel, sotto lo stesso titolo d’insieme e presso il medesimo editore, ha pubblicato altri tre volumi: Géographie arabe et représentation du monde: la terre et l’étranger (1975); Le Milieu naturel (1980); e Les Travaux et les jours (1988).

  (49) Insiste soprattutto su questo punto, oltre che sulla storia dell’arte e sulla storia della filosofia, H. I. Marrou (cfr. Idem, op. cit., penultimo capitolo, intitolato, appunto, L’utilità della storia (pp. 247-281). Le pagine conclusive di questo capitolo sono molto influenzate da quelle dello studioso francese.

  (50) C. Violante, op. cit., p. 123.

  (51) Cfr. Friedrich Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, in F. Wilhelm Nietzsche, Opere 1870/1881, trad. it., con una introduzione di Fabio Desideri, Newton Compton, Roma 1993, pp. 321-384 (con una introduzione di Sergio Moravia, pp. 323-336). L’opera fu pubblicata nel febbraio 1874, ma già in opere precedenti il filosofo tedesco aveva formulato critiche forti alla «cultura storica» e all’«uomo storico».

  (52) Ibid., p. 343 e p. 344.

  (53) N. Gómez Dávila, op. cit., pp. 146-147.

  (54) Per il cristiano, è ovvio, provvidenzialmente. Ma non è la prospettiva di queste pagine. In ogni caso, anche in prospettiva provvidenziale il trovarsi in una situazione di scelta comporta la libertà e la responsabilità della scelta.

  (55) Cfr. Profilo educativo, culturale e professionale dello studente alla fine del secondo ciclo di istruzione e determinazione dei livelli essenziali di prestazione per gli istituti dell’istruzione e della formazione professionale, dattiloscritto (cfr. una copia in <http://www.istruzione.it/news/2002/allegati/sperimen-tazione/profilo_terminale.pdf>).

  (56) Adolfo Scotto Di Luzio, Il liceo classico, il Mulino, Bologna 1999, p. 9.

  (57) Cfr. La sapienza giuridica delle antiche repubbliche italiane, incontro presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, 25/26-5-2002, coordinato da Maurizio Viroli, Salvatore Settis, Mario Rosa e da me, atti in corso di stampa.

  (58) Jean Chesnaux, Che cos’è la storia. Cancelliamo il passato?, trad. it., Mazzotta, Milano 1977.

  (59) Fondamentale, sul tema, Alain Besançon, Novecento. Il secolo del male. Nazismo. Comunismo. Shoah, trad. it., Ideazione, Roma 2000.



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