I problemi che oggi si pongono all’Italia — la rivoluzione informatica, l’immigrazione clandestina, la globalizzazione dei mercati e l’internazionalizzazione della criminalità, l’integrazione in quadri politici continentali, il riemergere delle identità regionali o locali, l’avanzata islamica e la guerra contro il terrorismo — derivano sempre più da processi che — come accadde con la rivoluzione industriale nell’autunno delle monarchie europee — "attraversano" letteralmente lo Stato nazionale in Italia e altrove.
Come rivelano le ultime tornate elettorali l’Italia è però spaccata in due e chi prevale nel quadro del vigente sistema bipolaristico lo fa con margini numericamente esigui e compattando forze politiche eterogenee, la cui coesione si rivela perennemente instabile.
Il 1989 ha inferto un colpo decisivo alle ideologie, da un lato privando il comunismo della sua piattaforma imperiale, dall’altro infliggendo una delusione epocale alle altre forme di progressismo politico. Ma non è stato un colpo mortale: l’ideologia intride ancora abbondantemente, anche se in misura diversa, i due schieramenti politici. Se nel centro-sinistra il sedimento delle ideologie progressiste è l’utopismo, nel centro-destra l’ideologia libertaria ha radici non poco profonde, anche se temperate da qualche isola di realismo, quanto meno quello derivante dalla cultura prevalentemente economicistica dei vertici.
La competizione politica, in questa situazione a tasso di intossicazione ideologico-utopica ancora alto, complicata per di più dalla oggettiva peculiarità della leadership del centro-destra, si riduce così a uno scontro e a uno scambio di invettive e di attacchi personali, che malcelano da una parte l’infecondità di fondo, incapace di produrre mete e programmi e, dall’altra, la reale carenza di cultura politica. Tuttora, infatti, le soluzioni ai problemi non sono quasi mai viste come frutto di interventi all’interno del sistema, ma come cambiamenti del sistema stesso e dei suoi fondamenti in nome di altri valori più o meno ben definiti.
Pare quasi si sia smarrito il senso comune, nel duplice senso — fra i diversi possibili — di consapevolezza che le divergenze e le divisioni hanno diritto di esistere solo entro determinati limiti che proprio il ragionamento comune traccia — e che si possono esprimere col nome di primato della ragione e principio di non-contraddizione, idea di creazione, senso religioso, intangibilità di istituti-base della società umana come la famiglia, primarietà del diritto alla vita —, e di coscienza che l’italianità si esplica in una trama di relazioni modellate su un sentire comune specifico e originale. A questa eclisse del senso comune corrisponde la debolezza del senso di identità della nazione, ormai appiattito — senza negarne la necessità — sulle vicende sportivo o sul successo della moda italiana e stretto fra due artificialità uguali e opposte: un’identità nazionale costruita sulla mitologia storiografica e una identità locale spesso inventata.
Chi avverte questa carenza — dalle conseguenze difficilmente calcolabili —, ossia qualche intellettuale e il vertice supremo dello Stato repubblicano stesso, sembra non riuscire a evadere da schemi ormai usurati: il "patriottismo costituzionale", la "religione civile", l’Italia del Risorgimento e della Resistenza. Poche sono le proposte veramente "spregiudicate" e libere da condizionamenti ideologici.
Viceversa, proprio il mutato contesto interno ed esterno, con le sue molteplici e incalzanti sfide, proprio il "dove dobbiamo e vogliamo andare", più che il "come eravamo", dovrebbe indurre a riformulare l’idea stessa di ciò che siamo e i valori attraverso i quali elaborare un ethos civile comune nuovo e adeguato al futuro che s’intravede: un’idea di nazionalità in certa misura nuova, quanto meno creativa, e completa, nella piena fedeltà alle radici dell’italianità più genuina.
E per questo, per capire chi siamo e che cosa vogliamo essere nel terzo millennio, occorre piegarsi sul passato, ricostruire la memoria dell’Italia attraverso la storia di tutti i soggetti e le culture che ne hanno fatto parte nei secoli.
Purtroppo però, pur essendo da molti visto come uno sforzo ineludibile e prioritario, questa operazione è ancora esposta ai venti dell’ideologia. Tutte le ricette proposte, tutti gli appelli o gli sforzi per il ricupero della memoria collettiva finora apparsi — con poche eccezioni — fanno riferimento a una memoria convenzionale, se non oleografica, parziale o, quanto meno, resa parziale perché alcune sue parti sono private a priori della loro dimensione e della loro valenza maieutica e politica.
Se pur si ricorda l’esistenza di un’Italia post-romana, ossia medioevale, e di un’Italia della prima modernità (dal XV al XVIII secolo) generalmente la si vede come una fonte di retaggio puramente culturale nel senso moderno del termine, ossia puramente "colto", "ridotto" alle lettere e alle arti, mentre se ne mettono in ombra i possibili riferimenti paradigmatici per l’oggi politico. L’Italia per certuni sembra nascere alla luce della coscienza mondiale solo quando prende forma come entità politica unificata e solo nella misura in cui i valori che fanno da propulsore stanno al processo unitario, quelli dell’Ottantanove francese, diventano i valori sociali e istituzionali. Al massimo si riprendono in considerazione pagine recenti su cui l’ideologia o ragioni di politica internazionale hanno calato la scure della censura e si torna a parlare per esempio del "sangue dei vinti" della Repubblica di Mussolini oppure delle "stragi italiane" nei Balcani. Ma anche su questi temi il dibattito fra storici, giornalisti e politici quasi sempre assume i toni di una rissa feroce.
Questo riduzionismo arbitrario e abusivo lascia però fuori dalla memoria comune epoche intere —l’antico regime italiano —, pagine di straordinaria importanza — l’Insorgenza popolare del 1796-1814 —, nodi risolti con la forza — come la "questione" dell’emarginazione dei cattolici nella genesi dell’Italia contemporanea —, realtà complesse e ricche — la storia delle classi politiche degli Stati pre-unitari —, dalle vicende e gesta non banali, in patria e altrove — i soldati napoletani e pontifici nel contesto dell’"epoca spagnola" —, al servizio dei due universalismi che hanno visto sempre gl’italiani militare in prima fila: la Chiesa e l’Impero. Solo oggi, soprattutto a livello di micro-storie e di storie locali questa complessità, questa ricchezza, tornano ad affiorare, senza però riuscire, come si dice, a sfondare. Mentre, per altro verso, continuano a essere solennizzate realtà che si possono considerare benefiche, così come avvennero, solo attraverso le lenti dell’ideologia. Un esempio per tutti: solo Francia e Italia celebrano come un evento l’invasione napoleonica, mentre Svizzera, Germania, Spagna leggono la resistenza contro l’occupazione francese come guerra di liberazione nazionale, con accenti non dissimili da quelli della liberazione dal nazionalsocialismo. E questo riduzionismo non solo mutila la memoria, ma inibisce le interpretazioni stesse, soprattutto quelle che muovono da punti di vista alternativi, a partire da quelle che non si riconoscono, in toto o in parte, nella lettura del 1789 ormai ufficializzata e sanzionata, entrata — o innestata manu militari — nel senso comune, ossia quella che potremmo chiamare, con riferimento all’emblematico esempio messicano, "rivoluzionario-istituzionale".
In conclusione, crediamo che la lacerazione che si percepisce e la pluriennale impotenza a varcare il guado, possono trovare rimedio — ovviamente non l’unico — in uno sforzo per ripensare in maniera unitaria e solidale la nostra storia, senza interferenze ideologiche e senza esclusioni di sorta, reinterpretandone la vicenda tutta intera tenendo conto di ogni elemento storici che abbia avuto impatto anche minimo sulla formazione dell’identità. Ricuperato un identikit, se non comune — perché, se l’ideologia è un male, le idee sono un bene, e non sempre le idee sono le stesse —, almeno condiviso dell’italianità, allora, sulla base del anche consenso minimale su chi siamo, sarà possibile ripartire e porre mano — nella differenza di posizioni, ma all’interno di una comune consapevolezza del comune destino della famiglia-Italia — a una riforma dello Stato nazionale, che diventa sempre più drammaticamente urgente, alla integrazione anche piena di coloro che arrivano sul nostro suolo e che vogliono fermarsi, diventando italiani, a inserirsi senza complessi nella costruzione dell’Europa, ad affrontare la globalizzazione economica senza sottomissioni aprioristiche, né chiusure anacronistiche, a salvaguardare e a dare respiro, senza soffocarle — ma senza lasciare corso a esigenze strumentali o ideologiche — alle sempre più forti identità regionali, ad affrontare, infine, la questione dell’islam, mandando i nostri soldati a combattere il terrorismo nella consapevolezza che quello per cui combattono è anche la difesa della loro identità.