Quando ancora Garibaldi, dittatore perpetuo, occupava la reggia di Caserta, e pare che ci stesse comodo; ebbe una chiamata urgente dalla terra dei Sanniti. Brutta gente s’aggirava in quei paraggi, amici del Borbone, nientedimeno, ostili all’Unità.
Subito; armi e bagagli e in marcia. Sarà cosa da ridere; qualche scappellotto bene assestato; qualche donnina acchiappata dentro una fratta o stesa su un prato. Eppoi, dicono, nel Sannio s’allevano pecore saporite e grassi maiali: proprio quello che ci vuole per ridare un po’ di buon umore ai suoi uomini. Buona cosa è che le migliori leccornie se le becchino loro prima che arrivi quel
birichin di Vittorio, ché di comodi ce n’ha anche troppi e ragazzotte e iosa da accontentare.
Detto, fatto.
Così il reggimento garibaldino, condotto dal «famoso» Francesco Nullo, il Baiardo garibaldino, come veniva chiamato, e dal non meno famoso Alberto Mario, se ne veniva su bel bello, un po’ affaticato da quegli strapiombi e dall’erte salite; voglioso solo d’un buon rancio e di qualche po’ di riposo. È vero che qualcuno aveva messo in giro una voce perlomeno buffa: che, qualche giorno prima, a Isernia
(1) più di mille garibaldini ci avevano rimesso la pelle, e ora le loro teste mozzate, col berrettuccio rosso, servivano d’ornamento alle antiche mura della città... Ma dovrebbero essere storie; contro le camicie scarlatte, chi ce la può fare? In ogni modo, bene o male, verità o bugia, c’eran lì loro e vendicare l’onta. Però nessuno o pochi ci credevano.
E intanto andavano. Qualcuno, più saputo, indicando la cerchia delle montagne che s’ergevan ripide ai loro fianchi, annunciò ch’eran nei pressi delle Forche Caudine, proprio dove i Romani antichi avevan preso quella famosa batosta.
«Bojate!», ridacchiò uno del gruppo:
«E poi chi erano questi Romani? Razza di preti, scommetto! Se si pensa che han dovuto fare tre guerre per vincere i Cartaginesi, mentre a noi è bastato un mese o poco più per sconfiggere il Borbone! Tu li chiami soldati, quelli?».
E andavano, strascinando un po’ i piedi.
A un tratto, da una fratta nella boscaglia e subito dopo, tra due scaglioni di roccia, risuonò uno sparo, due. Nuvolette bianche di fumo si levarono subito fra ramo e ramo, scoglio e scoglio.
«Tromba, suona l’allarme!», comandò Nullo, e risalì sul cavallo da cui era smontato per sgranchire un po’ le gambe.
Ma dove? Contro chi? Nessuno si vedeva né si udiva una voce.
Poi il suono d’un corno, lungo, cupo, vibrante. E subito tintinnò una campana; ma da lontano questa. Pareva chiamasse un gregge smarrito, gregge d’uomini, di donne, all’appello. Alla Benedizione forse, o ai Vespri.
«Mischinu
!», disse un siciliano ch’era venuto lassù sin da Canicattì.
«Meschino chi?».
«Nuantri
»,
borbottò l’isolano. Forse sera ricordato dei Vespri siciliani. O forse un istinto più antico, il senso quasi irreale d’un pericolo che. gli soprastava.
«Una pattuglia in avanscoperta!», ordinò il capo. Sei uomini e un caporale, si staccarono dal grosso e presero salire, quasi di corsa, verso una selletta dove la strada s’incurvava tra le pendici di due colli. Si fermarono lassù e si guardarono attorno. Nessuno, nulla.
Sentivano solo alle loro spalle il faticoso cadenzare della colonna in marcia, lo scalpitare dei cavalli e l’ansito rauco del plotone di testa che li seguiva da presso.
Forse un fruscio leggero tra le fronde che ne fiancheggiavano i margini? Ma è il vento, no? S’era infatti levata una brezza leggera, fresca, e le prime foglie d’autunno già cadevano gialle sulle zolle.
Ma chi poteva aver sparato un istante prima, dal bosco?
«Forse», azzardò un caporale,
«qualche cacciatore alla posta...».
«O un paio di gendarmi borbonici, sperduti dopo la sconfitta?».
Caricarono le armi. Intanto era giunto il grosso della truppa.
«Serrare le file!». Sta bene; ma contro chi? Qualcuno, che aveva persino messo a terra lo zaino, s’accomodò beato su una lista d’erbetta fresca che orlava la strada.
D’un tratto tutti balzarono in piedi. S’era udito l’ulular d’un cane e subito un guaito lamentoso; qualcuno di certo stava a spiarli forse con un cane e non voleva che la bestia lo rivelasse abbaiando? Di lì l’ululo e il guaiolio...
«Il solito cacciatore», disse quello che aveva parlato per primo.
«Avanti!», urlò ancora una volta il comandante del reggimento, e la schiera si mosse.
La strada piegava, scendeva, tornava e contorcersi in salita.
Ed ecco che dal pendio del monte che leggero costeggiava la via sassosa, apparve in alto, ma non lontano, un paese. Case, casette, qualche palazzotto, capanne sparse e una chiesa.
«Quello», disse un ragazzotto del luogo che faceva da guida, insaccato anche lui nella camicia rossa,
«quello è Carpinone».
«È lontano?».
«No; sta qua».
Infatti dal paese scendeva e valle, quasi una mostra di tinte diverse, secondo le coltivazioni delle balze degradanti, una manciatella di capanne, stazzi e pagliai, ruzzolati qua e la e d’improvviso immoti. Avanti alla chiesa una piazza, anzi un piazzale, deserto però di uomini e di cose.
Allora la campana riprese a suonare. Un batter violento, furibondo quasi, a stormo, a martello, come quando d’inverno s’aggira tra gli ovili un branco di lupi. E subito altri bronzi risposero tocco su tocco, vicini e lontani.
E sul piazzale sgorgò d’impeto dalla chiesa una folla strana e vedersi nei suoi diversi colori. Il bianco, il verde, l’azzurro, il porpora, il nero...
«Una processione», disse chi stava a capo del plotone.
Infatti cantavano, voci acute, voci gravi, voci pesanti. Di uomini, perché di donne non se ne vedeva nessuna.
La folla si raccolse, s’ordinò, venne avanti; ore le voci si udivano non più confuse ma quasi distinte, con le parole.
«Che diavolo berciano?», chiese un toscano. L’altro che gli era vicino non rispose, ma sputò in terra. C’era tra le camicie rosse un chierico, scappato appena dal seminario, per seguire il redentor novello, che di queste cose se ne intendeva:
«Toh!», disse,
«son le litanie per le Rogazioni... ma non è il tempo, questo. Le Rogazioni si cantano quando già matura la semente...».
«Per farne che?». Parlava il signorino, quello ch’era venuto con Garibaldi per liberarsi d’un colpo solo da un’amante attaccaticcia e dai creditori, asfissianti.
«Il grano, no?», gli aveva risposto un uomo atticciato col viso brunito dal sole; uno che di semine se ne intendeva.
«Kyrie eleison! Christe eleison!».
«E non è il tempo giusto questo?».
«Il suo tempo è quando il sole comincia e bruciare e il seme mette la sue veste verde e la prima spiga...».
Altra gente frattanto accorreva da ogni anfratto dei monti, sui pendii, tra rupe e rupe, tra bosco e prato…
«Quanti saranno?», chiese sbalordito un garibaldino.
«Di che ti spaventi?», tuonò un ufficiale.
«Son contadini... baciapile, figli di preti... e noi siamo di più. Siamo armati, noi». E intanto già un altro aveva alzato la voce:
«Baionetta in canna! Se si avvicinano troppo, sparare».
«Ab omni peccato», cantarono gli uomini, già ammassati sul limitare del bosco grande,
«libera nos Domine
!».
«Stai fresco!», sghignazzò un garibaldino.
Ma il primo aveva ripreso il discorso con l’ex seminarista:
«Questo allora non è il tempo giusto ...?».
«È il tempo della maggese», intervenne quello che aveva l’atto e l’aspetto del contadino.
«Sarebbe a dire?».
«Ora si scavano i solchi nei campi per sotterrarci la semenza...».
«E chi ancora?».
Gli uomini della montagna cantarono:
«Ut fructus terrae dare et conservare digneris...».
Il ragazzo già tremava:
«Perché questa carnevalata?».
«Non hai capito?». E il chierico si segnò col segno della Croce:
«D’ottobre, il seme si sotterra e muore».
«Chi deve morire?», ridacchiò il bellimbusto.
«Noi».
«Noi? E perché noi?».
«Te rogamus, audi nos...»,
cantò il coro. E fu il segnale.
Le file della processione s’aprirono e ogni uomo che aveva il suo fucile, la sua vecchia pistola da cavalleria, sparò dritto il suo colpo già meditato. Gli altri, quelli che non avevano armi da fuoco, si gettarono giù per il pendio urlando e facendo brillare i loro arnesi d’acciaio all’ultimo sole. Da ogni parte uscivano uomini laceri, convulsi, urlanti.
«A peste, fame et bello»,
cantavano gli uomini, e premevano sul grilletto del loro archibuso, forse del padre o dell’avo, che aveva già sparato contro i giacobini e gli eretici; e le donne, torme di donne sbucate e un tratto dalle grotte, dagli anfratti, dalle capanne, brandendo scuri, forconi e spiedi, rispondevano con un acuto selvaggio:
«Libera nos Domine!». Sembrava che quel canto non dovesse finir mai. Dall’alto, sui fianchi, da ogni lato delta viuzza scoscesa, gruppi dei congregati delle confraternite, fratelloni erano, ruggivano:
«Ut inimicos Sanctae Ecclesiae humiliare digneris...». E un coro, come un vento furioso, rispondeva dalle gole d’ogni montagna:
«Te rogamus...».
Un canto, un rimbombo, una voce. Qualcuno dei garibaldini sparò; molti erano già caduti, quando era scoppiata fulminea la prima scarica; altri gemevan stramazzati per terra. I più, atterriti, fuggirono.
Mentre le rosse camicie ch’eran venute a mettere ogni cosa a ferro e fuoco, a fucilar soprattutto gli odiosi reazionari, quelli che non vogliono essere fottuti dalle parole nuove, il che non sarebbe gran cosa, ma soprattutto dai banditi che di quelle come armi nascoste si servono, mentre i garibaldini, dico, si nascondevano lungo i muretti dei campi, e già il sole era calato, e ogni cosa restava in ombra, nell’oscurità delle straduzze le donne e i ragazzi li afferravano, gli toglievan l’inutile arma e li costringevano e inginocchiarsi e a chieder pietà. Quando gli veniva accordata, era generosità grande. Le vecchie, fuori dal cavo dei focolari spenti, impugnavano il fuso e lo schidione, maledicendo con strida e gemiti dalle bocche sdentate l’invasore. E il grido era uno solo:
«Uccidete l’Anticristo!» .
Nullo e Alberto Mario, volte in fuga le loro bestie, cavalcarono tutta la notte tra fratte, scogli e boscaglie, per non cadere, attraversando strade e passi noti, nelle mani degli insorti, pallidi e angosciati d’ira e di terrore. Più che a una battaglia erano scampati a una strage.
Così narra il Battaglini, e a modo suo naturalmente, l’intera vicenda:
«Fin dalla fine di settembre del l860 il Re [Francesco II ]
fece inviare ad Isernia il maggiore di gendarmeria De Liguoro con una colonna ad occuparla, scacciandone i liberali e alimentando la reazione, aizzata in quella regione dalla propaganda viva e indefessa del vescovo della diocesi, monsignor Saladino, animoso borboniano, insieme con funzionari regi, spodestati dal nuovo governo, propaganda di odio e di falsità, fatta con ogni mezzo tra quelle popolazioni rurali, in gran parte superstiziose e ignoranti, da frati, preti e signorotti che prospettavano in mala fede Garibaldi e Vittorio Emanuele, nonché tutto il partito liberale, e soprattutto italiano come nemici della religione, della famiglia, della proprietà. Indarno il partito locale liberale cercò fronteggiare l’incendio, fra stragi e saccheggi reazionari, che dilagava nel Sannio, nell’Abruzzo e nei paesi limitrofi. Purtuttavia i garibaldini inviati a spizzico e in tutta fretta da Garibaldi, in seguito alle insistenti e disparate richieste dei liberali locali, riuscirono ad occupare Isernia, scacciandovi i gendarmi borbonici.
Allora il maggiore De Liguoro rimasto assediato, mosse da Venafro su Isernia con la sua colonna composta da circa quattrocento gendarmi, rinforzato con un battaglione delle Guardia Reale con due cannoni e un plotone di cavalleria, inviatogli in quei giorni dal Ritucci per ordine dal Re. Il combattimento fu violento; i garibaldini si difesero strenuamente finché furono sbaragliati, lasciando oltre cento morti e cinquanta prigionieri, e perdendo la bandiera.
«Pochi scamparono alla caccia spietata, data loro dalla marmaglia inferocita.
«Il paese rimase in balìa della reazione sfrenata, con tutti i suoi eccessi.
«Intanto Garibaldi, in seguito a ulteriori urgenti richieste di rinforzi, aveva mandato Francesco Nullo, il Baiardo garibaldino, come veniva ritenuto, con circa cinquecento volontari che, uniti a quelli della regione, marciò su Isernia, tratto in inganno da informazioni false di partigiani borbonici, inviatigli incontro, che assicuravano essere sgombro di truppe regie il paese.
«Il maggiore De Liguoro, informato di tutto, gli andò incontro con oltre mille uomini, tra soldati, gendarmi e reazionari volontari, attaccando il l7 ottobre irruentemente nei pressi di Carpinone.
«Ben presto il Nullo con i suoi fu circondato e, più che un combattimento, fu una strage di garibaldini, dei quali pochi si salvarono dalla ferocia di quella masnada reazionaria, composta di contadinaglia, i cosiddetti cafoni, fra cui vi erano anche donne armate di spiedi. Il Nullo, con pochi suoi, tra i quali il Mario, il Zasio, e il Caldesi, riuscì per miracolo a salvarsi, rifugiandosi a Boiano e Campobasso...».
Caddero nelle mani dei borbonici, come narra il Delli Franci
(2), circa 140 prigionieri, con due bandiere garibaldine, con cavalli e salmerie.
[da Carlo Alianello, La conquista del Sud. Il Risorgimento nell’Italia meridionale, Rusconi, Milano 1972, pp. 183-191].