Lo sforzo compiuto dai protagonisti e dagli eredi del Risorgimento —
processo storico che è stato meglio definito, per esempio dallo storico e
letterato Cesare Cantù (1804-1895) e dallo storico Giorgio Candeloro (1909-1988),
come Rivoluzione nazionale — per manipolare o cancellare la memoria storica del
popolo italiano non soltanto ha prodotto l’inquinamento del patrimonio
culturale della nazione, ma ha anche relegato nell’oblio avvenimenti e
personaggi particolarmente significativi.
Esempio di rilievo di questa pratica è costituito dal
trattamento inflitto dalla cultura egemone a Giacinto de’ Sivo, scrittore e
storico napoletano.
Per circa cinquant’anni sulla sua opera ha gravato una
coltre di silenzio, sollevata nel 1918 dal filosofo abruzzese Benedetto Croce
(1866-1952) — partenopeo di adozione ma privo, a causa dei suoi pregiudizi
storicistici, di una comprensione profonda della storia napoletana — con un
breve saggio che ne offre però una interpretazione riduttiva e deformante, a
partire dal titolo, Uno storico reazionario [1].
Soltanto dopo la Seconda Guerra Mondiale (1939-1945), viene ristampata la sua opera maggiore [2],
vede la luce la sua prima biografia, scritta con affettuosa «compassione» dallo
storico Roberto Mascia [3],
e ha inizio la pubblicazione di tutte le sue opere, inizialmente grazie anche
all’impegno dello storico e uomo politico napoletano Silvio Vitale (1928-2005).
1.
La vita
«La vita di Giacinto de’ Sivo — nota il suo biografo — si articola, con
meravigliosa evidenza, in tre distinti periodi, o cicli, i cui limiti temporali
interni sono dati da due anni di enorme importanza storica: il 1848, l’anno
della rivoluzione vinta, e il 1860, l’anno della rivoluzione vittoriosa. Ognuno
dei detti tre periodi trova, per altro, il suo centro di gravità e di tensione
in una particolare opera, narrativa, drammatica, storiografica [...]: il
romanzo storico Corrado Capece, la tragedia Partenope, e, infine,
la Storia
delle Due Sicilie dal 1847 al 1861» [4].
De’ Sivo nasce a Maddaloni, in Terra di Lavoro, Caserta, il 29 novembre
1814, da una famiglia di militari molto devota alla dinastia borbonica. Il
nonno, anch’egli di nome Giacinto, aveva armato a proprie spese soldati per la
difesa del regno in occasione dell’aggressione giacobina e francese; lo zio
Antonio era stato fra gli ufficiali del cardinale Fabrizio Ruffo (1744-1827),
che nel 1799 aveva animato e guidato l’impresa della Santa Fede [5]
che aveva riconquistato il Regno borbonico partendo dalle Calabrie, e avrebbe
concluso la carriera nel 1831 al comando del corpo dei Cacciatori Reali della
Guardia. Anche il padre, Aniello, era stato un valoroso ufficiale dell’esercito
napoletano, ma aveva dovuto lasciare il servizio attivo a causa di un
infortunio; ritiratosi a vita privata, aveva acquistato a Maddaloni il castello
e parte dei possedimenti degli antichi signori del luogo, i Carafa.
Il giovane Giacinto preferisce l’arte della penna a
quella delle armi e frequenta a Napoli la scuola del marchese Basilio Puoti
(1782-1847), maestro di lingua e di elocuzione italiana. Di tale insegnamento
si possono riconoscere le tracce in tutti i suoi scritti, in prosa o in versi:
la classica armonia delle strutture, la purezza delle voci e le preziosità
lessicali, che rendono il suo stile denso e caustico. Puoti non era molto
tenero verso il romanticismo, ma i giovani che frequentavano la sua scuola
erano quasi tutti imbevuti di letture romantiche e liberaleggianti. Per qualche
anno anche de’ Sivo respira quell’aria, ma la sua cultura umanistica e la sua
profonda fede religiosa lo salvano dall’adesione incondizionata alle nuove idee
che gli tumultuavano intorno. Severo è il giudizio che egli darà, negli anni
della maturità, su questa voga letteraria d’importazione, ricostruendo la
graduale opera di corrosione da essa svolta nell’ambiente culturale e politico
dell’epoca: «Prima s’inventò una poesia scoraggiante, disperata, malinconica;
alle lamentazioni del Byron [lord George Gordon (1788-1824)] e del
Leopardi [Giacomo (1798-1837)] tutti facean ritornello; e udivi cantar
di suicidii e di tombe giovanetti paffuti, passanti la vita in botteghe da caffè
e in cene ubbriachesche [...]. Dimenticati gli ameni e forti studii, le
fantasie voltavano alla Scandinavia, e al medio evo; e n’evocavano immagini
sepolcrali, e streghe e vampiri e spettri, fecondi di strani e foschi pensamenti.
Né poi dal medio evo pigliavan tutto: le forme repubblicane sì, non la pietà
cristiana e la fiducia in Dio» [6].
Nel 1836, poco più che ventenne, dà alle stampe una
raccolta di versi, cui segue, quattro anni dopo, la prima di otto tragedie,
alcune delle quali saranno rappresentate con discreto successo e stampate più
volte [7];
pubblica quindi un romanzo storico, Corrado Capece. Storia pugliese dei
tempi di Manfredi [8].
Nel 1844 sposa Costanza Gaetani dell’Aquila d’Aragona (1819-1905), figlia del
conte Luigi (1777-1856), maresciallo di campo e aiutante generale del re
Ferdinando II di Borbone (1810-1849), dalla quale avrà tre figli.
Parallelamente all’attività letteraria entra a far
parte della Commissione per l’istruzione pubblica ed è consigliere d’Intendenza
della provincia di Terra di Lavoro. Nel 1848 è per tre mesi comandante
provvisorio della Guardia Nazionale di Maddaloni e riesce a mantenere l’ordine
pubblico, «[...] benché da estrani luoghi a turbarlo venisser
parecchi; laonde guadagnai odio da chi aborriva la quiete» [9].
L’anno seguente è capitano di una delle quattro compagnie della rinnovata
Guardia Nazionale fino al suo scioglimento, quindi comanda per alcuni mesi la
ricostituita Guardia Urbana.
Gli avvenimenti del biennio rivoluzionario 1848-1849,
che recano le prime gravi minacce all’integrità dell’antico Stato napoletano,
turbano il giovane letterato e lo inducono a dedicarsi alla riflessione storica
per comprendere le ragioni dell’immane tragedia che sconvolgeva l'Europa. Sospende
per qualche tempo la composizione tragica e comincia a scrivere una monografia
sugli avvenimenti recenti, che non pubblica immediatamente «[...] per
non parer di percuotere i vinti e inneggiare ai vincitori» [10]
e che rappresenterà il nucleo generatore della Storia delle Due Sicilie dal
1847 al 1861.
Nel 1852 ribadisce la sua fedeltà alla dinastia
borbonica pubblicando un elogio del generale Ferdinando Nunziante
(1801-1851), il comandante della Divisione Territoriale delle tre Calabrie e
della Basilicata, che aveva riportato l’ordine in quelle regioni dopo i
moti del 1848 [11].
Nella tragedia Gedeone, del 1853, trovano
espressione i problemi che angustiano la mente di tanti sudditi fedeli: il
rinnegamento, da parte di alcuni, dell’autonomia e della vita stessa dello
Stato cui appartenevano; la situazione ingiusta nella quale viene a trovarsi il
re Ferdinando II che, sebbene difensore attivo della Chiesa e protettore del
Pontefice — il beato Pio IX (1846-1878) —, veniva presentato dalla
pubblicistica liberale come tiranno sanguinario; l’adesione di numerosi
intellettuali a princìpi rivoluzionari e la minaccia della irreligiosità e
dell’ateismo. Nel 1858 porta a termine la tragedia Partenope, punto
culminante di quel ciclo biografico che Mascia denomina della «meditazione
tragica» [12].
I
presentimenti di de’ Sivo diventano presto realtà. La guerra franco-sabauda
contro l’impero austriaco, nel 1859, la scomparsa precoce del re Ferdinando II
e l’ascesa al trono del giovane Francesco II (1836-1894), le trame cospirative,
aprono la porta del regno alle bande garibaldine prima, all’esercito sardo poi.
Nel 1861, al termine di una resistenza eroica, «[...] il reame durato
730 anni cominciava ad essere provincia» [13].
Giacinto de’ Sivo, fedele alla dinastia legittima, è
destituito dalla carica di consigliere d’Intendenza e imprigionato. «Vidi in
quella mia detenzione — racconterà alcuni anni dopo — andar prigioni
personaggi insigni per grado ed età: vescovi, generali, magistrati, principi e
duchi: chè l’incubo della reazione accecava i liberatori. Vidi camorristi menar
prigione un galantuomo, cui avean derubato il danaro in tasca, e incolparlo di
lacerare i decreti del Garibaldi dalle mura. Vidi il venerando magistrato Francesco
Morelli menato alla prefettura, schiaffeggiato da certi cui egli avea per
misfatti condannato. I ladri carceravano i giudici; la melma sociale poneva il
piede su’ ministri della legge» [14].
Scarcerato alcune settimane dopo, è nuovamente
arrestato il 1° gennaio 1861; finalmente liberato due mesi dopo, vuole
sperimentare l’annunciata libertà di parola e inizia la pubblicazione di
un giornale legittimista, La Tragicommedia. Il vessillo del giornale è il «prepotente amore» [15]
alla patria, che non è la Patria astratta e letteraria dei rivoluzionari, bensì
«[...] idea semplice cui ciascuno intende senza dimostrazione; è il
suolo ove siam nati, ove stan l’ossa degli avi, la terra de’ padri» [16].
Mentre altri organizzano la resistenza armata nei boschi e sulle montagne, «[...]
le nostre armi sono la penna; le provigioni, la logica e la storia» [17].
La Tragicommedia, che nasce anche con l’intento di «ricordar la patria
quando più non v’è patria, ricordar le ricchezze dileguate, l’armi perdute,
fra’ rimbombi de’ cannoni, e i gemiti de’ fucilati, e i lagni de’ carcerati» [18],
viene soppresso dalle nuove autorità dopo i primi tre numeri: «[...] a
me fanno un processo per cospirazione contro l’Italia. Nessuna libertà
d’opinione, fuorché pe’ rivoluzionarii» [19].
Imprigionato per la
terza volta, lo storico napoletano sceglie la via dell’esilio e il 14 settembre
1861 parte per Roma, da dove non farà più ritorno. A Roma hanno trovato ospitalità
i Borboni di Napoli e gli altri principi spodestati dalla Rivoluzione unitaria,
il granduca di Toscana, Leopoldo II di
Asburgo-Lorena (1797-1870), Maria Luisa di Borbone (1819-1864), duchessa
di Parma e Piacenza, Francesco V d’Asburgo-Este (1819-1875), duca di Modena, che faranno della Città Eterna il
centro d’irradiazione del movimento legittimista. Frequentano i saloni di
palazzo Farnese, dimora di re Francesco, i più bei nomi dell’aristocrazia
napoletana, molti ufficiali e ministri, numerosi scrittori, fra i quali l’ex
cappellano militare del IX battaglione dei Reali
Cacciatori, don Giuseppe Buttà (1826-1886), autore di un vivace diario
storico degli ultimi mesi di vita del regno [20].
De’ Sivo entra a far parte di quel vasto e composito circolo, imponendosi
presto all’ammirazione, e suscitando talvolta la gelosia, dei suoi compagni
d’esilio, che egli sovrasta per chiarezza di idee e fermezza di principi, per
profondità di cultura ed eleganza di stile.
Il terzo e ultimo periodo della sua vita è dedicato
alla difesa, spesso polemica, dell’identità nazionale del Paese e soprattutto
alla riflessione e alla ricostruzione storica. Pubblica gli opuscoli Italia
e il suo dramma politico nel 1861 [21]
e I Napolitani al cospetto delle nazioni civili [22],
dà alle stampe una Storia di Galazia Campana e di Maddaloni e porta a
termine la Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, valendosi
dell’opportunità, che gli era offerta a Roma, di consultare documenti
ufficiali, d’interrogare rappresentanti ragguardevoli dell’oppo-sizione e di
mettere a confronto testimoni delle vicende narrate.
Intraprende quindi un nuovo lavoro, una difesa storica
del Papato contro le calunnie rivoluzionarie, ma la morte lo raggiunge a 52
anni, il 19 novembre 1867, proprio nei giorni in cui — come fu scritto nel
necrologio apparso su Il Veridico. Foglio popolare, il
settimanale anti-risorgimentale la cui prima serie venne pubblicata nella
capitale dall’agosto del 1862 all’11 settembre 1870, sotto la direzione di
monsignor Giuseppe Troysi — «[...] la gloriosa vittoria di Mentana
gli allegrava la magnanima ira e il settenne dolore d’ingiusto esilio e gli
stenti di morbo rincrudito» [23].
2. Le opere
2.1 I napoletani al cospetto delle nazioni civili.
L’opera storica di Giacinto de’ Sivo non si esaurisce
nel rimpianto del passato e nella difesa incondizionata della dinastia
borbonica, ma costituisce una denuncia aperta della malizia e della strategia
rivoluzionaria, nonché dell’inettitudine e dell’impreparazione di quanti
avrebbero dovuto opporre prima una resistenza e poi, eventualmente, una
reazione agli accadimenti.
Non è fondato, dunque, il giudizio di Benedetto Croce,
che critica gli scritti dello storico napoletano come «opera di passione e
non di comprensione» [24],
perché a suo avviso questi, «[...] condannando tutta la storia
moderna, considerandola perversione, non sentiva il bisogno d’intenderla, pago
di rimandare di continuo al principio da lui enunciato una volta per tutte, e
che tutto spiega: quel principio che, come si è detto, egli chiamerà “la Setta”» [25].
In realtà, in Croce e nella storiografia liberale in
genere la correttezza del giudizio è inficiata da una incomprensione del
fenomeno «settario», o rivoluzionario, che viene studiato, per di più, con quel
conformismo «patriottico» che impedisce una ricostruzione obbiettiva dei fatti.
La «setta» per de’ Sivo non è un’organizzazione
determinata né un’associazione storica: «La setta è il rovescio del
Cristianesimo. Cristo unisce le nazioni in uno amore di Dio; la setta disunisce
bensì le famiglie, e aspira all’isolamento dell’ateismo» [26].
Lo storico coglie il carattere unitario di quel processo plurisecolare volto a
realizzare un progetto ideologico e politico ostile a ogni influenza della
religione sulla cultura e sul costume dei popoli: con formulazione di Papa Giovanni
Paolo II (1978-2005), «[…] il processo di secolarizzazione,
cioè di estromissione della motivazione e della finalità religiosa da ogni
atto della vita umana» [27],
quindi anche dalla vita sociale.
È degno di nota che l’abate torinese Vincenzo Gioberti
(1801-1852), di formazione ben diversa da quella di de’ Sivo, già nel 1851,
dopo il fallimento del progetto «neoguelfo», aveva individuato le
caratteristiche principali del processo rivoluzionario, da lui chiamato
Rinnovamento, che «[…] è l’ultimo atto di una rivoluzione
incominciata quattro o cinque secoli addietro, e non ancora compiuta,
rivoluzione che io chiamerei moderna, perché destinata a sostituire un nuovo
convitto a quello del medioevo» [28].
«Le rivoluzioni particolari in ordine al tempo e allo
spazio non sono che membri di questa rivoluzione generale; la quale — prosegue Gioberti, che offre del fenomeno una
descrizione lucida e sorprendentemente simile a quella fornita dai pensatori
contro-rivoluzionari coevi e contemporanei — è una, perché informata dal
genio della modernità e tendente a metterlo in atto per ogni sua parte. È
universale di soggetto, perché abbraccia ogni appartenenza del pensiero e
dell’azione, e spazia così largamente come tutto il reale umano e tutto lo
scibile. È universale di domicilio, perché si stende quanto la cultura figliata
dall’antichità grecolatina e dal Cristianesimo; e però comprende oltre l’Europa
una parte notabile del nuovo mondo e tutte le adiacenze asiatiche, affricane,
oceaniche della civiltà europea. È infine continua, perché sebbene interrotta
da tregue apparenti, non cessa mai; e sospesa di fuori, rientra nelle viscere
del corpo sociale, e ci lavora sordamente per un certo tempo, finché scoppia di
bel nuovo e introduce nel vivere esterno altre mutazioni. […] ai corsi
precipitosi succedono gl’indugi e i regressi, che sono altrettanti interregni
della rivoluzione, e la prolungano, in vece di porle fine» [29].
De’ Sivo — come scriverà il gesuita Francesco
Berardinelli (1816-1892) — si prefigge il compito di studiare a fondo «i
tanti e sì strepitosi avvenimenti, accumulatisi in così breve spazio di tempo,
additarne le cause palesi, scoprirne le occulte, giudicare gli uni e le
altre secondo le norme de’ principii immutabili di religione e di morale»,
quindi offrire una spiegazione soddisfacente e utile «[...] a fare
scorti i popoli stessi, che non si lascino ingannare dai mestatori» [30].
Egli apporta alla cultura cattolica contro-rivoluzionaria un contributo non
trascurabile sia per la comprensione della dinamica delle ideologie, che si
affermano nella storia attraverso «disegni nascosti» — accanto ad altri «apertamente
propagandati» — «miranti a soggiogare tutti i popoli a regimi in cui Dio
non conta» [31],
sia per la conoscenza dei meccanismi della Rivoluzione, messi in moto soprattutto
da circoli settari di origine massonica, che — dopo avere sradicato la religione
dalle classi dirigenti nel corso del secolo XVIII — perseguono l’obiettivo
della «democratizzazione dell’irreligio-ne» [32].
Anche quando prevalgono lo sdegno per la violazione
del diritto e la protesta contro l’«iniquo e cruento servaggio» [33]
che grava sulle contrade napoletane, non viene meno la consapevolezza del
carattere rivoluzionario dell’aggressione al Regno delle Due Sicilie, che è
soltanto un episodio, anche se macroscopico, dello scontro gigantesco in atto
fra la religione e l’ateismo. La «cruenta e atrocissima» [34]
lotta che contrappone italiani a italiani passa in secondo piano di fronte a un
male più grave, cioè il «dileggio» [35]
che lo Stato unitario fa del diritto, della morale e della religione. L’unità
politica, dunque, non è sempre un bene, anzi è un male quando viene realizzata
contro la Chiesa e le autorità legittime, a danno dei valori spirituali e
civili della nazione.
Il Risorgimento italiano, in nome dell’Unità, ha
spogliato la Chiesa e perseguitato i prelati, ha predicato eresie e divulgato
false bibbie, ha insozzato «le scene con mali drammi, le università con rei
cattedratici, e le vie con immagini nude ed oscene» [36].
De’ Sivo, contrapponendo al principio di nazionalità l’universalismo cattolico,
prospetta, in opposizione al piano rivoluzionario, che persegue «l’unità
geografica, e la disunione morale» [37],
l’ipotesi di una confederazione italiana, sul modello di quella svizzera e
degli Stati germanici, in cui possano sopravvivere le autonomie, le leggi, le
tradizioni di ciascun popolo della penisola. «L’Italia non fu una come
Inghilterra, Spagna e Francia, perché Iddio la creò svariata, la fe’ lunga e
smilza, e rotta da fiumi e da montagne; la popolò di stirpi diverse d’indoli,
di bisogni, di costumanze, e quasi anche di linguaggio; le mise più centri, le
fe’ elevare più città capitali; e die’ a tutte le sue contrade una prosperità
che basta a ciascuna, e a ciascuna una mente, un’anima e una persona compiuta.
Han sì somiglianza, ma non omogeneità.
«[...]
Non si può per una nazionalità ideale distruggere le nazionalità reali» [38].
In questo modo, inoltre, «[...] l’Italia
cristiana riederà al suo naturale primato» [39],
cioè alla sua vocazione storica di accogliere e di proteggere la Cattedra di Pietro, grazie alla quale essa splende di luce imperitura, che si riverbera sulle
arti e sulle scienze, suscitando la scintilla dell’ingegno e della fede.
Alta e vibrante è la protesta che eleva alle nazioni
europee in nome del diritto imprescrittibile delle genti: «Le nazioni civili
che mirano lo svolgimento di questo gran dramma italiano, iniziato a nome della
civiltà e del progresso, saran per fermo stupefatte al mirar la rea lotta che
spezialmente nel reame delle Sicilie procede cruenta ed atrocissima fra
Italiani ed Italiani. Dopo tante lamentazioni contro lo straniero, non è già
contro lo straniero che aguzza e brandisce le arme quella fazione che vuol
parere d’essere la italica nazione. Pervenuta ad abbrancare la potestà, ella
non assale già il Tedesco, né il Franco, né l’Anglo, che tengono soggetta tanta
parte d’Italia; ma versa torrenti di sangue dal seno stesso della patria, per
farla povera e serva. Ella grida l’unità e la forza; e frattanto ogni possibilità
d’unione fa svanire, con la creazione di odii civili inestinguibili; e distrugge
la sua stessa forza in cotesta guerra fratricida e nefanda, che la parte più
viva e generosa della italiana famiglia va sperperando ed estinguendo. L’Italia
combatte l’Italia. Già stranieri potentissimi e formidabili sogghignano e
preparano le arme; in mentre le persone, le industrie, il commercio, le arti
italiane e ogni forza va in fondo, fra gli spogli, le fucilazioni, gl’incendi e
le ruine. L’Italia subissa l’Italia» [40].
Egli prevede con lucidità le conseguenze
dell’annessione forzata: «L’unità per noi è ruina. In nome della libertà ne
vien tolta la libertà; [...] ritorniamo a’ viceré, anzi a’ luogotenenti,
anzi a’ prefetti [...]. Siam costretti a pagare i debiti fatti dal
Piemonte appunto per corrompere e comprare il nostro paese [...].
Restiamo gretti provinciali, senza lustro, costretti a mercar giustizia da
ministri lontani, superbi, e ignoranti delle cose nostre» [41].
I napoletani sono consapevoli di ciò e resistono alla
Rivoluzione unitaria, sebbene si presenti sotto una veste libertaria e
nazionalistica: «Ma se l’azione fu rea, la reazione è santa.
Che vale che i tristi la dicano brigantesca? [...] Briganti noi
combattenti in casa nostra, difendendo i tetti paterni: e galantuomini
voi venuti qui a depredar l’altrui? [...] Se siamo briganti, quel
governo che sforza tutto un popolo a briganteggiare è perverso» [42].
L’opuscolo si chiude con una durissima denuncia delle
condizioni di occupazione militare del regno e con l’orgogliosa rivendicazione
del «brigantaggio» come vera e propria guerra nazionale: «Questo nome di brigante,
che fu già tristo ed abbietto, noi lo facciamo amare dalle anime gentili, e lo
rendiamo glorioso.
«[...] È
quasi un anno che combattiamo, nudi, scalzi, senza pane, senza tetto, senza
giacigli, sotto i raggi cocenti del sole o fra i geli dell’inverno, entro
inospitali boschi, sovra sterili lande, traversando fiumi senza ponti, travarcando
muraglie senza scale, affrontando inermi gli armati, conquistando con le
braccia le carabine e i cannoni, e strappando pur sui piani campi di Puglia e
di Terra di Lavoro le vittorie a superbissimi nemici. È quasi un anno che
versiamo il sangue fra la benedizione dei sofferenti, sostentati dall’amore dei
popoli più miseri di noi e sorretti da quel Dio che non abbandona gli oppressi.
È un anno che sventoliamo sugli occhi di questi vani strombazzatori di trionfi
la santa bandiera dei gigli, di quei gigli che essi indarno cancellano da’
patrii monumenti e che sono scritti nei cuori di nove milioni d’abitanti» [43].
L’Europa si affanna sulla «questione napoletana», ma
intanto mira «[...] impassibile la distruzione delle più belle
contrade della terra, e lo abbrutimento di quel popolo che trovava la bussola e
la filosofia [...]. Oh Dio di pietà! tu poni fine agl’inenarrabili mali
nostri; tu disuggella gli occhi de’ potenti della terra, perché veggano questo
sole delle nostre infelicità. [...] I Napoletani invocano il dritto,
reclamano la pace, fanno appello agli uomini onesti di tutte le nazioni, e
fidano in Dio» [44].
2.2 La Storia delle Due Sicilie dal 1847 al
1861.
De’ Sivo comincia a scrivere la sua opera maggiore
dopo la rivoluzione del 1848, ma soltanto in esilio può dedicarvisi con grande
impegno.
Nell’estate del 1862 ha l’occasione di leggerne alcuni capitoli al re Francesco durante la villeggiatura di questi ad
Albano. Il sovrano ascolta con entusiasmo, lo incoraggia a proseguire e gli
fornisce chiarimenti e documenti. In seguito, riunisce uno speciale consiglio
di Corte per valutare l’opportunità della pubblicazione di una storia
contemporanea del Regno delle Due Sicilie, ma i pareri sono in prevalenza
sfavorevoli, perché si temevano i risentimenti che ne sarebbero nati
inevitabilmente e che si sarebbero ritorti proprio contro il sovrano. Tuttavia,
nel 1863, è dato alle stampe il primo volume dell’opera, che narra le vicende
del reame dalla fine del secolo XVIII all’agosto 1848, suscitando «la più
grande gioia per i puri» [45]
ma sollevando anche grandi riserve presso gli ambienti interessati. Il volume è
recensito su La Civiltà Cattolica dal gesuita Carlo Maria Curci
(1809-1891), che lo giudica lavoro di «altissimo pregio» [46]
quanto «[...] a sanità di principii, a nobili sentimenti di onestà e
di religione, a coraggiosa franchezza nel qualificare le cose e le persone coi
proprii loro nomi, e, per ciò che noi possiamo giudicarne, eziandio quanto a
veracità di fatti narrati» [47].
Nel 1864 vede la luce il secondo volume, con
l’indicazione tipografica di Verona, e le proteste si fanno più violente, dal
momento che de’ Sivo riferisce senza mezzi termini le viltà, le debolezze, i
tradimenti di coloro che erano stati protagonisti in negativo degli ultimi anni
di vita del regno. Francesco II non è scontento dell’opera e su proposta di
Salvatore Carbonelli (1820-1906), barone di Letino e Campofigliolo, concede
allo storico napoletano la croce costantiniana, onorificenza del Sacro Militare
Ordine Costantiniano di San Giorgio. Il terzo volume esce nel 1865 ed è
recensito su La Civiltà Cattolica da padre Berardinelli S.J., il quale
spiega che i pregi singolari del primo libro «[...] ritornano a far
mostra di sé nel presente volume» [48]
e il loro valore è tanto maggiore «[...] quanto maggiore è la copia e
l’importanza de’ fatti. E appunto perciò ci siamo consigliati di fare, contro
quello che comunemente usiamo, anche di questa parte dell’opera un’apposita
rivista» [49].
Gli ultimi due volumi sono stampati nel 1867, con l’indicazione di Viterbo, e
l’anno seguente l’opera ha una seconda edizione in due volumi, con
l’indicazione di Trieste, ma eseguita a Napoli.
La Storia
rappresenta il culmine della produzione letteraria e storica di Giacinto de’
Sivo che, secondo padre Curci, «[...] ha fatto, nella propria
significazione della parola, opera d’arte; [...] «il decoro nella forma
gareggia colla copia doviziosa delle notizie, e colla rettitudine di un
giudizio sempre sicuro, e che talora assorge all’altezza ed alla universalità
di vera sapienza civile» [50].
De’ Sivo, aggiunge il recensore, «[...] non usa citare documenti; ed
in ciò si conforma ai grandi modelli che ci ha lasciata l’antichità greca e
romana, imitate dagl’italiani del trecento e del cinquecento; ma ci pare manifesto
dal suo libro che l’Autore, oltre ad essere stato raccoglitore diligentissimo
di contezze, per arricchirne la sua Storia, ha dovuto avere a sua posta copia
notevolissima di documenti autentici, e, come oggi dicono, ufficiali»
[51].
La ricostruzione delle vicende del regno napoletano si
accompagna a riflessioni profonde sul senso cristiano della storia e sui
principi che devono orientare l’attività dello storico. «Solendo i popoli
tornar sempre agli errori medesimi — osserva de’ Sivo —, le lezioni
della storia parrebbero non riuscire a niuno ammaestramento per l’umanità;
nondimeno chi studia i fatti avvenuti vi trova in azione verità eterne e
imperiture» [52].
La storia esercita il suo influsso sulle azioni dei governanti e sulle sorti
delle nazioni: «dà norme di principii, di modi, di leggi; e mena le genti
ver la perfezione sociale» [53].
La storia spiega il perché degli avvenimenti e mostra che la decadenza di un
popolo ha sempre il suo punto di partenza in errori morali; aiuta a prevedere,
facendo tesoro non solo delle conoscenze del presente ma anche delle esperienze
del passato; è una continua lezione, valida a indicare la direzione da
scegliere per il miglioramento civile e morale, che deve essere «[...] legale,
conservatore, definito. Legale, perché non sorga l’arbitrio; conservatore,
perché non distrugga gli ordini compositori dello Stato; definito, perché
finito è l’uomo, né può aspirare a beni infiniti in terra» [54].
Lo studioso onesto ha il dovere di smascherare le
falsificazioni con cui i rivoluzionari, che s’ispirano alla mitologia del
«progresso» e del «mondo nuovo», si propongono di manipolare il patrimonio
culturale delle nazioni: «Narrando il passato a rovescio, congiuravano a
rovesciare l’avvenire» [55].
Lo storico deve avere la massima cura anche nel restituire verità al
linguaggio: «appellerò le cose co’ loro nomi antichi. Oggi che a turpi fatti
si pongon bei nomi, son diventati santi i vizii, sicchè a’ buoni si fan vituperevoli
le soavi parole che già significavan cose oneste e virtuose. Restituiamo noi
mondi tai nomi, discostiamoli dalle iniquità» [56].
Ma l’obbiettività non implica il dovere di «[...]
svestirsi di passioni» [57]
altrimenti viene a mancare la funzione pedagogica della ricostruzione storica: «Suo
ufficio è il muover gli affetti a pro del bene e contro il male, far questo
abborrire, quello amare. [...] Né solo si deve dire il vero, ma dirlo
con tal passione che giovi alla virtù, e dannifichi la colpa. Se così passionata
non fosse, la storia non saria degna del suo scettro» [58].
De’ Sivo sa che sarà tacciato di faziosità, ma respinge l’accusa: «Me certo
diranno partigiano; ma partigiano è chi per sette con venduta penna sconvolge e
mistica la verità; non chi libero difende l’umana ragione dalla tirannide del
mendacio, e rivendica la ragione dell’eterno dritto universale» [59].
Sullo storico napoletano «[...] basterà per
tutto dire — secondo padre Curci —, che egli è scrittore onesto
e cristiano, o piuttosto vogliamo dire cristianamente onesto, per
significare, che per lui l’onestà ha per norma il Cristianesimo» [60].
Una tale disposizione d’animo lo rende «naturalmente avverso ai moderni
ordini rappresentativi» [61],
senza essere per questo un fautore del dispotismo o un nemico della vera
libertà: «Anzi, per questo appunto che egli ama la libertà ed abbomina il
dispotismo, non può fare buon viso ad una forma di governo, la quale appena
promette altro all’Italia che la tirannide di partiti cozzanti tra loro, ad
oppressione del vero popolo» [62].
«[...] Perché
la verità n’esca intatta e piena» [63],
de’ Sivo muove nella sua analisi dalla ricerca degli errori compiuti dalla
monarchia e dalle classi dirigenti del reame: «Scrutar quelli errori,
dichiararli in giusta misura, farne dirò quasi esame di coscienza, e
confessarli, sarà bene non punto minore dello smascherar le calunnie» [64].
Anche la dinastia borbonica ha gravi colpe, la cui «confessione» non è meno
utile della denuncia delle manovre settarie. Le calamità del secolo XIX
sarebbero incomprensibili senza gli errori del secolo precedente: l’adesione
degli intellettuali all’illuminismo, la decadenza colpevole della nobiltà, il
contributo della monarchia all’opera di laicizzazione dello Stato e di
secolarizzazione della società avviata da alcuni dirigenti, che però non
impediscono la sconfitta dei rivoluzionari in campo aperto grazie all’epopea
della Santa Fede, nel 1799, e all’intervento degli eserciti alleati, nel 1815.
Il sovrano restaurato, Ferdinando I di Borbone (1751-1825), sceglie una
politica di compromesso, sulla falsa riga di quanto avveniva negli altri Stati
europei: «[...] fu sì la fallace politica dei Borboni — commenta
de’ Sivo — [...] quel sempre accarezzare i nemici e sconoscere agli amici. E
dico fallace, perché se talvolta guadagni qualche settario, mai non guadagni la
setta; questa infatti per governativi favori s’era ingrossata di nascoso: e
venuto il tempo, nessuno de’ fedeli si mosse, e il campo restò libero a’
tristi» [65].
Mentre il romanticismo
corrodeva l’ambiente culturale italiano, allontanando gli studiosi dalla vera
fede, un concetto falso di libertà s’infiltra nel corpo sociale: «Libertà
intendono non ubbidire a nessuno legittimo superiore, il che è l’opposto della
vera libertà, che è il non ubbidire a chi non ha dritto e in cosa non dritta»
[66].
Altri sviluppano arditamente le nuove teorie e promettono di sciogliere gli
uomini dalle catene della religione, ma «[...] un popolo senza Dio,
anzi che esser libero, neanche può esser sociale, se non ha despota che il
corregga. La libertà e la religione vanno insieme: fiacchi questa, distruggi
quella» [67].
Di fronte a quell’aggressione culturale difettano, da parte governativa, le
cure volte alla formazione di un ceto dirigente ben preparato, in grado di
mettere in guardia la nazione contro la penetrazione delle ideologie.
La rivoluzione del 1848 trova ancora una volta pochi
adepti a Napoli e il re Ferdinando II può domarla con le sue sole forze,
guadagnandosi però la fama di re sanguinario e spergiuro. Il decennio che segue
vede, secondo le parole di padre Curci, «[...] il lento e soppiatto
apparecchio, onde la fazione, diventata Governo costituzionale in Piemonte, e
confortata di poderosi aiuti stranieri, intese alla distruzione di tutti i
troni italiani a proprio profitto, cominciando dal sabaudo, il più dominato di
tutti da lei: anzi il solo tra tutti, perché portosi ad essere suo docile ed
inerte strumento» [68].
Giacinto de’ Sivo ha descritto in termini molto
efficaci la metamorfosi operata dal processo rivoluzionario che, schiacciata
sui campi di battaglia, «[...] si rannicchiò, si fe’ piccina» [69],
operando una ritirata tattica per lavorare indisturbata. «Comincia col
lamentare gli eccessi della rivoluzione caduta, poi si van distinguendo i
principii buoni e veri dalla esecuzione mala ed esagerata; che questa non
può negli animi intelligenti danneggiar quelli» [70].
I cospiratori si dichiarano pentiti — «[...] e di fatto li vedi ingobbiti
e genuflessi, e mangiar particole avanti gli altari» [71]
—, ma intanto attribuiscono gli eccessi ai vincitori e al loro cattivo governo:
«[...] soli patrioti sono i moderati, quelli cioé de’ sani
principii, che stanno in mezzo a’ due scogli del dispotismo e dell’anarchia.
«[...] Intanto
si stampano storie dove i fatti s’aggiustano alle idee; pinti eroi i ribelli,
tristi i fedeli, scambiate all’incontrario le idee semplici di vizio e di
virtù» [72].
La capillare propaganda
liberale mira anche a denigrare dinanzi all’Europa il regno borbonico, che il
famigerato motto del liberale lord William Ewart Gladstone (1809-1898)
aveva bollato come «la negazione di Dio eretta a sistema di governo» [73].
«Con quel motto — commenta de’ Sivo — Napoli, le Sicilie, il re, la
magistratura, l’amministrazione, l’esercito, il clero, la nobiltà e gl’ingegni
nostri furono immorali ed atei giudicati. Nove milioni d’abitanti vivean col
pensiero negativo della Divinità» [74].
Di fronte a quell’opera d’intossicazione e di
disinformazione il governo e la monarchia commettono l’errore di trascurare la
difesa: «Nel regno — osserva ancora de’ Sivo — molto si fece per
restaurare le cose, poco per le idee. Caduta materialmente la rivoluzione, non
si pensò gran fatto a conquiderla nelle menti. Ferdinando [...] credé
bastargli il fatto; poco lavorò alla vittoria della reazione morale, quella che
non con arme di ferro, ma con la face della verità si consegue [...].
Pago d’aver vinto, godente incontrastata potestà, plaudito da’ sudditi, suppose
quello stato non poter mancare, non pensò all’avvenire.
«[...] Temuti gli
uomini di testa, s’andò cercando la mediocrità, perché più mogia; non si volle
o non si seppe cercare i migliori e porli ai primi seggi [...]; e per
non fidarsi in nessuno, e non aver bisogno d’intelletti, fu ridotta a macchina
l’amministrazione e il governo [...]. La nave dello stato non provveduta
di piloti andò in tempo di calma più anni barcollando; poi al primo buffo, non trovandosi mano esperta al
timone, senza guida affondò» [75].
Lo stesso Ferdinando II, «uomo pio, re forte e
clemente, consorte e padre affettuoso,[...] non però sfuggì
all’imperfezione dell’umana natura. Bene conobbe gli uomini e le cose; ma
queste curò molto, quelli poco; condusse a bella altezza la prosperità
pubblica, ma degl’intellettuali diffidò [...]. Era in Ferdinando solo
tutta la gagliardia del governo; mancato lui, mancò la mente; e mancò appunto
in quei momenti supremi che la Provvidenza manda alle nazioni per correggerle
con la sventura» [76].
Nel 1860, quando la macchina rivoluzionaria è pronta e
le circostanze sono propizie, i «moderati» gettano la maschera e tornano a
cantare «[...] la vecchia canzone di progresso, opinione universale,
bisogni sociali, secolo, guarentigie, e riscosse; onde rivedi baldi rivoltuosi
quei convertiti mangiatori di particole» [77];
quindi, lamentandosi di aver ormai sopportato troppo e che «[...] più
moderazione saria tradire la patria» [78],
danno inizio a nuovi e più gravi rivolgimenti. Il regno è impreparato a
resistere all’aggressione interna ed esterna e a nulla serve il valore del
giovane re Francesco II.
De’ Sivo, rievocando le ultime vicende del regno, è
molto duro nelle condanne e freme di sdegno di fronte alla inettitudine e al
tradimento, ma conserva la sua Storia — secondo il giudizio di Croce — «affatto
scevra di livore e di altro qualsiasi motivo personale» [79].
Nelle pagine finali la narrazione va oltre la
congiuntura e cerca di operare una lettura teologica degli avvenimenti, basata
sull’idea di un castigo divino per le colpe delle nazioni, secondo il disegno
misterioso della Provvidenza. Il reame, spiega lo storico, era nato come
vassallo della Santa Sede e come tale si era comportato per lunghissimo tempo;
tuttavia, a partire dal secolo XVIII, la monarchia aveva smarrito il senso
della propria missione e aveva collaborato in maniera decisiva all’opera di
laicizzazione pretesa dalla cultura egemone e culminata simbolicamente
nell’abolizione dell’omaggio della «chinea», un cavallo bianco riccamente
bardato e recante in dono settemila ducati d’oro, simbolo della soggezione
feudale del regno alla Santa Sede: «Si abolì per massoniche arti, contro il
dritto; e n’è conseguenza il presente servaggio» [80].
3. Conclusioni
Poiché, secondo de’ Sivo, la Rivoluzione liberale ha potuto procedere solo grazie all’occultamento del suo volto e dei
suoi fini ultimi anti-cristiani e anti-umani, il mezzo più efficace per
combatterla consiste nel denunciarne lo spirito e la strategia: «Strapparle,
dunque, la maschera significa sferrarle il più duro dei colpi» [81].
Giacinto de’ Sivo ha assunto su di sé questo compito, svolgendolo con
efficacia, al punto da meritare l’appellativo di «Tacito della tirannide
settaria» [82]
— attribuitogli dall’anonimo estensore del necrologio apparso su Il Veridico
— per avere «[...] strappato coraggiosamente all’ipocrita la rossa
camicia e il tricolore paludamento, disvelando sott’esso di che lagrime grondi
e di che sangue» [83].
Egli, inoltre, indica a Napoli e a tutto il Mezzogiorno d’Italia che l’attesa
rinascita religiosa e civile può essere perseguita e conseguita soltanto
compiendo un profondo esame di coscienza nazionale e ricuperando le proprie
radici storiche e spirituali, benché da tempo conculcate e disprezzate, non solamente
da parte di allogeni.
Coloro che tale rinascita auspicano devono dunque
raccogliere la preziosa eredità di de’ Sivo, rileggere le sue opere e «consigliarne
ad altri la lettura, e favorirne la diffusione, e procurarne delle ristampe,
passando eziandio per sopra a qualche disparere intorno ad opinioni secondarie,
per amore di questi grandi principii di morale cristiana, dai quali soli la moderna
società può sperare salute» [84].