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a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale




Marco Respinti


Il giornalista statunitense Christopher Caldwell denuncia i guai dell’«immigrazionismo», Italia compresa



Contro l'ideologia immigrazionista (*)

Del padrino storico dei neoconservatori statunitensi, Irving Kristol (1920-2009), l’opinionista Mark Gerson dice una bella verità. Gerson, già condirettore — con lo stesso Kristol, Robert Kagan e altri — del famoso, e per certuni famigerato, The Project for the New American Century nonché «antologista ufficiale» del pensiero neocon, dice che Kristol gli ricorda l’Edmund Burke (1729-1797) descritto da Matthew Arnold (1822-1888): «È così grande perché […] offre pensieri che hanno un impatto sulla politica, satura la politica di pensiero». Ecco, dopo che uno dei massimi critici letterari inglesi, Arnold, ha predicato questo del padre del conservatorismo anglosassone, Burke, e che uno dei massimi critici politici statunitensi, Gerson, ha applicato la cosa al padre del neoconservatorismo americano, Kristol, noi possiamo metterci umilmente in coda e scimmiottare cotanto senno a proposito di Christopher Caldwell. Il gioco paga.

Caldwell, statunitense, è un pezzo grosso del giornalismo americano, è un neocon ed è una delle firme di punta del settimanale neocon diretto da William Kristol, figlio d’arte e del citato Irving, TheWeekly Standard, oltre che collaboratore di Financial Time, Slate, The Wall Street Journal, The New York Times, The Washington Post, The Atlantic Monthly e The New York Press. Ad Harvard Caldwell ha studiato letteratura inglese, di cui Burke è considerato un mastro prosatore; suo suocero era Robert Novak (1931-2009), decano del giornalismo d’Oltreoceano, per decenni stella di prima grandezza dell’opinionismo politico di destra, morto il 18 agosto scorso e fortemente debitore, come tutti i conservatori, nei confronti di Burke. Ed esplicitamente a Burke Caldwell si rifà con il suo ultimo libro, Reflections on the Revolution in Europe: Immigration, Islam, and the West (Allen Lane-Penguin Books, Londra 2009), che ricalca il titolo del capolavoro di Burke, Reflections on the Revolution in France (1789), quel Riflessioni sulla rivoluzione in Francia che fu la prima e lungimirante critica allo sconquasso portato dal giacobinismo nel Vecchio Continente. E qui giungiamo a bomba, perché il libro, importantissimo, di Caldwell sbarca finalmente pure sulle nostre coste, in libreria a ottobre per i tipi di Garzanti, e perché di altro ma non meno devastante sconquasso esso tratta. L’immigrazione che comunemente noi diciamo «selvaggia» e che invece il politologo francese Pierre-André Taguieff ha ribattezzato, con termine fresco di conio, «immigrazionismo».

Il punto di Caldwell è questo. Oggi la questione dell’immigrazione è divenuta scottante. Se ne parla da un bel po’, certo, ma tutte le persone perbene hanno sempre nutrito l’impressione che spingere l’acceleratore fosse troppo sopra le righe; che sì, dài, gl’immigrati sono un problema, soprattutto quando spacciano, stuprano, ammazzano e investono gl’innocenti sedendo ubriachi al volante di qualche catorcio riconvertito in arma non convenzionale, e però noi mica siamo razzisti, nazisti, xenofobi. Ma adesso che ha salito la scala delle magnitudo a grandi balzi, la questione si è fatta insopportabile.

Per ragioni politiche, l’immigrazione si è cioè mutata in immigrazionismo; per ragioni politiche, dell’argomento è tabù ragionare come si dovrebbe; per ragioni politiche, sul tema ci si trastulla con retorica banale travestita da argomentazione economica, sociale o persino etica. Ora, Caldwell, esperto di Europa e islam, studia il fenomeno da quasi un ventennio ed è giunto alla conclusione che l’immigrazionismo, fenomeno di per sé diverso dall’immigrazione, è la prossima sciagura annunciata che travolgerà il nostro mondo, soprattutto perché non ha rivali. Gl’immigrazionisti, sostiene il giornalista americano, allignano infatti nei partiti tanto di destra quanto di sinistra. Convinti che l’arrivo d’immigrati extracomunitari, in maggioranza musulmani, a contingenti numericamente così elevati da modificare completamente e per sempre il volto socio-culturale del Vecchio Continente sia, tutto sommato, cosa buona e utile, se gli uomini politici votati all’immigrazionismo appartengono nella fattispecie alla Sinistra di tutto questo fanno un calcolo sostanzialmente elettorale (basato sul tormentone dei «peccati coloniali» europei di ieri e sull’arroganza «neoimperialista» di oggi), se invece stanno a destra ne ricamano pensieri più o meno aleatori basati su un presunto vantaggio sul piano sociale ed economico che a tutti deriverebbe dall’impiegarli in quei comparti lavorativi che noi europei «nativi» oramai disdegniamo, complice primo il pesante inverno demografico che da tempo ci affligge.

Ma, appunto, sono calcoli così teorici da risultare solo esercizi di buonismo futile. Con un’aggravante. I recenti smottamenti della scena politica italiana, per esempio sul tema della ridefinizione del concetto di cittadinanza, vaporizzano gli steccati fra immigrazionisti di destra e immigrazionisti di sinistra. Caldwell, che ha girato l’Europa a lungo e in largo, conosce bene il caso italiano, e porta l’esempio di Gianfranco Fini, politico tra i più immigrazionisti che l’Europa conosca oggi, proprio come il maestro che si è scelto, il premier francese Nicolas Sarkozy. Ora, il pondo del ragionamento di Caldwell non soffre affatto diminutio per la presenza, nel suo bel libro, di uno svarione colossale — speriamo che l’edizione italiana, sotto embargo a occhi giornalistici curiosi, abbia concordato con l’autore opportune correzioni — qual è lo scrivere che Alleanza Nazionale è stata fondata da Benito Mussolini (1883-1945), un po’ come quando nel 2004 il giornalista statunitense, difendendo su The Weekly Standard un Rocco Buttiglione sotto processo davanti alla Commissione Europea, lo definì fondatore, nel 1968, di Comunione e Liberazione.

Afferma Caldwell che diversi partiti europei di matrice nazionalista o addirittura fascista (o parafascista, o pseudofascista) si mostrano, e non da oggi, transigenti in materia, udite udite, d’immigrazione. Insomma, è come se, oltre certo bla bla, quelle forze politiche non avessero di fatto la grinta prima per comprendere le ragioni, poi per difendere a ragione la casa Europa. Che, ovvio, non è certo cosa di fantomatiche purezze etniche e risibili, ma di una identità culturale forte, pure a vocazione globale, capace, unica al mondo, di conquistare in bonis e di amalgamare popoli e uomini. E così certe destre hanno finito, sostiene Caldwell, per richiudersi in un ridotto d’ideologia «geografica» a mera difesa nazionalistica o persino etnica che ha prodotto la più clamorosa eterogenesi degli scopi prefissati, insomma, come dicono in inglese, per spararsi in un piede.

Caldwell punta il dito soprattutto contro quell’immigrazionismo di destra pago della disponibilità di gendarmi nelle strade: c’è la legge, ci sono i poliziotti, chiunque sgarra paga, immigrato o no che sia. Fini ragionamenti; ma il punto è: affinché la società europea, meglio quella italiana, non scompaia trasformandosi in qualcosa di totalmente, magari mostruosamente altro, basta davvero che gli stranieri non facciano baraonda nottetempo sui marciapiedi del corso? O l’immigrazione non è forse un problema più profondo, certamente politico e sicuramente culturale, che chiama in causa una serie enorme di fattori cogenti? Cose, cioè, tipo la nostra identità debole e la loro identità forte, persino aggressiva; il fatto che gl’immigrati li puoi sfruttare e sottopagare solo per un tot, visto che poi diventano italiani e si sindacalizzano e comunque non sono scemi; che soprattutto gl’islamici fanno un sacco di figli a casa propria, qui già meno e però sempre più di noi; che gli extracomunitari lavorano da noi, pagano le tasse da noi, non è mica detto non mandino i figli nelle nostre scuole pubbliche, ma ciò non significa affatto che siano integrati, o per lo meno che, per esempio se islamici, non sperino d’infergere il colpo finale al nostro mondo già quasi al capolinea e per loro comunque decadente; infine che l’abisso demografico di cui noi europei siamo colpevoli ci sta divorando, tanto che il libro di Caldwell si può opportunamente allineare ad altri contributi importanti per una nostra presa di coscienza prima che sia irrimediabilmebte tardi, almeno il Mark Steyn del best-seller del 2006 America Alone: The End of the World As We Know It, edito a Washington da Regnery, quindi Eurabia. Come l’Europa è diventata anticristiana, antioccidentale, antiamericana, antisemita di Bat Ye’or, edito in Italia dalla torinese Lindau nel 2007. L’Europa, che di suo è solo un grosso promontorio dell’Asia un po’ come per il principe di Metternich l’Italia era solo un’espressione geografica, è sempre stata un continente sui generis. Non ne ha mai fatto una questione di razza, di stirpe o di pelle. Di cultura però sì, pure per via religiosa; una cultura che ha saputo innamorare a sé uomini e popoli i quali poi dell’idea-Europa si son fatti esportatori nel pianeta intero. Quando domani dovesse sostituire gli uomini e i popoli che l’hanno fatta e amata per secoli, e questo senza l’ammortizzatore sociale dei tempi storici che comunque sanano anche le ferite più gravi, l’idea-Europa inevitabilmente muterà. Crollando. Non è indispensabile compulsare acribicamente i tomi di Arnold J. Toynbee (1852-1883) per capire che nessuna civiltà è mai uscita bene da schianti di questa portata. Si dice che gli Stati Uniti di America siano un modello anche da questo punto di vista, un Paese dove l’integrazione funziona davvero. Come no, puntualizza Caldwell, che conosce bene la sua storia patria. Negli USA il numero dei musulmani di origine straniera — islamici neri a parte, fenomeno diverso e complesso — è di 2 milioni su una popolazione di quasi 304 milioni di persone, sparpagliate su una superficie di 9.372 e rotti kmq. alla media di 31,1 abitanti per kmq. Che faccia farebbero sul Monte Rushmore se la popolazione del Paese nordamericano contasse invece la stessa proporzione di musulmani che si registra oggi per esempio in Francia, cioè una quarantina di milioni, concentrati nelle megalopoli e un bel po’ di loro magari allegramente intenti a riscaldare gli outskirt, nome locale delle banlieue?

Il finis Europæ non immigrazionista? La politica del chiudere le porte, spegnere la tivù e mettersi a fare più figli. Ma ci vuole un buon partito.


Nota

Cifre che spaventano

• Dei quasi 500 milioni di residenti che ne contano i 27 Stati-membri dell’Unione Europea (Ue), 50 sono immigrati.
• Di questi 50 milioni, 20 provengono da un altro Stato-membro della Ue e sono detti immigrati intracomunitari. Gli altri sono gl’immigrati extracomunitari.
• Dei 30 milioni d’immigrati extracomunitari presenti oggi negli Stati-membri della Ue, tra i 15 e i 17 milioni sono musulmani.
• In Gran Bretagna arriva ogni anno mezzo milione di nuovi immigrati extracomunitari.
• Nei Paesi dell’Europa Occidentale ne giungono annualmente 1,7 milioni.
• A Torino gl’immigrati extracomunitari incidono sulle nascite dei residenti per il 25% e sulle morti per lo 0,2%
• In Svezia, su 9 milioni di residenti attuali, 1,5 sono immigrati extracomunitari o loro figli.
• Nei Paesi Bassi, su 13 milioni di residenti, 3 milioni sono immigrati extracomunitari o loro figli. Alcune stime prevedono che nel 2050 saranno un terzo dei residenti, e questo tenendo conto che di recente il Paese ha comunque ridotto l’entità dei flussi immigratori, come del resto ha fatto pure la Danimarca, senza peraltro patire rilevanti conseguenze economiche negative, ossia in esatta controtendenza rispetto a quanto sostiene la «logica economico-demografica» degl’immigrazionisti.
• In Italia, gl’immigrati extracomunitari provenienti da Paesi musulmani hanno in media «solo» tre figli per coppia. Ma mediamente le coppie di cittadini italiani «nativi» ne hanno 1,3. La Francia ha «risolto» il gap statistico stabilendo che nel Paese tutti i cittadini sono «nativi», ivi compreso chi ha appena ottenuto cittadinanza francese, e così ha «rialzato» la media. In Italia, peraltro, la riduzione relativa del tasso di natalità che interessa le coppie d’immigrati extracomunitari non è generalizzabile: presso alcuni gruppi etnici provenienti da Pakistan, Bangladesh o Mali tale riduzione è praticamente nulla.



(*) Versione originale e completa dell’articolo pubblicato con il titolo Quelli che l’immigrazione fa sempre bene ne il Giornale, 20-11-2009.



Note e commenti

Marco Respinti,
Contro l'ideologia immigrazionista


Marco Invernizzi,
De Gasperi, Gedda, la Dc e il “partito romano”


Oscar Sanguinetti,
Un nuovo attacco contro la memoria dell’Insorgenza italiana


Marco Invernizzi,
Nota in margine
a una recensione
della Civiltà Cattolica


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