a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale
inserito il 16 luglio 2011
Oscar Sanguinetti
Al servizio dei popoli convertiti al Vangelo. Otto d'Asburgo (1912-2011)
La notizia della morte di Otto - «Ottone», scrive L’Osservatore Romano del 5 luglio - di Asburgo, ancorché abbondantemente prevedibile - aveva 98 anni -, si presta comunque a qualche considerazione.
La prima - e forse l’unica - impressione che l’evento suscita d’abord e quasi obbligatoriamente è quella di trovarsi di fronte a una fine, alla conclusione di un ciclo storico.
Qualcuno potrebbe dire «l’ennesima» fine, giacché la medesima sensazione credo fu provata senza dubbio quando Carlo I d’Austria, il padre di Otto, si trovò di colpo, senza aver abdicato, alla testa di un impero che non c’era più, di un regno dissolto dalla sconfitta nella guerra mondiale, e, in breve torno di tempo, espulso dalla patria e spogliato da ogni bene familiare.
E forse, ancora, quando il suo tentativo di restaurazione del trono ungherese, nel tumultuoso 1921, fallì per la seconda volta.
Ma di sicuro, ancora e ancor di più quando il giovane e santo sovrano chiuse prematuramente gli occhi, a Madera, l’anno successivo.
La morte di Carlo chiude in effetti la vicenda del lungo regno di una schiatta postasi al servizio di un popolo e, poi, di molti e diversi popoli, di una dinastia che ha offerto la sua spada e il suo genio politico all’alto ideale della Santa Romana Repubblica, nel difficile e tormentato corso dell’età moderna e contemporanea. E non segna solo l’estromissione di una dinastia dal potere - ve ne sono state tante… -, ma la scomparsa stessa dell’idea di un potere laico, ma sacrale, modellato sull’autorità della famiglia e soggetto alle medesime leggi di perpetuazione di quest’ultima.
Dopo di lui verrà il tempo delle ideologie, dei regimi anonimi e burocratici, dei totalitarismi onnipervadenti, dei popoli ridotti a masse eterodirette, del conflitto perpetuo.
È davvero istruttivo ripercorrere la parabola di questi piccoli nobili «svizzeri», i quali, dal remoto maniero di Habsburg, nell’attuale cantone di Argovia, a poco a poco, con pazienza e astuzia, generazione dopo generazione, matrimonio dopo matrimonio, eredità dopo eredità, guerra dopo guerra, dal cuore del Medioevo, intorno al 1000, ascendono nella gerarchia sociale, conquistano territori sempre più ampi, contendendoli specialmente ai cantoni svizzeri in via di emancipazione dall’Impero. E dalla Svizzera si spostano quindi sempre più a est, verso il mondo germanico, accumulando prerogative politiche e poteri territoriali ogni volta più grandi.
Il culmine di questo itinerario sarà nel XIII secolo - con Rodolfo - e poi, di nuovo, nel XVI secolo - con Massimiliano I - l’accesso alla più alta magistratura della cristianità, il Sacro Romano Impero, quella «universale architettura politica cristiana» pensata come il guscio che ospitasse e difendesse dal nemico esterno l’intera famiglia dei popoli convertiti al Vangelo e, nello stesso tempo, fungesse da istanza arbitrale suprema al suo interno.
L’asse geopolitico della dinastia, a misura della sua ascesa, si sposterà ulteriormente a est, verso l’Europa danubiana, assestandosi grosso modo nell’area degli attuali Austria e Tirolo. E di qui estenderà le sue propaggini verso nord, verso quelli che diverranno i Paesi Bassi austro-spagnoli, compiendo il suo grande salto di qualità con le nozze di Giovanna di Castiglia e di Filippo I, figlio di Massimiliano I e arciduca di Borgogna, con le quali si realizzerà la saldatura fra i regni ispanici e i domini asburgici.
Poco dopo, il loro figlio secondogenito Carlo V sarà eletto al trono di Carlo Magno. Il vasto impero austro-ispanico, nonché sacro e romano, che ne nascerà, agl’inizi continuerà a espandersi oltreoceano, dando vita alla sterminata e cattolica Nuova Spagna, che si estendeva dalle pianure nordamericane fino alla Terra del Fuoco.
Tuttavia, come tutti gli astri, anche quello degli Asburgo, dopo l’apogeo, conosce la sua sera. Troppi sono i nemici: i principi protestanti, i turchi ottomani, i riformatori religiosi, le potenze coloniali antagoniste, la potenza di casa Borbone in Francia.
Sarà un declino, ma un declino che durerà due secoli. Finiti i bagliori del Siglo de Oro, i sovrani asburgici, persa nel 1700 la enorme pars occidentis, si concentreranno sulla pars orientis, creando un vasto e saldo regno nell’area alpino-adriatica-danubiana, il cui principale merito - come nei secoli precedenti era stato l’appoggio alla Riforma tridentina - sarà di arginare l’Asia islamica alle porte, senza dimenticare la successiva e strenua lotta contro il cesarismo rivoluzionario di Napoleone.
Gli Asburgo conserveranno per ben 368 anni le insegne imperiali: le dismetteranno solo nel momento in cui si paleserà l’eventualità che la corona sacra e romana finisca sul capo dell’autocrate côrso. Allora, nel 1806, Francesco II di Asburgo, deporrà per sempre l’augusta corona sormontata dalla croce.
Nell’Ottocento lo Stato asburgico si configurerà come un grande regno centroeuropeo, multinazionale, multietnico e multireligioso, che per decenni assurgerà a modello di buona amministrazione e di felice convivenza fra i popoli, almeno per quanto è possibile in hac lacrimarum valle. I risorgimenti nazionali, prima, e il virus nazionalista, poi, lo aggrediranno a più riprese, fino a riuscire nel 1914 a uccidere a Sarajevo l’erede di Francesco Giuseppe, scatenando così la spaventosa e inutile carneficina del Primo Conflitto Mondiale.
Dalla guerra, nonostante gli sforzi di pace del sovrano, l’impero asburgico uscirà dissolto, così come l’impero germanico, l’impero russo e l’impero ottomano. Il centro dell’Europa patirà la scomparsa del grande e ordinato organismo austro-ungherese e, nel vuoto creatosi, germineranno odi nazionali violenti e incuberà quel totalitarismo nazionalsocialista, che scaglierà l’Occidente in un secondo, ancor più devastante, conflitto.
E l’anima europea, da Joseph Roth a Franz Werfel, da Robert Musil ad Alexander Lernet-Holenia, canterà con malinconia e nostalgia la «finis Austriae», il crollo di un mondo certo idealizzato, ma ricco di fascino e non privo di motivi di rimpianto.
L’arciduca Otto, primogenito del beato Carlo, è stato per sei anni l’effettivo Thronfolger, l’erede al trono. Il bel bimbo biondo che vediamo nelle fotografie con i suoi santi genitori, sulle ginocchia di un orgoglioso Francesco Giuseppe e spettatore, compunto e un po’ spaurito, ai funerali di quest’ultimo, nella Vienna grigia e angosciata del novembre 1916, sarà in un certo senso, Otto più che Carlo, davvero l'«ultimo degli Asburgo», l’estremo, ancorché potenziale, imperatore di Austria e re di Ungheria.
Egli, se non regnerà, saprà tuttavia tenere - a fianco della energica madre, Zita di Borbone-Parma - nei lunghi anni dell’esilio salde le redini della sempre più numerosa e impoverita famiglia, specialmente aiutandola a mantenersi nella fede cristiana degli avi, impedendole di seguire la sorte poco brillante di molte casate europee.
Né si esimerà dal fare suoi i tanti oneri pubblici che la storia dell’Europa nel secolo XX quasi imponeva a chi era erede carnale e morale dei grandi uomini che avevano retto l’impero. Nella militanza contro il nazionalsocialismo dell’austriaco Adolf Hitler, che odiava visceralmente la dinastia, e nell’ideale europeista, Otto cercherà di trasfondere gli ideali cristiani, i disegni di pace e di unione del santo genitore, nonché il capitale di esperienza politica accumulato nei secoli dalla famiglia.
Otto scompare, quasi centenario, ma gli Asburgo continuano. L’auspicio è che la memoria della grandezza degl’ideali che essi per secoli hanno personificato non svanisca e che si mantenga sempre viva fra loro la vocazione a servire l’Europa e la Chiesa.
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