a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale
Benedetto Tusa
IL SACCHEGGIO DI CAPOLIVERI NELL'ISOLA D'ELBA:
UN ESEMPIO DI FALSO STORICO
1. PREMESSA
Fra i numerosi saccheggi effettuati dalle truppe francesi all’isola
d’Elba, uno dei più ingiustificati ed efferati fu quello perpetrato
nella cittadina di Capoliveri, nella parte meridionale orientale dell’isola
Le radici cristiane dell’isola d’Elba risalgono all’apostolo della sua «prima evangelizzazione» san Cerbone, vescovo di Populonia (Grosseto) del
VI secolo (2); la chiesa di San Michele di Capoliveri è
citata in scritti dell’inizio del XIII secolo; che poi il cristianesimo
vi avesse attecchito in modo fecondo è dimostrato, fra gli altri,
da questo episodio accaduto nel 1779, anno in cui si verificò una
grande siccità: «Piove pochissimo nell’autunno; passa tutto l’inverno
e comincia la primavera senz’acqua, talché i pozzi, le fonti e perfino
le polle si seccano. Il popolo di Capoliveri implora la Divina assistenza.
Sono ordinate processioni a S. Filippo Neri e a San Sebastiano. È
esposto S. Vincenzo Ferreri. E sebbene nel primo giorno del triduo che
fu il 27 marzo cadesse un poco di pioggia, pure non fu sufficiente. Il
dì 5 d’aprile si portò processionalmente detta immagine e
il dì 11 il simulacro di Cristo morto da preti scalzi, ma invano.
Il dì 12 il popolo va processionalmente al Santuario della Vergine
di Lacona, in cui entra, dietro alla confraternita, il clero scalzo, ma
invano. Il dì 17, veduta il popolo l’inclemenza del cielo e accortosi
che Dio era sordo alle sue preghiere, porta con grande solennità
il quadro della Vergine delle Grazie in paese. Bandita una processione
popolare, i fanciulli precedono gli uomini senza cappa, questi le donne,
la confraternita del Corpus Domini e questa il clero. Giunti al Santuario,
entrano scalzi sacerdoti e chierici soltanto: l’arciprete col canapo al
collo e una corona di spine in testa, con pianto universale. Tengono esposta
per undici giorni la sacra immagine, guardata notte e giorno dalla milizia
[...] muovono a visitare la Vergine le Confraternite della Piazza e
della Marina di Longone e di Rio: un popolo innumerevole, moltissimi vestiti
alla foggia di pellegrini con cappa e bordone e altri non pochi scalzi
con corone di spine in capo e una corda al collo» (3).
D’altro canto, pochi anni prima, nel 1735, si trovava a Capoliveri san
Paolo della Croce (1694-1775), fondatore dei padri passionisti, «[...]
a dare le missioni» (4). Il santo visitò più
volte l’Isola d’Elba, dove voleva stabilire la sede dell’ordine da lui
fondato, ma «[...] nel 1730 si vide respinta una richiesta intesa
ad ottenere il santuario della Madonna delle Grazie ed allo stesso modo,
successivamente, gli fu negato di ritirarsi con i suoi confratelli nel
santuario della Madonna di Monserrato di Porto Longone» (5).
2. IL SACCHEGGIO DI CAPOLIVERI
L’episodio narrato di seguito conferma che la storia è sempre
scritta dai vincitori, e che, spesso, non è rispettato nella ricostruzione
il criterio di verità circa gli accadimenti. Nel nostro caso, quanto
è stato trasferito dalla «storiografia ufficiale» , è che
il saccheggio di Capoliveri abbia costituito una giusta rappresaglia, a
seguito di gravi provocazioni ed attacchi operati dagli abitanti contro
i francesi (6). A questo proposito, si deve tenere presente,
che, mentre a Portoferraio regnava il Granduca di Toscana Ferdinando III
di Lorena (1769-1824), e Porto Longone, l’attuale Porto Azzurro, era sotto
il dominio della casa di Borbone, l’isola nella sua restante parte — che
comprendeva Capoliveri e le zone limitrofe — apparteneva ai nobili Appiani,
signori di Piombino — sulla costa toscana di fronte all’isola —, che erano
alleati della Francia. La cittadina, quindi, non avrebbe dovuto essere
ostile ai francesi.
Ancora, occorre ricordare che Giuseppe Ninci, giacobino di Portoferraio,
autore di una nota Storia dell’Elba (7), fu parte attiva
nel tentativo di imporre la Repubblica nell’isola, tanto che, quando la
guarnigione granducale di Portoferraio tentò di opporsi all’incorporazione
della piazzaforte, l’ultima rimasta libera, alla Repubblica Francese, nel
marzo 1799, fu lo stesso Ninci a essere protagonista degli eventi. Nella
sua storia egli infatti racconta che «[...] fortunatamente lo
scrittore della presente opera, trovandosi a diporto sul molo, sentì,
con raccapriccio ed orrore le minacce di quegli empi [i difensori della
piazza].Egli volò ad avvertire i capi guardia [degli assedianti]
dei posti indicati, affinché si ponessero a difesa» (8).
Autore di parte, dunque, che l’altro storico dell’Elba, Vincenzo Mellini
Ponçe de Leon (9) conferma abbia partecipato alle trattative
fra i rivoluzionari e la piazzaforte, soprattutto al momento della consegna
della lettera «[...] con cui si ordinava alla municipalità
di Capoliveri di mettersi sotto il governo francese e somministrare alle
truppe di quella Repubblica tutti i soccorsi possibili» (10).
Il cronista elbano riferisce che il 4 aprile 1799 alla consegna della lettera,
a Capoliveri, Ninci fosse presente: «[...] vuolsi che fra detti
emissari vi fosse il nostro Giuseppe Ninci» (11).
Ma la posizione di attesa dei capoliveresi ha termine proprio in questo
momento. Si ignora «[...] ciò che riposero gli anziani,
sappiamo solamente che gli emissari mandati allo scopo di democratizzare
i capoliveresi, trovarono in essi una ripugnanza invincibile alle nuove
idee; e, corse offese da una parte e dall’altra, andarono debitori alla
velocità delle gambe, della salvezza delle loro spalle» (12).
3. LA RICOSTRUZIONE «UFFICIALE» DI GIUSEPPE NINCI
Lo storico filo-giacobino racconta che, quando scoppiò il conflitto
fra Regno di Napoli e Francia repubblicana nel 1799, nel corso dell’assedio
stretto dai francesi alla piazza napoletana di Porto Longone, nell’aprile
dello stesso anno, i capoliveresi «[...] passati ai campi francesi,
invitarono gli assedianti di portarsi a Capoliveri per approvisionarsi,
e che, per contrario, massacrarono. Il tradimento di questi, però,
non andiede impunito; imperciocchè il generale Miolis [sic],
passato da Livorno a Portoferraio e che comandava le forze francesi nell’Elba,
spedì il giorno appresso [9 aprile] a Capoliveri un mezzo
battaglione di fanteria, con l’ordine di saccheggiare quella terra, e passare
a fil di spada chi si fosse opposto con le armi in mano» (13).
Nel mese seguente, perdurando l’assedio di Porto Longone, la situazione
ebbe un’evoluzione, nel senso che i francesi tentarono di pacificare gl’«insurgenti»
(14), anche perché, dalle altre parti dell’isola, si
erano manifestati contemporaneamente altri focolai di contro-rivoluzione,
che rischiavano di mettere in difficoltà i giacobini.
In un primo tempo, i capoliveresi, rispetto agli altri moti reattivi,
si mantennero neutrali, ma, secondo Giuseppe Ninci, «[...] non
fu però, che i capoliveresi mancassero di maleanimo contro i francesi,
ma solo non si mossero per non troppo arrischiare alla scoperta, imperocché,
armatisi i medesimi, e ben postati alle finestre delle loro abitazioni,
riceverono a colpi di fucile un picchetto francese, che ai loro nuovi inviti
si era portato ad approvvisionarsi a Capoliveri. Questo secondo, non men
del primo marcato tradimento per parte dei capoliveresi, meritossi la giusta
vendetta delle truppe francesi. Queste la fecero di fatti, imperciocché
la mattina del dì seguente, portatesi in numero sotto Capoliveri,
e circondatolo in un momento, vi entrarono a baionetta in canna, ponendo
a morte tutti quei che si vollero opporre, e dando un sacco generale a
quella terra non senza attaccare il fuoco» (15).
4. LA VERITA' STORICA RISTABILITA DA VINCENZO MELLINI PONÇE DE LEON
Il maggiore storico elbano ricostruisce la vicenda in altri termini,
partendo dal fatto che Capoliveri nell’aprile del 1799 fu occupata da un
presidio di circa 60 francesi, sloggiato successivamente, nel maggio, dai
soldati napoletani di Porto Longone. Questi uomini, fuggiti da Capoliveri,
si unirono alla colonna francese inviata contro Capoliveri con l’ordine
del comandante francese di mettere Capoliveri a ferro e a fuoco e di ritirarsi
successivamente a Portoferraio: «[...] quell’orda di feroci predoni
più che soldati, giunse silenziosa nel cuore della notte a quel
castello; lo investì improvvisamente da tutti i lati, ne sorprese
gli abitanti che dormivano quieti e tranquilli nei loro letti e tutt’altro
pensavano che dar piglio alle loro armi che non avevano, ed a scontare
con il sangue le strette di mano scambiate con loro compatrioti a servizio
di Napoli, e vi cominciò un sacco così tremendo, da far dimenticare
l’altro del 6 di aprile che durò dal giovedì notte a tutto
il lunedì veniente [...]. Sacerdoti, vecchi, donne, e fanciulli,
massacrati, donne violate nelle pubbliche vie e persino in chiesa, bambine
stuprate, chiese profanate, oggetti consacrati al culto, sacrilegalmente
rotti, rubati; immagini sacre guaste e deturpate; case completamente svaligiate;
mobili preziosi a calciate di fucili infranti; quadri di famiglia sciabolati;
botti di vino, a spillarle a colpi di fucile, forate, lasciandone scorrere
il liquido per le cantine, per le vie; orgia dovunque; e il paese ridotto
prima ad un pianto, poscia ad un deserto. Non mancò che il fuoco
a compiere l’opera nefanda ed a distruggerlo» (16).
Fra gli episodi più raccapriccianti c’è la morte, il 23
maggio 1799, di don Antonio Becci, anziano prete di antica famiglia capoliverese,
da tutti conosciuto per le sue virtù, assassinato a colpi di arma
da fuoco e di baionetta, per aver alzato la voce contro i violatori delle
donne e delle bambine in chiesa e nelle pubbliche vie (17).
Il limite tragico e grottesco di questa come di altre vicende è
delineato da un episodio che ha inciso sulla memoria storica di Capoliveri
e dell’Isola d’Elba in modo irrimediabile: la distruzione dell’archivio
dell’antichissimo municipio. Il cancelliere della cittadina, certo Luigi
Bracci, nella notte tra il 23 e il 24 maggio 1799, mentre i francesi imperversavano,
temendo la loro ferocia, «[...] tolse i libri e le filze di maggior
interesse dagli scaffali, e, favorito dalla vicinanza del Palazzo Pubblico
alla Chiesa Parrocchiale, li portò a nascondere alla sepoltura degli
uomini. Vi si calò dentro e poscia, sui libri e su se stesso calò
la lapide che la chiudeva» (18). Poco dopo, la Chiesa fu
invasa da donne, vecchi, e fanciulli che cercavano scampo pensando che
la sacralità di quel luogo avrebbe fermato i francesi, che invece
li inseguirono anche lì per depredarli. A questo punto il Bracci,
non si sa per il fetore della sepoltura o per la paura, o per la curiosità
delle grida udite, sollevò un poco con la schiena la lapide. A questo
punto, i soldati francesi, prima meravigliati e poi incuriositi, la scoperchiarono
e tirarono fuori per il colletto il vecchietto ben vestito, scambiandolo
per un ricco che aveva nascosto i propri tesori nel sepolcreto. E, non
trovando invece niente altro che carte e ossa, furibondi, stracciarono
e bruciarono tutte le carte e i libri ivi giacenti, prendendo a colpi di
calcio di fucile il cancelliere e lasciandolo semivivo sul pavimento della
chiesa. L’archivio di Capoliveri era stato risparmiato da tante guerre
e saccheggi nei secoli passati, perfino dai saraceni e dai turchi.
5. CONCLUSIONI
Amore di verità impone di stigmatizzare le menzogne che vengano
lapidariamente consacrate dai canali della storiografia ufficiale, anche
se si tratta di piccoli episodi della vita quotidiana, di cui pure la storia
si compone. Grazie a Dio, spesso la grossolanità delle bugie nel
racconto storico è tale da trasparire e da fare scoprire di suo
l’imprecisione del relatore. Anche in questo caso, lo storico filo-giacobino,
e giacobino egli stesso, Ninci cade in un insuperabile imbroglio, quando
omette di citare la presenza dei francesi in presidio a Capoliveri dal
6 aprile, e omette altresì di menzionare la data del saccheggio
del 22 maggio, giorno del Corpus Domini, che lasciò gli abitanti
senza alcuna difesa, prostrati dal dolore e dalla falcidie di anime. Semplicemente
afferma che l’inazione dei capoliveresi fu data dalla loro ignavia, pur
sapendo gli stessi, che i napoletani necessitavano di appoggio dalle popolazioni
territorialmente vicine. Un’altra menzogna del racconto di Ninci sta nella
descrizione del saccheggio e della strage, che secondo lui avvenne in pieno
giorno, così che la popolazione avrebbe potuto respingere l’attacco,
mentre in realtà l’assalto fu proditoriamente effettuato nella notte
del 22 maggio, quando i capoliveresi giacevano nel sonno. Da ultimo, il
fantomatico invito rivolto dai capoliveresi ai francesi — appena scacciati
o ancora di presidio! — di andare ad approvvigionarsi presso gli assediati,
per poi aggredirli con fucili di cui già non disponevano più
a causa del saccheggio subito. Non è chi non veda una profonda ingenuità,
assai poco probabile, da parte dei francesi che sarebbero di certo caduti
in un agguato, dal momento che il contrasto infuriava in quei giorni tra
l’una e l’altra fazione. Vero è, purtroppo, che i contemporanei
dei fatti, come in tutti questi frangenti accade, si distinguevano in due
categorie: coloro che, come i capoliveresi, per essersi mantenuti fedeli
ai propri principi, vennero passati a fil di spada fra atroci sevizie,
e chi, come certi storici svelano con il proprio oscuro lavoro di ricostruzione,
si fa corifeo del dominio straniero, volendo la sottomissione o, in caso
contrario, lo sterminio di chi la pensava diversamente, appoggiandosi alle
baionette straniere.
Benedetto Tusa
Note
(1) Situata sopra un monte spianato in vetta
ed elevata a m. 167 sul livello del mare, è posta nella parte sud
ovest dell’Isola. Fondata, si dice, da liberti o da adoratori «libertini"
del dio Bacco, «Caput Liberum» era abitata da una popolazione con
marcati caratteri di autonomia, la cui istituzione più eminente
nei secoli è stata il «consiglio degli anziani» , organismo di governo
con forti poteri legislativi e deliberativi.
(2) L’esistenza storica di San Cerbone non
è del tutto certa; cfr. Piero Bargellini, Mille Santi al giorno,
Vallecchi-Massimo, Milano 1980, p. 567.
(3) Cfr. Vincenzo Mellini Ponçe de Leon,
Delle memorie storiche dell’Isola d’Elba, Tipografia Raffaele Giusti,
Livorno 1890, vol. V, rist. a cura di Gianfranco Vanagolli, Le Opere e
i Giorni, Roma 1996, pp. 92-93.
(4) Cfr. ibid., p. 77.
(5) Cfr. ibidem, ex archivio
Mellini Ponçe de Leon, cit. in Enrico Lombardi, Santuario della
Madonna del Monte di Marciana nell’Isola d’Elba, a cura dell’Opera
del Santuario, Queriniana, Brescia 1964, p. 77, nota 125; cfr. anche Idem,
Vita Eremitica nell’Isola d’Elba, Queriniana, Brescia 1957, pp.
51-52, e A. Ripabelli, S. Paolo della Croce all’Isola d’Elba, in
Corriere Elbano, 10-9-1975 e 20-9-1975.
(6) Per il quadro generale della situazione
elbana nel 1799, cfr. 1799: l’Insurrezione popolare contro-rivoluzionaria
dell’Isola d’Elba, in ISIN, Nota Informativa, anno II, n. 5,
gennaio-aprile 1997, pp. 3-10.
(7) Cfr. Giuseppe Ninci, Storia dell’Isola
d’Elba, Portoferraio (Livorno) 1815, rist. anast., Forni, Bologna 1968.
(8) Ibid., pp. 215-216.
(9) Maggiore storico dell’Isola, nacque a Marina
di Rio, nel 1819; il padre, Giacomo, era stato un ufficiale al seguito
di Napoleone. Laureato in giurisprudenza e in scienze naturali, rinunciò
alla carriera universitaria per vivere sulla sua isola e studiarne la storia
e le tradizioni. Fu anche sindaco del suo paese natale e direttore delle
miniere di ferro dal 1871 al 1891, senza però smettere di esplorare
archivi e biblioteche. La sua opera maggiore sul periodo del triennio giacobino
(1796-1799) è il quinto libro — intitolato I francesi all’Elba
—, della sua Storia (Giusti, Livorno 1890). Morì a Livorno
nel 1897. Per una più completa notizia bio-bibliografica, cfr. V.
Mellini Ponçe de Leon, op. cit., pp. VIII-IX, da cui
sono state tratte anche le seguenti notizie. Cfr. anche Alessandro Canestrelli,
Elba, un’isola nella storia, Litografia Felici, Ospitaletto di Pisa
(Pisa) 1998, pp. 20-23.
(10) V. Mellini Ponçe de Leon, op.
cit., p. 33.
(11) Ibid., p. 38, nota 32.
(12) Ibid., p. 33.
(13) G. Ninci, op. cit., p. 217.
(14) Ibid., p. 219.
(15) Ibid., p. 220.
(16) V. Mellini Ponçe de Leon, op.
cit., pp. 171-172.
(17) Ibid., p. 172.
(18) Ibid., p. 173.
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