a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale
inserito il 10 aprile 2008
Omar Ebrahime
La storia della Chiesa nella storia: bilancio e prospettive di un convegno
Il 13 e 14 marzo 2008 si è tenuto a Roma presso la Pontificia Università della Santa Croce il XII Convegno internazionale della Facoltà di Teologia, avente quest’anno per tema La storia della Chiesa nella storia: bilancio e prospettive.
Dopo il saluto del Rettore dell’Ateneo monsignor Mariano Fazio, la prima giornata è stata dedicata ad affrontare la nascita degli studi di storia della Chiesa e della storiografia ecclesiastica nei primi secoli immediatamente successivi all’affermazione e alla diffusione della Chiesa primitiva, mentre la seconda si è concentrata sulle epoche più recenti, iniziando significativamente dal periodo post-tridentino per arrivare agli ultimi lavori del XX secolo successivi al Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965).
Il dibattito fra i numerosi studiosi convenuti a Roma per l’occasione — fra i quali Martin Aurell dell’Università di Poitiers, Jean-Dominique Durand dell’Università di Lione e José Andrés-Gallego del Consejo Superior de Investigaciones Cientìficas di Madrid — si è mosso dalla prima storiografia cristiana e dal suo rapporto con i cultori di Clìo nel mondo classico greco-romano per arrivare a soffermarsi sulle diverse metodologie della storiografia medievale, che segnano l’ultima coerente veduta d’insieme di un mondo che subirà pesantemente l’attacco e la vis polemica degli intellettuali protestanti della Riforma, figli primogeniti della rivoluzione culturale dell’umanesimo.
Sarà infatti proprio a partire da questa svolta che, come ha spiegato Marco Pellegrini dell’Università di Bergamo, «l’approccio al mistero della storia subì un cambiamento radicale». Fin dal suo nascere, infatti, l’umanesimo «[…] si concepì come un movimento di rottura», d’avanguardia, che si proponeva di «liquidare» e di «superare»intoto la tradizione. Nell’ambito della storia della Chiesa è interessante notare come lo stesso tipo di atteggiamento, per certi versi una vera e propria libido destruendi, nonostante varie peripezie e condanne magisteriali, vecchie e nuove, sia sopravvissuto tenacemente fino ad arrivare, più vivo che mai, ai giorni nostri. Pur cambiando propter necessitatem abiti e alfieri, esso infatti non ha mutato la radice dell’impostazione ideologica di fondo, come dimostra più di tutti quella stessa «ermeneutica della rottura» che, finanche in ambito ecclesiale, interpretando in un certo modo il Concilio Vaticano II, tenta oggi culturalmente un nuova transizione verso una postmodernità che sia finalmente libera da ogni impalcatura teologica ed ecclesiastica, de-teologizzando di fatto la storia del mondo per de-cristianizzare tout-court, seppur gradualmente, l’esperienza umana.
Su questo ultimo aspetto, in particolare, si sono soffermati gli interventi di Maurizio Serio, ricercatore presso l’Università Federico II di Napoli e Claudio Anselmo, docente all’università di Bergamo, che hanno trattato dettagliatamente la «questione dell’ermeneutica conciliare», adottando due prospettive autorevoli e al contempo assai critiche nei confronti di quella che è stata definita la «scuola di Bologna», la cui posizione teorica è rappresentata esemplarmente dai quattro volumi della Storia del Concilio Vaticano II diretta da Giuseppe Alberigo (1926-2007).
Nel suo intervento — Il rinnovamento della Chiesa: Karol Wojtyła e l’ermeneutica del Concilio Vaticano II — Serio ha presentato uno studio del 1972 dell’allora cardinale di Cracovia sull’attuazione del Concilio dal titolo Alle fonti del rinnovamento, dove il futuro pontefice parla significativamente di «un’ermeneutica del rinnovamento nella continuità», di un rinnovamento cioè che vede come criterio organizzatore di una corretta ermeneutica la continuità dell’esperienza ecclesiale e sottolinea l’unicità del soggetto-Chiesa, mettendo altresì in guardia da eventuali riduzioni sociologiche o storico-ideologiche di tipo personale e/o personalistico. È quanto ha sottolineato anche recentemente, in perfetta continuità con il suo predecessore, Benedetto XVI, da ultimo nel discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005. La verità dell’interpretazione, in altre parole, è garantita sempre dall’interazione feconda fra tradizione e Magistero, non da altro, e meno che mai da prospettive «evenemenziali» — dal francese évenementiel, cioè che privilegia la ricostruzione dei fatti sulle letture — che mirino a contrapporre lo spirito alla lettera ricercando un misterioso significato recondito sotteso ai documenti dei padri conciliari. La cattedra di Pietro assicura poi le coordinate certe — il principio d’integrazione delle verità della fede e il principio di identità della Chiesa — che devono servire anche quale ausilio imprescindibile per orientare il dialogo ecumenico. Esso è e resta fondamentale per la Chiesa tutta, ma certamente non s’inventa, né si crea dal nulla, riposando per definizione su un cammino passato che rilegge sé stesso sempre alla luce della verità della Rivelazione. Il saggio di Papa Wojtyła, dotato di apparato critico, sarà a breve pubblicato da Rubbettino con prefazione del cardinale Camillo Ruini.
Claudio Anselmo si è invece soffermato sulla lettura che del Concilio Vaticano II ha dato, raccogliendo l’esegesi magisteriale degli ultimi Papi, mons. Agostino Marchetto, arcivescovo e attuale segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti nel suo studio Il Concilio Vaticano II. Contrappunto per la sua storia, pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana nel 2005. Si tratta, a suo dire, di un lavoro importante, forse l’unico che da un pulpito autorevole ha cercato di contrastare una certa visione storiografica egemone, benché ideologica, del Concilio, gettando propositivamente le basi per una lettura dell’evento che fosse fedele ai testi e alle intenzioni dei padri conciliari. Marchetto cerca così una chiave d’interpretazione che metta in luce l’avvenimento per quello che esso realmente è stato, un grande evento «cattolico», nel senso letterale di «universale», che fonde nova et vetera: non segna quindi un «nuovo inizio» di una storia, ma si innesta all’interno di un percorso precedentemente tracciato di cui segna una tappa, importante certamente, ma pur sempre una tappa che segue delle altre e contestualmente a queste altre va letta ed esaminata. Più in generale il lavoro di mons. Marchetto vuol essere anche un contributo di natura metodologica utile per la ricostruzione di una qualificata storiografia cattolica dopo le crisi del passato, che significativamente avevano trovato nelle impostazioni d’insieme astrattamente intellettualistiche dell’umanesimo e dell’illuminismo gli agenti di lacerazione ideologica in assoluto più aggressivi.
In epoca moderna bisognerà attendere l’iniziativa di un Papa come Leone XIII (1878-1903) perché la storiografia cattolica riprenda nuovo slancio. Nella Lettera apostolica sugli studi Saepenumero considerantes (1883) —disponibile nell’archivio del nostro sito — il Romano Pontefice, sfidando i luoghi comuni costruiti dalla vulgata laicistica, scriveva infatti che «la storia, studiata nelle sue vere fonti con animo sgombro di passioni e di pregiudizi, riesce spontaneamente per se stessa la più splendida apologia della Chiesa e del Papato». Papa Leone sottolineava in tal modo sia la scientificità che deve qualificare la storiografia ecclesiastica, sia la consapevolezza che uno storico della Chiesa dovrebbe sempre aver presente, di avere a che fare con una realtà trascendente, quantomeno sui generis: elemento fondamentale, imprescindibile per un’autentica storia della Chiesa eppur troppo spesso dimenticato o messo fra parentesi negli studi, anche accademici, come se il solo fatto che un’istituzione vanti un’origine di natura ultraterrena costituisca automaticamente una ipotesi di lavoro inaccettabile per la ricerca da parte di una sana storiografia laica, tale da non poter neanche essere presa in considerazione. Così anche la storia della Chiesa subirà nel corso dei secoli deformazioni, travisamenti e ideologizzazioni che contribuiranno poi, talvolta in modo evidente, a generare, anche all’interno della comunità ecclesiale, una lettura del fenomeno «Chiesa» intrinsecamente pre-giudiziale, con effetti tangibili fino ai giorni nostri. Uno dei primi contraccolpi in questo senso fu l’affermazione della rivoluzione culturale dell’umanesimo sopra ricordata. Eppure la storiografia cristiana in auge fino ad allora non era stata certo inutile: essa aveva cercato anzi di dare una spiegazione razionale agli avvenimenti e di indagare il reale nell’ottica di un’intenzione pedagogica, fedele alla natura etica intrinseca all’essere umano. In questo senso la prima storiografia cristiana — ha osservato Paolo Siniscalco dell’Università La Sapienza di Roma — «[…] ha gettato le basi dove la parte teorica è fondamentale», ha fondato cioè «di fatto» quella che oggi chiamiamo l’officina del lavoro dello storico, per cui si può affermare senza tema di smentita che «ancora ai nostri giorni, tutto sommato gli siamo debitori».
Questo aspetto «fondazionale», fra l’altro, spiega anche come mai perché proprio il cristianesimo e l’ambiente culturale cristiano in generale siano stati nel corso del tempo così fecondi di storici e di interesse per la storia. La storia era ed è, concretamente, la sede della rivelazione di Dio, il luogo in cui Dio incontra l’uomo e lo rende partecipe del suo piano d’amore. Si comprende allora perché, per esempio, i Vangeli indichino con scrupolosa cura punti di riferimento cronologicamente precisi in rapporto agli eventi narrati. Non è quindi un caso che lo strumento espressivo di cui si avvalgono gli evangelisti sia quello della narratiohistorica, definita dai retori antichi gestaereiexpositio. Una narrazione cioè che si avvale di testimoni, più esattamente «persone presenti ai fatti» — «autoptai», è infatti l’espressione greca presente nel prologo del Vangelo di Luca (cfr. Lc 1, 1-4) —, perché vuole confortare il lettore sulla veridicità storica degli eventi narrati, dal momento che proprio e principalmente su di essa si fonda l’assoluta novità del messaggio cristiano. Ecco che la storia diventa quindi, provvidenzialmente, teofania: attraverso di essa si manifestano infatti le «meraviglie di Dio», quelle mirabiliaDei di cui parlano con genuino entusiasmo gli scritti dei primi storici di ambiente romano che abbracciano la nuova fede proveniente dalla Palestina.
Si comprende così anche perché, dopo i Vangeli, diverse e numerose saranno le forme e i generi in cui la storiografia cristiana si diffonderà: l’elenco va dall’Historia eccleasiastica di Eusebio di Cesarea (265-340 ca.) al De viris illustribus di san Gerolamo (347 ca.- 419) passando per gli scritti di san Teofilo di Antiochia (120-185 ca.), Giulio Sesto Africano (160-240 ca.), Sulpicio Severo (360 ca.-420 ca.), san Prospero di Aquitania (390 ca.-463 ca.), Idazio (400-469 ca.), Marcellino Comes (490-534 ca.), Cassiodoro (490 ca.-583 ca.), san Gregorio di Tours (538 ca.-594 ca.), sant’Isidoro di Siviglia (550-636 ca.) fino a Beda il Venerabile (672-735 ca.) o, in ambiente greco, Esichio di Mileto (550-600 ca.), Giovanni di Antiochia (590 ca.-648 ca.) e Giovanni Malalas (491 ca.-578), solo per fare alcuni nomi: ma l’elenco potrebbe continuare, si pensi solo al capitolo ricco e vario dell’agiografia…
Fare scientificamente storia della Chiesa, con un accostamento, cioè, il più possibile sgombro da pre-giudizi e da luoghi comuni, significa allora realmente fare storia di una civiltà e oggi più che mai, in un contesto di confronto fra civiltà e di necessario ricupero di una comune memoria storica, essa assume una significativa attualità. Non a caso sul valore della storia della Chiesa per l’umanità di oggi e più in particolare per quella missioadgentes che è il fulcro della nuova evangelizzazione è tornato, quasi a volerne sottolineare l’urgenza improcrastinabile, Benedetto XVI nelle sue catechesi settimanali sui Padri della Chiesa. Parlando di un grande storico, Eusebio di Cesarea, e rivolgendosi a un vasto pubblico, di studiosi e non, il Pontefice ha infatti significativamente sottolineato che la sua figura di storico «[…] interpella vivacemente i credenti di ogni tempo riguardo al loro modo di accostarsi alle vicende della storia, e della Chiesa in particolare. Egli interpella anche noi: qual è il nostro atteggiamento nei confronti delle vicende della Chiesa? È l’atteggiamento di chi se ne interessa per una semplice curiosità, magari andando in cerca del sensazionale e dello scandalistico a ogni costo? Oppure è l’atteggiamento pieno d’amore, e aperto al mistero, di chi sa —per fede — di poter rintracciare nella storia della Chiesa i segni dell’amore di Dio e le grandi opere della salvezza da lui compiute? Se questo è il nostro atteggiamento, non possiamo non sentirci stimolati a una risposta più coerente e generosa, a una testimonianza più cristiana di vita, per lasciare i segni dell’amore di Dio anche alle future generazioni».
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