[Relazione tenuta al convegno di studi La nascita
dello Stato italiano, in occasione del 145° anniversario della proclamazione
del Regno d’Italia, organizzato dalla Associazione Europea Scuola e
Professionalità Insegnante (Aespi) di Milano, il 17 marzo 2006 a Palazzo Valentini di Roma, con il patrocinio della Regione Lazio, della Provincia di Roma e
della Fondazione Ugo Spirito di Roma]
1. Rivoluzione
francese e Risorgimento
C
he l’Italia possa finalmente condividere una memoria
comune è auspicio risalente nel tempo, purtroppo ben lontano dal realizzarsi,
come dimostrano non solo le accese contrapposizioni cui ancora si assiste sui
temi del fascismo e dell’antifascismo, ma anche quelle che si scatenano non
appena si tocchi in maniera non conforme alla vulgata ufficiale una di
quelle pagine di storia che, a distanza di quasi un secolo e mezzo, i «vincitori»
pensavano ormai di aver archiviato, in quanto definitivamente imposta — tramite
un uso propagandistico della memorialistica e la reiterazione di racconti di
comodo in migliaia di pubblicazioni e manuali scolastici — ai «vinti».
Mi riferisco ovviamente a quello che, per comodità
terminologica, chiamerò il «Risorgimento» ma che, più propriamente, andrebbe denominato
«Rivoluzione italiana», vale a dire la versione nostrana ottocentesca della
sovversione dell’ancien régime, avvenuta in conformità «principi del
1789», affermatisi manu militari nella Francia rivoluzionaria.
Con la Rivoluzione francese termini come «nazione», «nazionalità» e «nazionalismo» si affermano nel
pensiero politico con il significato — pur sempre fluttuante e ambiguo — in cui
se ne discorre oggi e agiscono sempre più incisivamente come idee-forza,
cariche di implicazioni teoriche e pratiche: «Il termine “nazione”, fino ad
allora di uso generico, perché riferito alle più diverse realtà di gruppo e a
qualunque forma di comunità politica, trova un preciso punto di riferimento
nello Stato nazionale, lo Stato che si avvale del suo potere per imporre su
tutti i territori posti sotto la sua amministrazione l’uniformità di lingua e
di costumi, per imporre, e in parte produrre, l’unità nazionale […].
La nascita dello Stato moderno, burocratico e accentrato; l’esigenza di
sostenere con una struttura giuridico-politica la formazione dei mercati unici
nazionali, perseguita da élite economiche e sociali che in condizioni
non unitarie avrebbero stentato a emergere; l’irruzione di nuove ideologie, che
postulavano la necessità della fusione dello Stato con la nazione, creano una
combinazione esplosiva, che distrugge all’interno dei singoli Stati le
nazionalità spontanee — solo parzialmente nella realtà ma del tutto
nella coscienza politica — e altera i rapporti fra gli Stati stessi,
subordinando ai valori nazionali i valori universali della res publica
christiana, cioè quella sorta di supernazionalità spontanea che legava le
persone oltre le frontiere statali» .
2. «Triennio
giacobino» e Insorgenza italiana
Volendo impostare comunque un discorso in termini
moderni» sulla nazionalità italiana, occorre dire che fin dal Triennio Giacobino
1796-1799, che vide l’invasione e l’occupazione di numerose regioni dell’Italia
da parte delle truppe napoleoniche al servizio della Rivoluzione francese, le insorgenze
popolari — o, più correttamente l’«Insorgenza», poiché si trattò di un fenomeno
omogeneo e «unitario» — segnarono la prima manifestazione di un idem sentire
degl’italiani. Essi reagirono allora in armi a tale invasione, dando origine a qualcosa
di molto vicino a una guerra civile e il fatto che gli insorti parteggiassero
per la difesa della loro bi-millenaria identità religiosa e a sostegno del Papa
e delle autorità legittime, non vuol dire che fossero meno italiani dei
successivi artefici dei vari moti e spedizioni patriottiche, i quali, non
fondandosi sulla «nazionalità spontanea» — ovvero su un senso di appartenenza nazionale
creatosi «dal basso» — e non in virtù di un agente esterno, come una monarchia,
non potevano certo fondare «naturalmente» alcuna forma di unità fra gli italiani.
3. Il
«piccolo regno di second’ordine» di Dostoevskij
La parola
«unità» ha infatti in sé un qualcosa che smussa le differenze: si è uniti
quando si trova un obiettivo comune che fa vincere il naturale — cioè
prodottosi storicamente — e legittimo particolarismo. L’unità d’Italia ebbe,
come dice la parola, l’obiettivo comune di formare una entità che legasse insieme
le diverse anime e componenti politiche della «nazione» italiana. A questa
unificazione del Paese nel secolo XIX si giunse però in modo tutt’altro che
«naturale» e l’imposizione di un «abito politico» rivelatosi inadeguato causò
al corpo sociale dell’Italia i gravi disagi di cui soffre tuttora e disperse
una parte rilevante delle inestimabili ricchezze culturali della nazione. Noterà
lo scrittore russo Fëdor Michajlovic’ Dostoevskij (1821-1881) che «[...]
per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire
il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di
gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto
della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella
romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due
millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea
universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La
scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale.
Ammettiamo pure che questa idea mondiale, alla fine, si era logorata, stremata
ed esaurita (ma è stato proprio così?) ma che cosa è venuto al suo posto, per
che cosa possiamo congratularci con l’Italia, che cosa ha ottenuto di meglio
dopo la diplomazia del conte di Cavour? È sorto un piccolo regno di second’ordine,
che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, [...] un regno
soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità
meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale di una volta) e per di
più pieno di debiti non pagati e soprattutto soddisfatto del suo essere un
regno di second’ordine. Ecco quel che ne è derivato, ecco la creazione del
conte di Cavour!» .
4. Necessità di una nuova analisi del Risorgimento
che non delegittimi lo Stato unitario
Quello che, con poche eccezioni, ci è stato tramandato
come il mito fondante della nazione italiana, cioè l’unificazione della
Penisola sotto la dinastia dei Savoia, ci è stato così abbondantemente descritto
come impresa gloriosa che nessuno doveva osare mettere in discussione, che al
Risorgimento hanno voluto ispirarsi sia i partigiani del 1943-1945 — che con i
loro drappi rossi rivendicavano una continuità ideale con i garibaldini —, sia
le forze armate della Repubblica Sociale Italiana, che usarono l’inno di Goffredo
Mameli (1827-1849) e tutta l’iconografia risorgimentale per incitare la
popolazione a resistere contro l’invasore straniero.
Da
qualche anno, però, gli studi sulla storia del processo unitario italiano hanno
avuto una vera rinascita di interesse e alcuni storici, soprattutto cattolici,
ma non solo — penso per esempio a Ernesto Galli della Loggia o a Emilio Gentile
—, hanno iniziato a riscuotere una consistente eco nel dibattito culturale
italiano rimettendo in discussione con i loro studi e interpretazioni la vulgata
risorgimentalista. Dall’attuale rinascita storiografica è scaturita quindi una
rivisitazione intelligente e veritiera dell’intero quarantennio risorgimentale
(1830-1870) e delle sue conseguenze — in pratica dell’intera storia italiana
degli ultimi due secoli.
Si è
quindi finalmente aperto uno spiraglio per una storiografia che vuole prendere
in seria considerazione anche il punto di vista dei vinti, in primo luogo
quello della Santa Sede e della parte cattolica del Paese, che hanno subìto
profondi contraccolpi dall’unità d’Italia, cui è seguito da parte dei nuovi
arrivati al potere una delegittimazione culturale e civile di cui ancora oggi
si paga lo scotto.
Di
recente Galli della Loggia ha riconosciuto come «[…] doveroso riaprire
una nuova analisi del Risorgimento a condizione però che non si delegittimi lo
Stato unitario» .
In verità le critiche che al processo unitario italiano sono state avanzate
negli ultimi anni da parte della maggior parte degli storici, cattolici e non,
non sono affatto finalizzate a delegittimare l’odierno Stato italiano, che, al
di là delle preferenze politiche, anche di quelle relative alla forma dello Stato,
oggi nessuno di essi pensa di mettere in discussione, altrimenti si dovrebbe
parlare di una storiografia con finalità propriamente politica e, in un certo
senso, eversiva. Altro discorso è però l’essere ideologicamente tacciati di
lesa maestà istituzionale se, documenti alla mano, si descrive come, dopo il
1861, i Savoia e i governi auto-proclamatisi liberali hanno dato vita a uno Stato
semi-tirannico, che ha governato nel più assoluto spregio dei dettami dello Statuto
albertino
e, aiutati da gruppi protestanti e massonici, hanno cercato d’imporre anche in
Italia le stesse forme religiose e civili derivate dalla Riforma, innanzitutto attraverso
la soppressione degli ordini religiosi e delle organizzazioni assistenziali
cattoliche, le benemerite opere pie.
5. L’Italia
era solo «un’espressione geografica»?
A esser
rimesse in discussione sono in primo luogo le trovate propagandistiche dei
risorgimentali che, ideate in tempo di guerra, ci sono state fino a oggi
acriticamente tramandate, non solo come verità, ma come parole d’ordine e
vessilli dell’identità nazionale. Prendiamo per esempio la demonizzazione che è
stata fatta dell’Impero asburgico e, funzionalmente alla preparazione dei moti
in Italia settentrionale del 1848, del principe Klemens Wenzel Lothar von
Metternich Winneburg (1773-1859). «L’Italia è solo un’espressione geografica»,
avrebbe spregiativamente detto l’odioso Metternich a proposito delle istanze
nazionali unitarie avanzate dai risorgimentali. Grazie a uno studio di un
diplomatico italiano, Fausto Brunetti ,
viene finalmente documentato che la celebre frase non rappresenta altro che un
apocrifo. Non fu pronunciata infatti da Metternich o, se lo fu, non fu espressa
in quei termini sprezzanti che fecero infuriare generazioni di patrioti. L’espressione,
piuttosto, secondo il diplomatico, fu il prodotto di una manipolazione operata,
per la causa patriottica, dalla stampa liberale italiana del 1848, dunque un’operazione
di propaganda mirata a suscitare una reazione anti-austriaca. Il Cancelliere
asburgico scrisse il celebre aforisma in francese il 2 agosto 1847, in una nota inviata al conte Moritz Dietrichstein-Proskau-Leslie (1775-1854), in questi esatti termini:
«L’Italia è un nome geografico». Non solo quindi mancava ogni accento spregiativo
— introdotto dall’avverbio limitativo «solo» —, ma il giudizio continuava in
senso meramente politologico: «La penisola italica è composta di Stati
sovrani, reciprocamente indipendenti». Il giudizio di Metternich — il quale,
nel medesimo dispaccio del 1847, aveva applicato un identico appellativo «geografico»
anche alla realtà tedesca — venne abilmente sfruttato dal quotidiano Il
Nazionale di Napoli, diretto dal liberale Silvio Spaventa (1822-1893) — un
anno dopo esser stato formulato, e cioè nel calore dei moti del 1848, i quali nell’Italia
settentrionale saranno repressi appunto — guarda caso — dalle truppe del Cancelliere
austriaco. A più riprese in quel marzo e in prima pagina, infatti, il giornale —
che peraltro il 10 marzo aveva dato la traduzione corretta del dispaccio
asburgico, ma in lettere piccole e in pagina interna — scagliò i suoi
editoriali contro la «tenebrosa diplomazia» austriaca, colpevole di
umiliare «24 milioni d’intelligenti e forti» italiani che invece l’unità
della patria «[…] l’avvertono, la riconoscono, se n’esaltano»: «L’Italia
non è che un’espressione geografica, scriveva il Principe di Metternich».
C’era
bisogno dunque di un «nemico», all’epoca, di un bersaglio contro cui
indirizzare e grazie al quale moltiplicare l’indignazione montante dei patrioti
contro l’influenza in Italia e il rigore in Lombardia del governo austriaco; e
i giornali liberali italiani l’ottennero replicando all’infinito l’«offesa» e
la presunta alterigia del Cancelliere viennese.
6. L’istituzionalizzazione
della Rivoluzione italiana e Pio IX
La nuova storiografia
— o storiografia «anti-conformista», come preferisco dire in antitesi all’ambigua
dizione di «revisionista» —, come accennato, è prevalentemente originata
da studiosi cattolici, liberatisi dalla subalternità culturale che è stato un
fenomeno prevalente durante tutta la cosiddetta Prima Repubblica. Se il
pensiero cattolico ha infatti avuto nel Novecento alte espressioni nel campo
teologico o in quello degli studi filosofici, esso è stato piuttosto debole nel
settore storiografico. La storiografia cattolica, a partire almeno dal Concordato
del 1929, si rivela infatti quasi del tutto subordinata ideologicamente alla
cultura dominante, fosse essa quella fascista o quella gramscista e azionista del
dopoguerra. A questo proposito è emblematico l’atteggiamento tenuto nei
confronti di Papa Pio IX — Giovanni Maria Mastai Ferretti (1792; 1846-1878) —,
un Papa il cui pontificato ha coperto un arco di trent’anni, cioè tutto il Risorgimento,
e la cui figura è stata via via rimossa dalla memoria storica, come se fosse la
pietra d’inciampo che i cattolici volevano a tutti costi evitare. La figura del
beato papa Mastai, rimossa dalla cultura dominante per permettere l’istituzionalizzazione
di quel Risorgimento che è stato in realtà, in analogia con l’Ottantanove
francese, la Rivoluzione italiana, è oggi però al centro di un rinnovato
interesse di studi che costituisce la base per la rinascita della storiografia
cattolica del secolo XXI.
7. L’Unità
italiana e la storia amministrativa
In questa
sede, tenterò d’integrare la nuova prospettiva storiografica sul Risorgimento,
con uno spostamento di attenzione sempre più diretta ai pubblici poteri e alla
pubblica amministrazione, come fenomeno organizzativo della vita dello Stato e
della società italiani. In sostanza, accanto alla consueta indagine storica
incentrata sulle prospettive e sull’azione politico-sociale dei governanti e di
parte dei governati, cercherò di svolgere un’analisi che, sulla scorta della lezione
di Gianfranco Miglio (1918-2001) e di Roberto Ruffilli (1937-1988), prenda in
considerazione la realtà amministrativa per chiarire in maniera il più
possibile oggettiva molti aspetti della prima. Insomma, secondo l’approccio di
Ruffilli, «[…] un’indagine storico-giuridica che porti l’attenzione
sui rapporti formali e sostanziali fra pubblica amministrazione e privato,
assumendo dati politico-ideologici ed economico-sociali e politici per far luce
su talune implicazioni dei rapporti anzidetti» e, quindi, «[…]
approfondisca i diversi aspetti della realtà amministrativa sulla base delle
reciproche connessioni tra questa e l’assetto della società e dello Stato».
8. La differenza fra unità e unificazione
Vorrei
quindi far luce sul «come» e sul «perché» con determinati problemi
sociali e istituzionali sia stato possibile convivere e andare avanti in quasi
un secolo e mezzo di vita nazionale unitaria.
Quanto al
come, attraverso la ricostruzione dei connotati amministrativo-istituzionali
dell’unità, diviene evidente la scelta netta di nascondere i problemi dell’unificazione
reale dietro il paravento dell’unità istituzionale, senza riguardo alle
difficoltà gravi che si manifestarono, con la spregiudicatezza gestionale e le
tappe forzate che caratterizzarono il passaggio dall’assetto pre-unitario a
quello unitario.
Quanto al
perché, la tesi che svolgerò è riassumibile nella connotazione
ideologica e «anti-identitaria» del progetto unitario e nella sua sostanziale
subalternità a interessi estranei al nostro Paese.
In ciò
facendo cercherò di evidenziare la profonda differenza fra unità —
realizzata — e unificazione — solo promessa — dell’Italia. Con la prima
espressione indicando la qualità di uno Stato non diviso da confini politici
interni e di un popolo che forma un tutt’uno dal punto di vista delle sue
istituzioni, con la seconda esprimendo «[…] l’effetto che determina,
nelle persone di cui lo Stato si compone, la concordia nelle idee e nei sentimenti
essenziali alla vita dello stesso Stato. Una concordia che riguarda
l’opportunità della coesistenza e non necessariamente delle opzioni operative
sui diversi problemi della società organizzata».
Se si è
costretti a constatare la persistenza nel nostro paese di problemi che, dopo il
Risorgimento e con gli stessi identici connotati, denunciano come l’Italia sia unita
ma non unificata, ciò significa «[…] che sono ancora e
largamente da capire l’essenza autentica delle origini e dei connotati delle
evidenti insufficienze ed inadeguatezze dell’“azione e degli effetti” di una
unità esistente da […] un secolo e mezzo sul piano istituzionale (non ci
sono più confini interni e la popolazione forma un unico corpo politico) ma
irrealizzata sul piano della proficua coesistenza delle persone di cui lo Stato
si compone».
Per
trattare in maniera completa il tema, prima di concludere, occorre evidenziare anche
alcune delle «luci» portate dall’unità del 1861 che, nonostante tutto, appaiono
oggi di tutto rilievo, tanto più se confrontate con il nostro attuale panorama
politico-istituzionale.
9. Federalismo
e confederalismo: strade alternative per l’unità
Per
quanto concerne le modalità dell’unità — vale a dire le istituzioni
degli italiani —, è utile chiedersi il perché il processo unitario italiano,
pur essendo, come è noto, stato iniziato da prospettive federalistiche e confederalistiche,
il Risorgimento si sia, alla fine, realizzato nel suo esatto contrario, cioè nel
centralismo e in forme di «statolatria», che abbiamo conosciuto e ancora oggi,
in parte, conosciamo.
Fu, fra
gli altri, Antonio Rosmini Serbati (1797-1855), dall’alto della sua statura
intellettuale, a teorizzare verso la metà del secolo XIX l’unione politica dei
diversi Stati della Penisola, ma in forma tale che ciascuno avrebbe mantenuto
la propria sovranità. Una sorta di Unione Italiana che sarebbe forse
assomigliata alla novecentesca Unione Europea, almeno come la si è
concepita fino agli anni 1980, e non quindi come quel «super-Stato» voluto poi
dai socialisti e gli «eurocrati» di Bruxelles.
Secondo
il filosofo roveretano, il massimo bisogno dell’Italia era quello di essere
forte nel suo tutto e nelle sue parti, poiché altrimenti non
avrebbe potuto essere una e indipendente. Nell’Italia unita federale, secondo Rosmini,
tutto doveva essere funzionale allo sviluppo della persona e della famiglia,
che venivano prima della stessa società generale e naturalmente dello Stato, in
un intreccio di competenze basato sul principio di sussidiarietà. L’esatto
opposto della concezione che si era imposta, invece, nella Rivoluzione
francese, secondo la quale i diritti della persona venivano assorbiti da quelli
del «cittadino», che era visto in funzione dello Stato.
E quando
non si poterono non vedere le conseguenze della mancata unificazione dei
popoli italiani, si accreditò, non di rado in mala fede, la tesi secondo cui ciò
sarebbe stato effetto di una sorta di tara genetica di una parte cospicua della
popolazione, piuttosto che la conseguenza di un disegno insufficiente e inadatto.
Questa lettura ufficiale ha prodotto, anzitutto, l’effetto culturale e sociale
di dar per scontato che quanto ha effettivamente determinato la nascita e il
consolidamento dello Stato unitario italiano fosse, in sostanza, l’unica causa
possibile e la strada per giungervi l’unica percorribile. L’unica alternativa
sarebbe stata simpliciter quella di non fare l’Italia. Tuttavia questa
versione non sembra reggere neppure a una verifica storica elementare. Basti
pensare al processo di unione che portò nel 1870, quasi in contemporanea con
gli eventi italiani, alla nascita di un altro grande Stato europeo, la Germania.
10. L’esempio della contemporanea unificazione
tedesca guidata dal Regno di Prussia
Da secoli
la nazione germanica era frantumata in una miriade di Stati sovrani — numerosi
anche dopo gli accorpamenti napoleonici —, coinvolti nei giochi delle potenze
europee non meno di quelli italiani e con situazioni economiche, sociali e
politiche non dissimili da quelle della nostra Penisola. Anche in Germania ci
fu bisogno di un regno, quello prussiano, dotato di volontà di dominio e di guida
degli altri popoli germanici per fare l’unità. Ma, a differenza del regno
sardo, la Prussia capì che l’unità della Germania — sia pure sotto la sua guida
— si poteva raggiungere solo con i tedeschi e non contro una
buona parte di essi. E, dopo averli portati al successo e al riscatto nella
guerra d’indipendenza contro Napoleone, i prussiani non cercarono di approfittare
del credito che si erano guadagnati e non avanzarono pretese, ma si servirono
di quel prestigio per avviare un percorso, lungo e faticoso, diretto a convincere
i tedeschi della necessità di uno Stato unito, cominciando dall’adozione da uno
strumento di carattere economico, l’Associazione Doganale Tedesca (Deutscher Zollverein), una forma di «mercato comune» tedesco, che rendeva immediatamente
percettibili i vantaggi dell’unità statale, cominciando dalla semplificazione
del sistema delle dogane che intercorreva fra le diverse aree dinastiche, comunali
e regionali dell’area tedesca. Come scrive Alfredo Servidio, «i duri e
militaristi prussiani promossero persino quel primo nucleo di unione statale “senza”
ricorrere ad imposizione alcuna, e tanto meno “per decreto”, ma scelsero ed
adoperarono il metodo della delicata e tenace “trattativa” finanche con quegli
Stati che “non” vollero partecipare allo stesso Zollverein» .
La Prussia non
aveva, certamente, l’equivalente di uno Stato Pontificio sul proprio territorio,
ma è anche vero che nessuno dei regnanti prussiani — che pure avevano
combattuto duramente e colpito in modo pesante la Chiesa cattolica —, né alcuna istituzione rappresentativa del popolo tedesco, nonostante
comportamenti che più d’uno ha voluto definire «statolatrici», era mai stata
tentata dal dichiarare e sancire per legge che «quella» Chiesa, sul territorio
e per le leggi tedesche, non avesse «né diritto d’esistenza né personalità
giuridica», come sancì fra il 1852 e il 1855 il Parlamento di Torino — e con
un dettato che divenne automaticamente legge di tutto lo Stato italiano dopo
l’Unità —, se non per insindacabile e specifica concessione dello Stato: secondo
Servidio, «l’esempio prussiano dovrebbe, in conclusione, essere più che
sufficiente per comprendere come la pessima nascita e l’ancora peggiore
sviluppo degli eventi unitari italiani non fossero affatto scontati».
11. Le proposte degli «autonomisti liberali» Minghetti
e Jacini
Subito dopo la proclamazione del Regno d’Italia, sono
da annoverare nel filone «autonomistico» le proposte avanzate da Marco
Minghetti (1818-1886), secondo cui, «l’unificazione […] avrebbe
dovuto fornire l’occasione per un incisivo riassetto delle circoscrizioni
amministrative, e per istituire le regioni, come consorzi di province. Di
fronte alla precarietà degli assetti e alle emergenze, prima fra tutte il
cosiddetto brigantaggio, la Camera insabbia. Le questioni più urgenti
sono sistemate dai cosiddetti “decreti d’ottobre” emanati dal nuovo presidente
del Consiglio e ministro dell’Interno Bettino Ricasoli [(1809-1880)] in
senso accentrato, sulla base della legge delega del 9 ottobre [1861]».
Stefano
Jacini (1826-1891) e Minghetti, a differenza degli altri fautori di parte
liberale della decentralizzazione, non si limitavano a prospettare la necessità
di un decentramento amministrativo a favore dei comuni e delle province, che investisse
anche le associazioni e le formazioni funzionali e si traducesse in un
decentramento della burocrazia necessaria per l’amministrazione periferica
statale a tali livelli, ma difesero per anni senza successo una forte opzione a
favore del riconoscimento sostanziale della dimensione amministrativa regionale.
I termini
dell’opposizione governativa a ogni proposta di questo tipo sono esemplificate
nella nota che il ministro dell’Interno Luigi Carlo Farini (1812-1866)
ebbe modo di illustrare all’avvio dei lavori della «Commissione straordinaria e
temporanea per lo studio e la formazione dei progetti di legge», il 13 agosto 1860, in cui appare chiara «[…] l’intenzione del governo di escludere, in sede di definizione delle nuove “circoscrizioni
politiche”, qualunque utilizzazione di “concetti astratti” o di “opere arbitrarie”,
in luogo del ricorso ai confini delle “antiche autonome italiane”. Ma —
l’ammonimento è illuminante — la ricognizione delle suddivisioni effettive, in
quanto esistenti “nelle condizioni naturali e storiche”, non avrebbe dovuto
ridursi ad una supina ricostruzione dei confini delle “vecchie divisioni politiche”»
.
Ecco
perché durante i successivi anni di storia unitaria si evidenzia chiaramente
in Italia — in taluni periodi in maniera particolarmente accesa — una battaglia
contro l’«accentramento politico» e lo statalismo, rimasta peraltro sporadica
nel resto d’Europa. Questa risale e trae alimento dalla contestazione della
stessa unità politica, realizzata nella forma di uno «Stato nuovo», sentito
come il frutto di un colpo di mano di minoranze. La chiusura, difensiva e offensiva
allo stesso tempo, contro il pluralismo politico da parte dei governanti dello Stato
liberale ha reso più complicata e travagliata l’evoluzione di quest’ultimo in
senso sempre più democratico: «Viene messa in discussione — scrive
Ruffilli — la validità della unità stessa e del monopolio giuridico e
politico ad essa collegato, e si punta alla sua revisione, in chiave di
pluralismo, con il ritorno al passato preunitario o con l’avvento di un sistema
federale. Si fa sentire l’esigenza di uno sviluppo della libertà politica per
la “società civile” e le sue formazioni, con il superamento della “separazione”
della stessa rispetto allo “stato politico”, e con la redistribuzione del
potere, in fatto di decisione politica e di ordinamento giuridico, concentrato
in quest’ultimo» .
12. Dopo la fine della dinastia sabauda, con la Rivoluzione europea anche quella dello Stato-amministrazione italiano?
L’unità
si realizzò invece attraverso una serie di annessioni allo Stato egemone in
Italia, cioè al Regno di Sardegna di Vittorio Emanuele II (1820; 1849-1878) e di
Camillo Benso di Cavour (1810-1861). Per una sorta di «nemesi storica», tuttavia,
dopo la fine della monarchia a seguito del referendum istituzionale del
1946 e del successivo esilio della Casa di Savoia, negli ultimi anni, a
rischiare l’annichilimento della propria fisionomia e della propria identità
forgiate proprio dalle scelte successive al 1861, è anche lo «Stato-amministrazione»
italiano. Penso infatti al modo in cui si intende oggi, come accennavo, il
processo di unificazione europea, con la esplicita proclamazione dell’obiettivo
di un assorbimento delle specificità e delle sovranità nazionali e la
costituzione, da parte principalmente della giurisprudenza e della prassi delle
istituzioni dell’Ue, di un nuovo ed esclusivo «diritto amministrativo europeo».
Si prenda
a questo proposito un ennesimo, piccolo ma significativo, esempio: la recente estromissione
dell’italiano dalle lingue di riferimento della Ue. Come si sa, le origini
della nazione italiana, storicamente, risalgono al Medioevo e simbolo
essenziale di ciò è la costruzione di una lingua di cui Dante Alighieri (1265-1321)
e Francesco Petrarca (1304-1374) furono emblematici artefici. C’è chi ha
giustamente parlato, a proposito della de-ufficializzazione dell’italiano nella
nuova Europa costituzionale, di «[…] un tipico esempio di
colonizzazione, da parte di Francia, Germania e Inghilterra nel nome dell’unità
europea, del nostro Paese che — pur con le ovvie distinzioni — sembra ricordare
il Meridione d’Italia nell’epoca dell’unificazione risorgimentale».
L’idea di
un’Europa amministrativamente unita, che incorpori centralisticamente le sovranità
e le identità nazionali e locali, è un rischio e una pericolosa utopia, la quale,
se diventasse realtà, ratificherebbe un inevitabile squilibrio. Scrive il
filosofo dell’estetica Stefano Zecchi, «[…] la sottomissione di
alcune nazioni a quelle che, più delle altre, hanno già saputo esprimere e,
continuano a sostenere, la propria autonomia, la propria soggettività politica,
e identità nazionale. Il rischio per l’Italia è di finire come il suo Meridione
quando fu integrato dai piemontesi: centocinquant’anni fa i Savoia imposero i
propri interessi sugli altri Stati italiani; oggi i francesi e i tedeschi ci
imporrebbero i loro».
Anche
l’identità cristiana del Vecchio Continente, come hanno dimostrato le recenti
vicende del mancato riconoscimento delle radici cristiane nella bozza di Trattato
costituzionale europeo, ha tutto da perdere da questa rinnovata forma di Rivoluzione,
non più «italiana», ma questa volta «europea» .
13. Il modello amministrativo dei risorgimentali,
derivato da quello rivoluzionario francese
La
mancata corrispondenza fra l’inizio e la fine del processo risorgimentale si
spiega con le ambizioni territoriali ed economiche del Piemonte sabaudo, che conquistò
e occupò militarmente tutte le altre entità sovrane allora presenti nella
Penisola, esportando in esse il proprio modello amministrativo, derivato da
quello francese, fortemente accentratore e statalistico. Ho parlato di
ambizioni anche «economiche», perché la situazione finanziaria dello Stato sardo,
dati gli investimenti necessari per far fronte ai tanti lavori pubblici
cavouriani, era deficitaria. Nel 1859 il debito pubblico sardo era salito
a circa 725 milioni di lire (di allora) e gli interessi passivi su quella somma
furono pagati dall’Italia unificata, mentre le opere pubbliche erano
rimaste in Piemonte…
Quanto
all’imitazione del modello francese, Alessandro Taradel ha dimostrato che i provvedimenti
presi da Cavour in qualità di ministro delle Finanze fossero letteralmente
copiati da una serie di decreti emanati da Re Leopoldo I dei Belgi (1790;
1831-1865) il 21 novembre 1846, a loro volta ispirati dall’assetto napoleonico —
poi progressivamente diluito in Francia — del 1809 .
Si applicava quindi all’Italia un «abito politico», che cozzava duramente con
la natura degli organismi politici preunitari, caratterizzati dalla presenza di
numerose autonomie locali e da giurisdizioni particolari laboriosamente
coordinate. Commenta Francesco Pappalardo: «[…] così […] le
formazioni statali a ogni loro passo dovevano fare i conti con la solida
presenza, più che con la sopravvivenza, di gruppi e di istituti saldamente
radicati nel territorio. Il particolarismo italiano, dunque, non va inteso solo
nel senso geografico e territoriale e neppure soltanto come quel pluralismo di
tradizioni e di culture che ha indotto lo storico Giuseppe Galasso ad affermare
che “[...] la storia della nazione italiana è una storia multinazionale e
policentrica”, ma anche come un dato sociologico, secondo cui la vita
politica e sociale ha il suo fondamento nell’attività di gruppi particolari,
anzitutto la famiglia, intesa in un significato non limitato a quello puramente
biologico».
14. L’autonomismo e le antiche tradizioni
amministrative del Lombardo-Veneto, dei Ducati dell’Emilia e dello Stato Pontificio
La Lombardia
austriaca, per esempio, che occupava un’ampia porzione del Ducato di Milano, nonostante
il radicamento di istituzioni assolutistiche, risultava ancora nel 1800 una «[…]
costellazione di poteri locali a radice cittadina dotati di autonomia politica,
che operano in un rapporto dialettico con gli uffici periferici dello Stato
(ciò che consente loro di mantenere il controllo dei loro territori storici)». I provvedimenti
politico-istituzionali adottati nell’età della Restaurazione — il decreto
imperiale del 7 aprile 1815 e le successive integrazioni e modificazioni —
fecero poi della Lombardia la porzione occidentale del Regno del Lombardo-Veneto,
il quale continuerà a serbare un elevato livello d’indipendenza che esprimerà
tramite la nomina di un proprio governatore o luogotenente generale, come
previsto dal decreto imperiale del 25 ottobre 1849.
Anche il ducato
emiliano di Parma e Piacenza si presentava alla vigilia dell’accentramento
risorgimentale come «[…] espressione di società cittadine
storicamente parcellizzate che si erano fatte Stato in epoca postmedievale,
conservando istituzioni, tradizioni amministrative, ambiti territoriali e civici
fondati nell’età delle libertà comunali» .
Lo Stato Pontificio,
dal canto suo, esce dal Medioevo con la tradizionale divisione nelle cinque Legazioni
— o province —, a loro volta divise in Governi e in Stati, ma «molte delle
città prive del contrassegno di capoluoghi di legazione riescono col tempo a
sganciarsi dalle maglie provinciali e a intrattenere rapporti diretti con Roma,
grazie alla nomina papale dei propri governatori» .
Con Papa Clemente VIII (1592-1605) le province salgono a sei, ma non mancano i «governi
separati» che, in linea di fatto, se non di diritto, sono equiparati alle
province.
Con le
leggi di Urbano Rattazzi (1808-1873) sull’ordinamento comunale e provinciale del
23 ottobre 1859, sulla pubblica sicurezza del 13 novembre 1859, sulle opere
pubbliche, sulle opere pie e sull’amministrazione sanitaria — tutte e tre del 20
novembre 1859 —, si dà luogo invece a «[…] strutture governative
salde ed efficienti, in grado di assicurare al potere centrale il pieno
controllo della vita locale, così da contenere anche le istanze municipalistiche
e federalistiche e consolidare l’Unità» .
Nelle relazioni annesse alle relative proposte di tali leggi il richiamo
costante era ai paesi giudicati più «civili» d’Europa e in particolare alla Francia.
15. L’«annessione»
sabauda e la nobiltà degli Stati preunitari
L’unità d’Italia
attuata dai Savoia, per motivi di ambizione dinastica e non solo per amor
patrio, è stata quindi frutto dell’occupazione e dell’annessione al Piemonte
delle altre entità politiche italiane. I diversi Stati che si dividevano il
territorio italiano furono messi insieme senza troppa cura per le differenze
che pure c’erano, creando un’omogeneizzazione artificiosa, che sarà
rifiutata dal popolo stesso, senza curarsi che vi fossero alle spalle una
solidarietà e una coscienza nazionali.
Ciò si
ripercosse sulla stessa solidità della monarchia sabauda che, «insidiata» nelle
proprie prerogative di rappresentanza politica da Cavour e dai suoi alleati,
non poté avere al suo fianco le nobiltà degli Stati preunitari che, umiliate
dai soprusi dei borghesi «nuovi arrivati», non intesero naturalmente fondersi
in una nuova nobiltà italiana fedele alla Corona sabauda, preferendo rimanere
divise in gruppi regionali e cercando alleanze matrimoniali all’estero piuttosto
che fra i membri della nuova classe dirigente.
Era
diffusa fra i nobili degli Stati preunitari la stessa convinzione che il conte Clemente
Solaro della Margarita (1792-1869) aveva consegnato, ben prima dell’Unità, al
suo Memorandum storico-politico: «Oh Italia! […] Non sarai mai
felice, finché irrequieta aspiri a un meglio che afferrar non puoi, e logori i
tanti beni, i tanti tesori di grandezza di dovizie e d’arti onde ti ha reso
bella, invidiata da tutte le genti Colui che a te affidava il magistero del mondo,
e centro ti faceva dell’orbe cristiano. A scuoterti un’altra volta, gli amatori
tuoi col nome di libertà e d’indipendenza […] ti sping[ono] a
disperate imprese […]. Chiudi l’orecchio alle voci de’ veggenti tuoi;
profetizzano il falso; ritorna al culto della verità e della giustizia. Italia
mia, credi ai veri amici che te non vogliono serva, ma Regina, e i varii popoli
tuoi in bel nodo di concordia uniti sotto l’usbergo dei Principi che ai loro
destini prepose Iddio» [23].
16. I
«plebisciti unitari» del 1859-1860
Si è
discusso a lungo fra la fine del 1800 e l’inizio del 1900, soprattutto a opera
di due capiscuola della dottrina giuridica italiana come Santi Romano
(1875-1947) e Dionisio Anzilotti (1867-1950)
— e in parte lo si è fatto anche successivamente — sulla validità dei «plebisciti
unitari» del 1859, come di quelli che si svolsero nell’ottobre 1860 nell’Italia
meridionale, quale ulteriore espressione di un’autentica e generalmente diffusa
volontà annessionistica.
Una prima
osservazione riguardo tali plebisciti risale alla «curiosa» circostanza per cui,
mentre essi furono realizzati sulla base del suffragio universale maschile e
femminile, in seguito le leggi elettorali e ordinarie del Regno continuarono
impassibilmente — nonostante il progressivo aumento della popolazione interna —
a far perno sull’estremamente selettivo «suffragio censitario».
La
seconda, ovvia, considerazione che può essere svolta sugli stessi è che,
essendo la procedura plebiscitaria attivata da chi deteneva ormai il potere al
fine di trasformare un consenso presunto in un consenso attivo,
essa facilmente non avrebbe potuto avere esito negativo. «Il risultato —
commenta Silvano Montaldo — era quindi in gran parte scontato, dato il diretto
controllo esercitato da Torino e l’assenza di ogni opposizione organizzata, con
la libertà di stampa ripristinata solo qualche giorno prima del voto e
l’impegno delle autorità locali per evitare manifestazioni antiunitarie» .
In
Toscana la Società Nazionale assunse infatti il controllo del Granducato senza
alcuna difficoltà; a Parma il duca lasciò la città in mano a una Commissione
di Governo, che assunse il potere in attesa di cederlo al re di Sardegna. Il
duca di Modena abbandonò il suo Stato dopo la battaglia di Magenta: il
municipio dichiarò deposto il duca fuggitivo e valido il plebiscito di unione
al Piemonte del 1848. Nelle Legazioni pontificie di Romagna, la partenza
da Bologna delle truppe austriache fu seguita da una sollevazione popolare che
offrì la dittatura a Vittorio Emanuele II. La stessa cosa avvenne a Ravenna, a
Forlì e a Ferrara. Anche le Marche e l’Umbria insorsero, ma qui le truppe
pontificie reagirono, recuperando le due regioni. In Toscana furono fatte le
elezioni nell’agosto 1859 e la nuova Camera dichiarò decaduta la dinastia dei
Lorena, votando l’annessione al Piemonte. La stessa cosa fecero i Ducati padani
e le Legazioni di Romagna. Vittorio Emanuele II accolse a Torino le delegazioni
che offrivano le annessioni votate dai governi provvisori.
Il popolo
siciliano fu chiamato invece il 21 ottobre 1860 a esprimere, ex post, il suo voto, dato che, una settimana prima che si tenesse il
plebiscito, il 15 ottobre, il dittatore Giuseppe Garibaldi (1807-1882)
stabiliva, con proprio decreto, che le Due Sicilie facevano parte integrante
dell’Italia .
17. La formazione dello Stato italiano nei
documenti e non nella storiografia convenzionale
La
necessità di uno studio documentale, accessibile ai più, diretto a rileggere i
documenti dell’epoca con gli occhiali del giurista, è stata recentemente
soddisfatta da un’opera, che ha comportato un paziente lavoro di parecchi anni,
uscita nella collana Il diritto della civiltà internazionale diretta da
Alberto Miele (1939-2003) dell’Università di Padova. Nel curarne la presentazione,
il compianto internazionalista afferma «oggettivamente» esser ormai «[…]
certo, sotto il profilo del diritto internazionale, che l’unificazione italiana
fosse alla fine solo un’annessione al Piemonte: esattamente come la volle il
Cavour, che ne diresse — passo per passo, decreto per decreto, congiura per
congiura — ogni momento; amministrando il Risorgimento italiano come un affare
interno al Regno di Sardegna […] ancora una volta la tesi —
dommaticamente affermata dal Romano — prevale, questa volta documentalmente,
sulla tesi sostenuta da Anzilotti».
18. Le
ingerenze britanniche nell’unità d’Italia
Ho finora
messo in luce due delle ombre che gravano sull’unità d’Italia, quella del
centralismo comprimente qualsiasi istanza, se non federalistica, almeno regionalistica,
e quella del «peccato originale» — dal punto di vista istituzionale —,
consistente nell’annessionistico e pseudo-plebiscitario primo corso del
processo unitario. È ora il momento di parlare di una terza ombra: le ingerenze
inglesi e gli influssi delle massonerie, specie quelle della City londinese
che, già dalle «prove generali» della Rivoluzione italiana nel 1848, avevano
appoggiato quelle forze che avrebbero potuto facilitare una riforma religiosa
in senso filo-protestante nella Penisola.
Sappiamo
che le massonerie britanniche tradizionalmente non presentano quei caratteri brutalmente
anti-religiosi tipici di quelle dei Paesi latini. Erano però, nel 1800,
strettamente legate al protestantesimo più anti-cattolico, e si distinsero nel
sostenere direttamente e propagandisticamente con ingenti fondi le imprese di
Giuseppe Garibaldi.
L’Italia
è diventata quindi un unitario Stato-nazione anche perché ciò veniva incontro
agli interessi geo-politici della Gran Bretagna, che era la potenza navale
dominante nel Mediterraneo. Se, da un lato, gl’inglesi volevano ridurre l’influenza
austriaca, dall’altro temevano che, se la nascita dell’Italia fosse avvenuta
sotto forma di piccoli Stati federati, il nuovo Stato avrebbe inesorabilmente
subìto l’influenza di Napoleone III (1808-1873; 1852-1870). Ecco perché, alla
fine, fu fatta la scelta di uno Stato unitario su tutta la Penisola, perché si pensava che sarebbe potuto diventare più autonomo rispetto alla Francia.
In
particolare nel cruciale triennio 1859-1861 il governo whig-liberale di
Londra diede un appoggio morale e diplomatico al Risorgimento che in alcuni
passaggi fondamentali fu decisivo: per esempio sostenendo il principio di
non-intervento, quando si trattò di restaurare i sovrani spodestati a Modena, a
Parma e a Firenze e di ristabilire il potere del Papa nelle Legazioni. E,
ancora, rifiutando di bloccare il passaggio dello stretto di Messina a Garibaldi
diretto sul Continente e approvando l’invasione sabauda delle Marche e
dell’Umbria nel settembre del 1859.
19. Risorgimento,
tardiva Riforma protestante in Italia?
Ma in questa politica inglese entrarono in gioco, come
accennato, anche altri elementi, in primo luogo la religione: poiché nel Regno
Unito ancora a quell’epoca, la politica britannica era fortemente «anti-papista»,
si pensava infatti che, abbattendo il potere temporale dei Papi, si sarebbe
indebolita mortalmente la religione cattolica, realizzando così finalmente
anche in Italia quella Riforma «evangelica», che non era riuscita a imporsi nel
XVI secolo.
Il Risorgimento è stato quindi anche il momento in cui
gli inglesi tentarono e, in parte, riuscirono a fare di un Paese culla del
cattolicesimo, un terreno di conquista protestante.
Il fatto
che a metà del secolo XIX si fosse manifestato un movimento di conversioni al cattolicesimo,
per esempio dei futuri cardinali Henry Edward Manning (1807-1892) e John Henry
Newman (1801-1890), già ministri anglicani, e che Pio IX avesse restaurato la
gerarchia cattolica in Inghilterra e nel Galles: questi fatti avevano
contribuito a rinfocolare nei circoli dirigenti britannici odi anti-romani. La
nomina di vescovi cattolici fu chiamata «Papal aggression» e fu proprio
in reazione a tale provvedimento che Giuseppe Mazzini (1805-1872) fondò a
Londra nel 1851 l’associazione Friends of Italy (Amici d’Italia).
20. I
problemi del riconoscimento internazionale del Regno d’Italia
Non è un
caso che la Gran Bretagna fu la prima grande potenza a riconoscere il neonato Regno
d’Italia, laddove, a prescindere dalla diretta interessata Austria, anche altre
potenze, come la Russia e la Prussia — un anno e mezzo dopo la proclamazione
del Regno — e la Spagna, non vollero dare il loro riconoscimento all’Italia per
il modo non rispettoso delle norme internazionali con cui l’unificazione era
avvenuta. Scrive Montaldo: «[…] per i criteri di fondo che aveva
messo in discussione e il significato potenzialmente eversivo rispetto agli equilibri
europei, il Regno d’Italia era un outsider da non ammettere, per il momento, al
“gran concerto” degli Stati» [28].
In virtù
della legge del 17 marzo 1861, n. 4671, Vittorio Emanuele di Savoia assunse per
sé e i suoi successori il titolo di re d’Italia: iniziava, da quel momento,
l’opera della diplomazia per il riconoscimento del «fatto compiuto». La
richiesta di riconoscimento assunse la forma di una nota, alla quale, come
detto, la Gran Bretagna rispose per prima con un’altra nota, inviata dal ministro
degli Esteri, lord John Russell (1792-1878), con cui prendeva atto della
notifica. Subito dopo anche la Svizzera procedeva al riconoscimento. Seguì, nel
successivo mese di aprile — il giorno 13 —, la nota di riconoscimento da parte
degli Stati Uniti d’America. Per la Francia, si dovette attendere fino al 15
giugno 1861.
Oltre al
mancato riconoscimento ispano-russo-prussiano — avverrà addirittura solo nel luglio
1862 il riconoscimento della Russia, dopo lunghe trattative condotte dalla
Francia, mentre quello della Prussia data al 21 luglio 1862 —, un’altra brutta sorpresa
per la diplomazia sabauda, che ne indebolì ulteriormente la credibilità
internazionale — quarta ombra gravante sul Risorgimento — venne anche da un
altro importante paese, il Belgio di Leopoldo I di Sassonia Coburgo Gotha, che,
durante il suo lungo regno costituzionale (1831-1865), a differenza di quanto
avverrà nel Regno d’Italia, aveva affidato alternativamente il potere politico
interno tanto ai liberali quanto ai cattolici. Il Regno dei Belgi riconobbe
quindi sì quello italiano, ma solo il 7 gennaio 1862 e con la precisazione,
esposta dal ministro belga a Torino barone Henri Solvyns (1817-1894) in una nota
al presidente del Consiglio Bettino Ricasoli (1809-1880), che specificava come
il Belgio prendesse solo atto della situazione di fatto e «[…] riconosceva
il fatto compiuto senza però esprimere alcun giudizio sugli eventi che lo avevano
generato e senza rinunciare alla sua libertà di valutazione innanzi ad eventualità
che avrebbero potuto modificare lo stato di fatto».
Nella
stizzita risposta Ricasoli sottolineava seccamente che il governo italiano si
era astenuto dal sollecitare un tal atto…
21. La Chiesa e l’atavica accusa
machiavelliana sulla mancata unificazione italiana
Per la «nuova
storiografia», di cui ho parlato all’inizio, il Risorgimento è rappresentato anche
— e questa è la quinta ombra — come la realizzazione di una vera e propria aggressione
contro la Chiesa cattolica, che ribalta l’antica tesi machiavelliana di una
Chiesa ostacolo alla unificazione italiana. La mancata unità, secondo il
«segretario fiorentino» Niccolò Machiavelli (1469-1527), era indubitabilmente
da imputarsi all’influenza della Chiesa cattolica, che, per mantenere il suo
Stato, aveva sempre diviso e imperato in Italia, impedendo di prevalere a
qualunque «agente di unità» che fosse emerso nella storia. Accusa ripresa dalla
leadership laicista del Risorgimento e spinta fino a desiderare di limitare
quell’universalità, che faceva della Chiesa l’erede di Roma, e la sua capacità di
tenere insieme le diversità.
Non tutti
i grandi storici e pensatori italiani moderni, comunque, avevano condiviso tale
lettura negativa del ruolo della Chiesa. Secondo Ludovico Antonio Muratori
(1672- 1750), per esempio, il riferimento di tutti i popoli italiani alla
Chiesa consentì di evitare storiche spaccature, che avrebbero visto l’Italia
divisa irrimediabilmente fra un nord sotto l’influenza protestante e un sud
sotto quella musulmana, oppure dato fondo a estremismi capaci di violenza e di distruzione
reciproche — la storia politica del Novecento può aiutare a capire quanto possa
essere distruttiva la perdita di una identità comune.
Anche ai
nostri tempi, e da parte non cattolica, è stata rilevata — per esempio da Galli
della Loggia — la continuità fra l’eredità di Roma e l’operato della Chiesa nel
salvare l’identità italiana.
22. Le premesse della persecuzione contro la Chiesa: la soppressione degli ordini religiosi dei governi sardi Cavour-Rattazzi
Ma l’aggressione
laicista ebbe inizio ben prima, almeno dal 1796-1799, durante cioè quel Triennio
Giacobino che diede inizio ufficiale allo scontro fra Stato e Chiesa nel nostro
Paese. E dato che, come universalmente riconosciuto, i giacobini di quegli anni
furono i padri ispiratori di molti dei futuri patrioti risorgimentali, non è
possibile non intuire il legame ideologico e politico fra i due successivi
momenti e forme di aggressione anticattolica che caratterizzarono il movimento
risorgimentale.
La Chiesa cattolica
del tempo era da esso descritta come una forza oscurantista, che ostacolava il
progresso e la libertà dell’Italia. Eppure la fede nella religione tradizionale
e l’attaccamento all’ordine politico e sociale costituitosi in un ambiente
docile all’influsso del cattolicesimo erano penetrati così profondamente nella
cultura popolare italiana che alla fine del 1700 solo pochi «illuminati» accolsero
con entusiasmo la Rivoluzione francese: «Il fenomeno dell’Insorgenza, vale a
dire la reazione spontanea, fisiologica, all’inoculamento nel corpo sociale dei
virus provenienti da Oltralpe — reazione avente sempre gli stessi
caratteri in presenza di popolazioni differenti, rette da istituzioni diverse,
situate in contesti geoeconomici non uniformi — è un’ulteriore prova
dell’esistenza della nazione italiana, con un suo profilo ben delineato e una
sua cultura specifica».
Come nel 1700
con la Francia, così anche nel secolo successivo la Chiesa in Italia non poteva ovviamente rimanere indifferente all’egemonizzazione
dell’intera Penisola da parte di uno Stato, il Regno di Sardegna, che fin dall’indomani
del 1848 si era distinto per una dura legislazione anti-cattolica e anti-ecclesiale
.
Soprattutto i gesuiti denunciarono, su La Civiltà Cattolica, la gravità di quello che stava succedendo, mettendo in
guardia i cattolici sull’impossibilità di diventare seguaci delle nuove idee.
Fin dal 1854-1855 il governo Cavour-Rattazzi aveva infatti presentato un
progetto di legge contro gli ordini mendicanti — francescani e domenicani
soprattutto — e contemplativi — monache di clausura —, accusati di essere inutili
quindi dannosi. Cavour si preoccupava anche, con questa legge, di conservare l’appoggio
di gran parte dei governi europei liberal-massonici. La legge toglieva la personalità
giuridica a 34 ordini religiosi, sopprimendo 331 case religiose con circa 4.500
religiosi, più della metà di quelli esistenti in Piemonte. Centinaia di
edifici e di opere d’arte di inestimabile valore, più di 2 milioni e mezzo di
ettari di terra, vennero espropriati.
Non
poteva non seguire, fatta l’unità d’Italia, una estensione su scala nazionale
della politica di secolarizzazione esemplificata dalla legge citata, prima con
le leggi del 1867 di soppressione degli ordini e delle congregazioni religiose
di vita contemplativa, di incameramento dei loro patrimoni, poi di la
sistemazione unilaterale della «Questione Romana» con la legge cosiddetta «delle
Guarentigie» del 1870.
23. Le violenze e gli abusi durante la «dittatura
democratico-garibaldina» delle Due Sicilie
Le camicie
rosse — o garibaldini — sono sempre stati raccontate come guerriglieri generosamente
intenti a fare l’Italia. Non se ne ricordano, però, ben altre gesta, come la
depredazione di conventi e d’istituti e la cacciata di religiosi e religiose .
In ciò i garibaldini superarono in ogni sorta di abusi le truppe regolari dell’esercito
piemontese, il cui ordine e la cui regolarità formale confliggevano non poco, per
esempio, con le promozioni scandalose volute da Garibaldi durante la sua
dittatura «delle Due Sicilie». Sotto questo profilo, anche Cavour non poteva
non nutrire nei confronti di quest’ultimo e dei suoi irregolari che una spessa diffidenza.
Scrive Ettore Passerin d’Entrèves (1914-1990): «Ai garibaldini il Cavour
non può pensare con simpatia, quando tutti i suoi collaboratori e
informatori dal Mezzogiorno gli inviano dei rapporti assai severi sulla
condotta dei volontari, sulla loro cattiva volontà nei confronti del governo,
sugli scandali politico-amministrativi della dittatura democratico-garibaldina
in Napoli e in Sicilia».
Intemperanze
e assalti veri e propri furono anche il frutto di una capillare propaganda, finanziata
da Torino e da Londra, che diffondeva una vera e propria «leggenda nera» contro
il potere temporale e gli abusi degli ecclesiastici.
24. Fra
«Terza Roma» e potere temporale
Se il
Risorgimento fosse stato solo contrario al potere temporale dei Pontefici, un
compromesso si sarebbe forse trovato. In realtà esso, come visto, fin dal 1848
fu decisamente anti-clericale e anti-cattolico, rifiutando in toto la
tradizione civile e religiosa dell’Italia, per cercare di costruire una «terza
Roma», quella del positivismo e dello scientismo, idealmente ricollegata
all’antica Roma pagana e incarnata dalla massoneria. L’obiettivo era quello di
sovvertire la costituzione medesima della Chiesa, indicata da alcuni come un «vecchio
cancro» dell’Italia, e sradicare il cattolicesimo dall’Italia, progetto che trova
continuità nelle forze laiciste attive dopo la Seconda Guerra Mondiale. Anche il ritorno di atteggiamenti anticlericali — l’anti-clericalismo
è sempre il preludio dell’anti-cristianesimo — nel dibattito politico nazionale
di questi ultimi tempi con un inquietante crescendo di toni e anche di azioni
contro la Chiesa e il suo insegnamento, pone la domanda spontanea di si trovi nella
nostra storia la sorgente di questo veleno apparentemente mai esaurito…
La
risposta è facile: proprio in quello spirito anti-cattolico, di cui era colma
l’ideologia e la prassi politica delle élites liberal-giacobine che
hanno realizzato l’unificazione italiana.
25. L’unificazione amministrativa e la «piemon-tesizzazione»
Le leggi di unificazione amministrativa del 1865, i
cui temi essenziali sono ripresi nelle riforme crispine del 1889-1890, passate
alla storia come «seconda unificazione amministrativa», determinano un periodo
lungo, di quasi trent’anni, in cui si definiscono e si stabilizzano gli assetti
istituzionali dell’Italia unita e le sue caratteristiche. L’unificazione
amministrativa operata sulla base delle leggi del 1859-1865 è stata criticata —
e siamo così alla sesta ombra — da alcuni storici dell’amministrazione per non
aver tenuto in nessun conto la legislazione e la fisionomia istituzionale non
piemontese, giustificando così le accuse di autoritarismo e d’incomprensione
degli interessi veramente nazionali.
Qui si
colloca il controverso tema della «piemontesizzazione»: la modernità è
identificata infatti dai nuovi governanti esclusivamente con il modello del Piemonte
sabaudo e l’unificazione amministrativa è risultata quindi il prodotto di un’iniziativa
dall’alto insensibile alla ricerca di una nuova sintesi costituzionale dei
molteplici apporti delle diverse Italie.
Del resto la già
citata formula tutta ideologica secondo cui «fatta l’Italia» occorreva «fare
gli italiani», certificava propriamente «[…] una funzione pedagogica
attribuita allo Stato (e in concreto ai suoi apparati) di fronte a un giudizio
senza appello sull’arretratezza del corpo sociale. Di fronte alle emergenze la
classe dirigente di governo si auto-investe in quella che è stata definita “dittatura
dei savi” o, più propriamente (sempre Stefano Jacini) un “lungo governo
provvi-sorio”».
Simbolico, in tal senso, è il destino di certi liberali napoletani che, dopo il
1861, «[…] si sentono come estraniati dal loro stesso paese, una
volta ritornati dall’esilio».
26. «Il Piemonte ha più da apprendere che da insegnare»
Ma anche diversi patrioti settentrionali della prima
ora, come Cesare Giulini della Porta (1815-1862), ben presto non omisero di accusare
di centralismo livellatore il nuovo Regno d’Italia. Il conte Giulini, che era
stato membro del governo provvisorio di Lombardia, costituito il 22 marzo 1848
durante le Cinque Giornate di Milano, insieme a Gabrio Casati (1798-1873),
presidente, e a Carlo Cattaneo (1801-1869), segretario, e nel 1862 era
diventato senatore del Regno, «[…] nominato a Torino alla testa di
una inutile commissione per i nuovi ordinamenti locali, scriveva alla moglie
che, negli ordinamenti amministrativi, “il Piemonte ha più da apprendere
che da insegnare”. Ma finiscono col prevalere le ragioni dell’emergenza».
È bene
ribadire che l’interesse per le vicende dalle quali questo paese ha tratto
l’assetto amministrativo ancor oggi vigente, come ebbe a scrivere Gianfranco
Miglio, non muove certo «[…] da una curiosità puramente storica, ma
dalla convinzione che appunto tali ordinamenti non abbiano fatto buona prova e
che la comunità statuale allora costituita sia tutt’altro che stabile e
radicata».
27. La legislazione del 1859, cardine
dell’unifi-cazione amministrativa centralistica
È opinione
largamente diffusa fra gli storici dell’amministrazione che le grandi leggi di unificazione
amministrativa, perfezionate intorno al 1865, costituiscano soltanto il
corollario di scelte e di decisioni maturate fra il 1859 e il 1861. E la
legislazione del 1859, destinata a regolare uno Stato ampliato a tutta la Lombardia — con prospettive di ulteriore espansione all’Emilia e alla Toscana —, si
caratterizza proprio «[…] per l’assenza di un tentativo di ripensamento
istituzionale, che tenga conto delle diverse esperienze degli antichi Stati. Si
detta così in qualche modo lo stile della successiva legislazione di
unificazione, lasciata, sotto la spinta dell’emergenza, all’iniziativa del
governo, senza alcun dibattito parlamentare o ripensamento istituzionale» .
La caratteristica della vicenda italiana è tuttavia
che quello che appare prima facie contraddittorio tende poi ad «aggiustarsi»
e a «comporsi» in sede di applicazione, in un «pratico miscuglio
istituzionale», caratterizzato
da una molteplice e informale serie di relazioni fra governo, parlamento e amministrazione,
fra centro e periferia, fra politica e amministrazione, che disegnano un
equilibrio che ha la caratteristica di essere sempre percepito come precario,
quando non denunciato come «corrotto».
La legge del 20 marzo 1865, n. 2245, sulla
unificazione amministrativa del Regno reca sotto forma di allegati le leggi: (a)
comunale e provinciale; (b) di pubblica sicurezza; (c) sulla sanità pubblica; (d)
sul Consiglio di Stato; (e) sul contenzioso amministrativo; e (f) sulle opere
pubbliche. La legge comunale e provinciale del 1865 poco innova rispetto al
1859: viene confermato il quadro delle circoscrizioni, archiviando qualsiasi
velleità razionalizzatrice e il sistema di designazione dei vertici e di
elezione dei consigli: si ha solo un modesto allargamento del suffragio. La
conferma della presidenza dell’esecutivo delle amministrazioni provinciali da
parte del prefetto, e il rafforzamento dei poteri del sindaco, sempre di nomina
regia, sono funzionali al controllo e al circuito dell’accentramento.
28. L’eccellenza amministrativa lombardo-veneta
e il «ripensamento» di Cavour
Inizialmente,
come ha evidenziato Roberto Ruffilli, Cavour parve intenzionato a rispettare e
valorizzare l’esperienza amministrativa del Lombardo-Veneto asburgico,
lasciando con il Regio Decreto dell’8 giugno 1859, n. 4325, alla Lombardia la
sua organizzazione e la sua legislazione amministrativa tradizionale, sia pure
con talune modifiche, sulla base della normativa piemontese.
Fattore
determinante nella scelta cavouriana «[…] era la convinzione,
chiaramente espressa all’interessato, della superiorità delle istituzioni
lombarde rispetto a quelle piemontesi, sul piano della liberalità e
dell’efficienza».
È significativa, da questo punto di vista, l’estensione, realizzata da Cavour,
col successivo Regio Decreto del 15 giugno 1859, dell’organizzazione
amministrativa lombarda alle province modenesi e parmensi in via di annessione
allo Stato sardo: «Ciò mette in luce come anche lo statista piemontese, là
dove non avvertiva l’esigenza politica di evitare turbamenti della realtà in
atto, tendesse a lasciar cadere l’apparato amministrativo tradizionale e a
sostituirlo con uno ritenuto più idoneo a consolidare gli equilibri del nuovo
regime, oltre che più conforme ai principi liberali e dell’efficienza amministrativa».
La gran
parte dei successori dello statista piemontese, però, non perseverò nel
riconoscimento delle particolarità amministrative dell’ex Stato, operando la
definitiva estensione all’intero regno della legislazione «piemontese». La
tendenza propria del primo governo successivo a Cavour, presieduto nel 1862 da
Urbano Rattazzi, e in generale quella di tutta la Sinistra parlamentare, soprattutto per convinzioni derivanti dalla propria peculiare formazione
ideologica e politica, fu senza esitazione per una unificazione
amministrativa del Paese sulla base di leggi uniformi di conio piemontese: Scrive
Roberto Ruffilli: «Contemporaneamente la tendenza rattazziana si ricollega
anche ad una peculiare visione per così dire “liberal-autoritaria”
dell’organizzazione dello Stato e della pubblica amministrazione. Si trattava
in sostanza della visione cara a gran parte della Sinistra piemontese e fondata
sulla lezione della rivoluzione francese, filtrata attraverso l’esperienza
napoleonica anche italiana,[…] nell’ambito comunque sempre di una guida
dall’alto delle masse popolari».
In tutto
il Mezzogiorno fu quindi abrogato il diritto consuetudinario a favore del Codice
di diritto civile piemontese. I contadini, che avevano favorito nella prima
parte della guerra la caduta del regime borbonico, si accorsero che i vantaggi
del nuovo regime andavano a quelle categorie borghesi, che ora si apprestavano
a godere i frutti della vittoria. Tutti, infine, si accorsero che la tassazione
era ben più esosa delle tassazioni esistenti prima dell’arrivo dei liberatori e
alcuni cominciarono a rimpiangere l’antica situazione.
Poiché
non fu previsto alcun gradualismo nell’integrazione delle varie regioni
italiane, avvenne che un nord relativamente avanzato si trovò a espandere il
mercato dei propri prodotti in un sud arretrato i cui prodotti non erano difesi
da dazi protettivi.
A ciò si
associò fin da subito una propagandistica rappresentazione idilliaca della
nuova realtà e, per diametro, la sistematica denigrazione, oltre ogni
immaginazione, di tutto quel che c’era prima. Come ha riconosciuto di recente
anche uno storico meridionale, Giampaolo D’Andrea, attualmente senatore nelle
fila della sinistra italiana, la «Sinistra storica», così facendo, «[…]
ritenne di rafforzare il consenso allo Stato sabaudo attraverso l’impietosa delegittimazione
di tutta l’eredità del regno Borbonico, persino per gli aspetti per i quali si
era limitato a preservare gli effetti delle riforme introdotte nel decennio
napoleonico» .
29. Alcune luci nell’impianto amministrativo
italiano dopo l’Unità
(a) Il controllo e la «giustizia nell’amministra-zione»
Fra le luci dell’unità d’Italia, nel senso delle buone
prassi e culture amministrative introdotte nella gestione della cosa pubblica
dai «piemontesi», si possono innanzitutto annoverare una maggiore attenzione
alla buona amministrazione e all’esercizio rigoroso delle funzioni statali.
Ciò, naturalmente, era assicurato con il mezzo che più era confacente alla
classe dirigente sabauda: la sanzione e il controllo. La maggiore innovazione
della Legge del 13 novembre 1859, n. 3746, sull’amministrazione centrale, per
esempio, che aveva essenzialmente il compito di ridefinire gli organici, fu
infatti l’introduzione del «ruolo ispettivo», così da aumentare le aspettative
di carriera da un lato e dall’altro rafforzare il controllo sistematico e capillare
dell’azione amministrativa. Altrettanto rilevante è la legge del 30 ottobre
1859, n. 3706, sul Consiglio di Stato, che ne allarga le competenze al
contenzioso, riformando il vecchio sistema imperniato sulla Camera dei Conti,
di cui eredita alcune competenze, lasciando quelle sulle controversie e il
controllo contabile alla Corte dei Conti. Quest’ultima, istituita con la Legge del 30 ottobre 1859, n. 3707, sarà definitivamente istituzionalizzata nel 1862, con il
compito di esercitare il controllo preventivo su tutti gli atti normativi
comportanti spesa e sui decreti reali, riferendo inoltre al Parlamento sulla «parificazione»
del rendiconto generale dello Stato.
(b) La pubblica istruzione
Altro elemento positivo portato nell’ordinamento
italiano da quello precedente sardo riguarda la scuola statale. La Legge n. 3725/1859 sulla pubblica istruzione, passata alla storia con il nome del ministro,
il già citato conte Gabrio Casati, creò infatti un sistema di istruzione su
tutti i gradi, riprendendo i tratti del modello tedesco: una scuola elementare
obbligatoria e, quindi, una biforcazione in ginnasio-liceo e scuola tecnica-istituto
tecnico, o scuola normale, per la formazione dei maestri. Solo il
ginnasio-liceo, da cui si accedeva a qualsiasi facoltà universitaria, era a
carico dello Stato. Le altre scuole restavano a carico degli enti locali:
l’onere e l’organizzazione amministrativa delle elementari erano affidati ai
comuni. A parte l’inevitabile — in relazione al già descritto atteggiamento dei
risorgimentali nei confronti della Chiesa e della religione cattolica — spinta
laicizzatrice e anti-religiosa del nuovo regime scolastico, suoi apprezzabili punti
di forza potevano essere identificati per un verso in «[…] un’estrema
attenzione verso l’istruzione superiore, considerata la fucina delle future
classi dirigenti; per altro verso il rilievo dato all’istruzione primaria con
l’affermazione del principio dell’istruzione elementare obbligatoria gratuita.
Il cardine dell’istruzione era costituito dalle materie umanistiche, latino e
greco in primis, a immagine di quanto accadeva in Germania».
(c) La razionalizzazione e la codificazione nor-mativa
La legge del 2 aprile 1865, n. 2248, autorizzò a
pubblicare «i codici e le leggi complementari», che si succederanno in
rapida sequenza, a eccezione del Codice penale, che verrà pubblicato nel 1889.
(d) L’introduzione delle prime tecniche di gestione
del personale e della «scienza dell’amministra-zione»
Il senso della gerarchia è «istituzionalizzato» con la
riforma delle carriere amministrative — realizzata con vari provvedimenti
all’inizio degli anni 1870 —, che sviluppò anche le prime tecniche di gestione
del personale: Scrive Francesco Bonini: «Nelle prove concorsuali continua a
prevalere la richiesta di un’ampia cultura generale, con attenzione anche alla
conoscenza delle lingue. Nello spazio di poco meno di un decennio, tra la metà
degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta si compie la stagione della “scienza
dell’amministrazione” come tentativo di definire una disciplina autonoma,
pensata come funzionale al processo di sviluppo dell’amministrazione e dunque
dello Stato. Studiosi di formazione giuridica, come Carlo Francesco Ferraris [(1850-1924)],
si pongono il problema di allargare gli orizzonti e disegnare una scienza
dell’amministrativa come scienza generale dello Stato e della società».
(e) Un’amministrazione centrale «leggera» ed
efficiente
I numeri dell’amministrazione centrale, ancora nel
1877 — quindi dopo diversi anni dal trasferimento della capitale a Roma —, sono
più contenuti, 3.211 unità, che nell’insieme degli Stati preunitari dove
assommavano a 3.245.
Per quanto riguarda invece gli impiegati pubblici nel
complesso, al 31 dicembre 1877, gli organici dell’amministrazione del Regno
d’Italia sono di 67.505 impiegati contro i 44.109 di tutte le amministrazioni
preunitarie. L’amministrazione dell’unificazione — e della seconda unificazione
— presenta quindi organici contenuti, «[…] sostanzialmente inferiori,
evidentemente in termini percentuali comparati, non solo a quelli della Francia
(che resta il Paese più amministrato), ma anche ad esempio del Belgio. La
qualità della documentazione prodotta da questa burocrazia dei piccoli numeri,
che oggi diventa fonte non solo e non tanto di storia amministrativa, ma della
storia generale dell’Italia unita, resta di prim’ordine, offrendo un contributo
essenziale all’unifi-cazione».
30. Conclusione: la ricchezza che residua è la «nazionalità
spontanea»
L’Italia, dopo l’Unità, ha patito un violento attacco
al suo ethos da parte di forze intenzionate a costruire un potere
culturale e tendenzialmente «religioso», da contrapporre all’autorità
spirituale, da sempre incarnata dalla Chiesa cattolica, e alla tradizione civile
degl’italiani. Queste forze, però, benché dotate di tutti i mezzi
propagandistici e pedagogici dello Stato moderno e sulla distanza di ormai quasi
un secolo e mezzo, non sono ancora riuscite a realizzare il loro proposito, pur
determinando un esito che si può definire quanto meno «confusionale». Oggi
residua quella senso di «nazionalità spontanea», di cui ho fatto cenno e che — in
una fase caratterizzata da un abbassamento del rilievo del momento
territoriale, e in cui il rapporto fra uomo e uomo è destinato a diventare di
nuovo primario — necessita di essere «rivestita» politicamente in modo nuovo e adeguato.
Il superamento dello Stato burocratico e accentratore non implica soltanto la
demistificazione dell’idea di nazione affermatasi negli ultimi due secoli, ma
anche la rinascita, o il rinvigorimento, delle forme di nazionalità spontanee
che lo Stato nazionale moderno soffoca o riduce a strumenti ideologici al
servizio del potere politico, e quindi, bisogna auspicare il ritorno di quegli
autentici valori comunitari di cui l’ideologia nazionale si è appropriata
trasformandoli in sentimenti gregari.
Del resto
le contraddizioni e anomalie insite nel recente dibattito sul federalismo
confermano «[…] che in causa non è solo “la forma di organizzazione” del
Paese, bensì la “forma di unità”».
Perciò, senza indulgere a nostalgie fuori luogo, da parte di chi, a livello
culturale, ha un ruolo, anche se non immediatamente visibile, come può essere
quello di un insegnante o di un saggista, occorrerà prima di tutto conoscere la
storia di tutti gli italiani. Solo così, infatti, sarà possibile porre
le premesse di quella riconciliazione nazionale, di cui, a partire dal secondo
dopoguerra, si va ancora in cerca.
Facendo
ciò ci si potrà rivolgere anche alla lezione di quei «vinti» del Risorgimento
che, pur essendo passati tanti anni, non cessano di essere i contemporanei di
chi non si accontenta del conformismo e dell’incultura dominante nella nostra
sradicata e sradicante società consumistica e di massa. Così scriveva — e
sarebbe bene far nostre oggi le sue parole — il conte Solaro della Margarita a
proposito dell’antico regime: «Serve la patria chi pacatamente descrive i
fatti di una epoca, al dir d’ogni gente, per noi gloriosa, non adoperando
ingiurie contro chi ne malmena i fasti, non attizzando gli odii, ma tentando
preservar gli incauti dalle funeste aberrazioni di chi contamina il nome di
libertà, ed è capital nemico di ogni forma di civil governo».