MARIA BOCCI, Agostino Gemelli rettore e francescano. Chiesa, regime, democrazia, Morcelliana,
Brescia 2003, 720 pp.
Superando una specie di reticenza che fino ad ora ha impedito agli studiosi di guardare ad Agostino Gemelli come a un oggetto storiografico rilevante, non per condannarlo o per riabilitarlo a seconda dell’appartenenza ideologica, ma per interpretarlo con l’ausilio del copiosissimo materiale documentario disponibile, il volume ripensa al percorso del padre fondatore dell’Università Cattolica al tempo della difficile convivenza col regime fascista. E lo fa a partire da una solida base documentaria, finora inesplorata ma conservata negli archivi di Stato e in quello dell’ateneo milanese, che getta una luce nuova sul «caso» del rettore e della sua università, fondata nel 1921, a partire dall’ipotesi di un pluralismo educativo che avrebbe permesso anche ai cattolici italiani di avere un loro ateneo, ma ben presto trovatasi a crescere e ad operare entro le maglie sempre più strette del regime di Benito Mussolini. Ne risulta un ritratto inedito, che mette in discussione sia la prospettiva agiografica, sia quella di chi ha voluto portare avanti un’operazione di demolizione sistematica del «padre» della Cattolica. L’obiettivo non è quello di assolvere o di condannare Gemelli, ma di scavare le ragioni delle scelte e dei rapporti che come rettore ha intrattenuto con le autorità del regime; ne emergono verità poco note o del tutto ignorate, che però sono alla base di comportamenti o di atteggiamenti altrimenti inspiegabili.
Capire le vicissitudini di Gemelli e dell’ateneo del Sacro Cuore durante il ventennio è del resto interessante non solo per delineare la portata del progetto culturale elaborato dal primo rettore della Cattolica, ma anche perché significa portare un contributo rilevante alla storia della cultura italiana in età fascista, una storia da approfondire, viste le remore che spesso hanno frenato gli studi quando si è trattato di indagare sulla portata di opportunismi, prese di distanza, consensi o collusioni del mondo intellettuale con la dittatura fascista. Vi è poi il ruolo – importante per la storia delle relazioni tra Chiesa e fascismo – del rettore milanese come uno degli alfieri della strategia cattolica nei confronti del regime mussoliniano. Per comprendere tale strategia non si può anzi prescindere da quello che avveniva in piazza Sant’Ambrogio e dai consigli incrociati che il rettore mandava al pontefice e che il papa, insieme alle Congregazioni vaticane, inviava a Gemelli sulle molteplici emergenze politiche affrontate dall’Università milanese. In sostanza il legame strettissimo di Gemelli con Pio XI e dell’Università del Sacro Cuore con il mondo cattolico italiano per certi versi preservò il profilo culturale di un ateneo che, pur essendo «libero», doveva dipendere dalle leggi dello Stato fascista.
Dal volume emerge l’immagine complessa di un Gemelli poliedrico, che sa muoversi abilmente nelle pieghe del regime fascista per proteggere l’Università da sgraditi contagi politici, giostrando tra vertici e periferia, tra Milano e Roma, tra partito, duce, gerarchi e Ministeri, che sa «giocare d’equilibrio» attraverso mille e insospettabili contatti, che ha il fiuto del grande procacciatore di cultura, ma che al tempo stesso rimane uomo di scienza, attratto dalla modernità scientifica, capace di maneggiarla, difensore accanito di discipline appena approdate nell’universo culturale italiano come la psicologia, difesa strenuamente dal rettore sebbene fosse osteggiata dal regime. Un Gemelli, dunque, che professa il «medioevalismo» per condannare la genesi immanentistica della modernità, ma che non vuole tornare al passato e non è affatto incapace di fare i conti con gli avanzamenti della scienza e della tecnica e col progresso politico e civile. Semmai il rettore si interroga su uno dei frutti peggiori della modernità politica, vale a dire la preoccupante inclinazione totalitaria che egli scorge nel mondo in cui si trova a vivere. Il «medioevalismo», però, lo intende come conservazione di un tesoro prezioso da proiettare verso il futuro, come il cardine filosofico di un ampio progetto culturale e politico che Gemelli, coadiuvato da un gruppo di docenti e di giovani assistenti, elabora per l’avvenire.
Le spie fasciste che lo seguono alla stregua di un «sorvegliato speciale» ne hanno chiara percezione e trasmettono di gradino in gradino della gerarchia del regime, dalla Pubblica Sicurezza alla Segreteria Particolare del duce, le consistenti perplessità che nutrono nei confronti di un rettore che lavora sottobanco per fondare un «altro regime», ben diverso da quello fascista, che non giura fedeltà al duce (con altri professori dell’ateneo, «protetti» dalla sua autorevolezza), che non ha la tessera del partito e che si permette di pronunciarsi pubblicamente, dal pulpito del congresso filosofico del ’29, contro le direttive culturali allora in voga, che non partecipa con la necessaria solerzia alle indagini compiute dalla polizia per snidare l’antifascismo diffuso fra gli studenti della Cattolica e che, come amico ed alleato del papa, viene inevitabilmente coinvolto negli scontri col regime nei momenti di tensione tra fascismo e Vaticano, che battaglia contro Gentile quando il filosofo è nelle grazie di Mussolini e che si serve della dottrina della regalità di Cristo per opporsi ai «sovrani di questo mondo», che mantiene legami con gli uomini del Partito Popolare sgraditi al duce e che accetta solo a malincuore il Guf e fa di tutto per impedire che l’organizzazione degli universitari fascisti si radichi nell’ateneo, che, infine, aiuta ebrei e ricercati politici, permette il coinvolgimento dell’Università nella Resistenza e ha contatti importanti con chi sta preparando la rinascita democratica.
Il giudizio complessivo dei confidenti fascisti è che Gemelli ha sempre finto, e con grande abilità, riuscendo ad apparire fascista e insieme a difendere un’impostazione educativa che fascista non era e a preparare la «resistenza degli animi», non meno pericolosa – a detta delle spie del duce – della cospirazione politica. Ed è un giudizio confermato dalla documentazione prodotta dalla Cattolica nel corso del ventennio: quest’ultima ci mostra infatti un rettore che faticosamente, sia pure attraverso percorsi inevitabilmente influenzati dalla congiuntura socio-politica, ha perseguito un disegno sociale che non coincide con quello delineato dalle autorità del regime e che invece ha influito al momento della ricostruzione postbellica. Intransigenze e compromessi, confluenze ed impennate, vicoli ciechi e vie di fuga connotano la pericolosissima strategia ideata da Gemelli per salvaguardare l’Università nel contesto del regime fascista. A questa stregua parlare di «clericofascismo», come molti studiosi hanno fatto evitando di risalire alle imprescindibili fonti archivistiche, è davvero riduttivo.
Marco Invernizzi
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