a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale
inserito il 29 agosto 2008
Oscar Sanguinetti
L’invenzione della memoria «affiancata»
Linvenzione della memoria affiancata: così, con blanda ironia, titola un suo intervento Giovanni Belardelli, contemporaneista dell’Università di Perugia, sul Corriere della Sera del 23 luglio 1944.
Il tema è l’episodio della strage di San Miniato, la cittadina a metà strada tra Firenze e Pisa, dove il 22 luglio 1944 56 persone trovarono la morte a causa dell’esplosione di una granata avvenuta all’interno della cattedrale – San Miniato è sede vescovile –, in cui la popolazione era stata riunita dalle autorità.
La strage, una delle più gravi del periodo della lotta di liberazione, venne immediatamente attribuita ai tedeschi in ritirata verso la Linea Gotica, durante la quale i soldati hitleriani, non solo le famigerate SS, ebbero modo d’«illustrarsi» in sanguinose rappresaglie contro i civili come quella di Sant’Anna di Stazzema (Lucca) e poi di Marzabotto (Bologna).
A diffondere in maniera straordinaria anche al di fuori della Toscana e della cerchia degli studiosi la fama dell’eccidio e la versione dei fatti «ufficiale» è tuttavia stato il film del 1982 realizzato dai fratelli Paolo ed Emilio Taviani La notte di San Lorenzo, una pellicola per molti aspetti delicato e poetico, in cui la drammatica vicenda di San Miniato – trasferita in una ipotetica «San Martino» – diviene il cuore della rievocazione delle passioni civili in lotta, nonché delle sofferenze e delle speranze della popolazione toscana in quel terribile frangente. Nati a San Miniato, i Taviani avevano affrontato già nel 1954 il tema, realizzando insieme al regista Valentino Orsini (1927-2001) e allo scrittore e sceneggiatore reggiano Cesare Zavattini (1902-1989), il loro primo documentario intitolato San Miniato luglio ’44, rievocazione della strage attraverso il racconto dei protagonisti.
A incrinare la lettura «canonica» del tragico evento erano stati già nel 1954 i dubbi di cui si era fatto latore il canonico sanminiatese Enrico Giannoni († 1989), cui erano seguiti gli studi dello storico pisano Paolo Paoletti. Negli anni fra il 2001 e il 2004 si sono svolte ricerche di alcuni storici, riuniti in una commissione presieduta dal professor Leonardo Paggi, oggi ordinario di Storia Contemporanea presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, le quali hanno finito per escludere categoricamente qualunque responsabilità – almeno nel frangente – dell’occupante germanico e dell’alleato fascista repubblicano, per individuare invece la causa dell’esplosione in un proiettile di artiglieria sparato dall’artiglieria alleata, penetrato fortunosamente all’interno della cattedrale attraverso la finestra a rosone della facciata e scoppiato con qualche ritardo nel chiuso del tempio con effetti quindi devastanti.
Quello della commissione di storici – incaricati delle ricerche dal Comune di San Miniato medesimo – non è stato un lavoro facile per la tenace e diffusa renitenza all’abbandono della memoria ufficiale, nonostante si rivelasse sempre meno difendibile, espressa dalle organizzazioni di reduci partigiani pesantemente innervate dalle centrali politiche comuniste di varia obbedienza, che in Toscana sono tuttora potenti.
Perché riparlare di questo episodio di sano «revisionismo» o di sana storiografia tout court? Ha senso farlo perché gli ultimissimi sviluppi della vicenda, riferiti da Belardelli, raggiungono il parossismo e testimoniano come sia ancora lungo e arduo il percorso verso una storiografia non offuscata da scorie ideologiche e, almeno in tesi, «condivisa».
Che cosa è accaduto a San Miniato? È accaduto che la Giunta comunale, con deliberazione n. 27 del 27 febbraio 2007, ha deciso – in maniera del tutto benemerita, nonché coerente con la sua funzione – di coagulare la nuova e corretta lettura dell’episodio in un «luogo della memoria», rappresentato molto semplicemente da una lapide posta sulla facciata del palazzo del Comune, il cui testo riflette la recente e veridica versione dell’accaduto.
A redigerne il testo è stato chiamato l’ex presidente della Repubblica Italiana, nonché presidente nazionale dell’Istituto per lo Studio del Movimento di Liberazione in Italia, senatore Oscar Luigi Scalfaro. La targa è stata inaugurata il 22 luglio 2008, sessantaquattresimo anniversario dell’eccidio, dal sindaco di San Miniato Angelo Frosini.
Fin qui tutto fila. Lo storico dell’ateneo perugino mette però in evidenza un duplice assurdo.
Il primo è che la vecchia lapide del 1954, quella contenente la versione «ufficiale» fino al 2004 — del cui testo era stato autore il critico letterario Luigi Russo (1892-1961) —, non è stata affatto rimossa. Per cui ora a San Miniato esistono due memorie, entrambe altrettanto «ufficiali», della strage del 1944, secondo la prima un «gelido eccidio perpetrato dai tedeschi», mentre, per la seconda, «eccidio [senza aggettivi (ndr)] delle forze alleate». Secondo Frosini si tratterebbe di una decisione motivata dalla volontà di salvaguardare la testimonianza di «una tappa del processo evolutivo della memoria». E detto così parrebbe che ognuno si possa inventare quello che gli pare su chicchessia e su checchessia, salvo poi cambiare opinione senza batter ciglio, perché, tanto, la memoria è «evolutiva»!
L’altro, forse ancor più clamoroso, è che nel testo redatto da Scalfaro – con sottolineatura nel discorso del sindaco – si riconosce sì che i responsabili diretti della strage sono gli «alleati», ma – e questo è davvero risibile, a meno che non si voglia coglierne invece il sapore sinistro e intravedere il pericolo che un simile giro mentale si possa diffondere – i responsabili invece ultimi del delitto sarebbero ancora i tedeschi, rei collettivamente di avere invaso la Penisola e di aver «obbligato» gli Alleati a liberarla facendo loro la guerra! Nella fattispecie poi sarebbe loro colpa di aver concentrato nella chiesa la popolazione, rendendola così un bersaglio delle artiglierie alleate. Se il primo assunto sfiora la demenzialità – e Belardelli lo mette assai bene in evidenza –, il secondo si può discutere. Gli si può opporre infatti che la popolazione fu radunata nelle piazze di San Miniato proprio perché aveva rifiutato l’evacuazione richiesta dai tedeschi per procedere alla demolizione di gran parte delle case, come misura di rappresaglia per l’uccisione di un ufficiale tedesco da parte di partigiani. Pare altresì che molti si fossero rifugiati nel duomo di propria volontà perché considerato luogo più sicuro nell’imminenza del preannunciato bombardamento americano.
Non si capisce infine perché il bombardamento si sia arrestato di colpo, come riferiscono i testimoni, subito dopo l’esplosione avvenuta nella cattedrale: forse qualcuno avvisò l’artiglieria americana dell’errore commesso, posto che di errore si sia trattato?
C’è da osservare in conclusione che, se questa è la forma di «memoria condivisa» che da più parti si auspica, c’è da rimaner davvero sconfortati. Anzi proprio le due lapidi sono l’emblema di una memoria divisa, a sua volta perenne alimento di quella «divisività» del corpo sociale, che diversi studiosi – fra cui spicca Ernesto Galli della Loggia – hanno denunciato come malattia costitutiva della vita politica dopo l’avvento dello Stato unitario in Italia.
Sarebbe invece auspicabile, non solo che la lapide del 1954 venisse rimossa – e magari conservata nel museo civico proprio come testimonianza di una stagione ideologica che non deve più tornare… – ma, meglio ancora, che la rettifica operata dagli storici venisse fatta conoscere a cura del Comune medesimo agl’italiani e agli ambienti storici nazionali e internazionali – e non solo ai sanminiatesi e ai turisti –, magari attraverso qualche inserzione sui quotidiani nazionali…
E anche che i prestigiosi cineasti sanminiatesi che, probabilmente in buona fede, hanno costruito una loro opera d’arte su un colossale falso facciano dichiarazioni pubbliche di ammenda: dicano cioè che il loro film, ferma restando la libertà di narrazione e di trasfigurazione letteraria e cinematografica degli eventi storici, nonché la bellezza del prodotto da loro realizzato, diffonde una notizia falsa e tendenziosa, che getta ulteriore discredito e gratuito sulla Germania e sugl’italiani che hanno perso nella guerra civile, attribuendo loro un’azione crudele e incivile di cui non sono colpevoli.
Ancora: nel film dei Taviani anche il vescovo di allora, mons. Ugo Giubbi (1886-1946), fa una figura pessima, quella di un pastore che si trova di fronte alla strage delle sue pecore grazie alla sua acquiescenza – c’è chi dice complicità – verso i «lupi» fascisti e tedeschi. Non sarebbe male se anche questa deformazione della verità venisse autodenunciata dai due cineasti, e magari che anche l’attuale vescovo, mons. Fausto Tardelli, si facesse sentire.
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