a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale
Edoardo Bressan
DALLA SOCIETÀ DI CORPI ALLA «NAZIONE» RIVOLUZIONARIA
Pubblichiamo — con lievi ritocchi redazionali, ma senza rifonderli — i due interventi che il professor Edoardo Bressan, dell’Università degli Studi di Milano, ha tenuto in occasione della tavola rotonda 1799-1999 Repubblica Napoletana e Insorgenza antigiacobina. Fra modernizzazione politica e rivendicazione dell’identità, svoltasi a Milano, il 27 marzo 1999. Alcune note redazionali, inserite a fini esplicativi, sono riportate in parentesi quadra; il titolo è anch’esso redazionale.
[Primo intervento]
Da non milanese — o da milanese di adozione — ho una sensibilità particolare per il tema della difesa dell’identità delle popolazioni italiane nell’epoca della Rivoluzione francese, perché l’Insorgenza, soprattutto la grande Insorgenza della Penisola italiana culminata nel 1799, ha interessato in modo particolare la mia terra, che è la terra veneta; vedo quindi immediatamente un nesso profondo tra fenomeni come le insorgenze che pure si svolgono in differenti contesti.
Da che cosa sono accomunati o da che cosa sono causati? Nella sua introduzione Marco Invernizzi diceva che le repubbliche giacobine e le insorgenze giungono al termine e sono in un certo senso il frutto di un secolo, il secolo decimottavo, il quale, pur nato con profondi legami e in sostanziale continuità con la cultura precedente, quella dell’Europa cristiana e post-tridentina, a un certo punto è segnato da una svolta di segno culturale, prima ancora che politico, che è la svolta della cultura dei «lumi», come è evidente. Per che cosa si caratterizza questa cultura, nel senso che qui interessa? Si caratterizza per un’opera di razionalizzazione della realtà, di riduzione della realtà a un principio che si vuole e si crede razionale ed è considerato il più importante socialmente dai teorici dell’illuminismo: quello dell’utilità sociale. Un principio che è affermato — come ha avuto modo di ricordare il cardinale Carlo Maria Martini — alla luce di una ragione «adulta», che vuole emanciparsi dai legami, innanzitutto dalla paternità di Dio e poi da quella di tutti i «padri» che in realtà segnano e fanno la vita dell’uomo. La cultura illuminista, nel tentativo di liberarsi da tutto ciò, rende possibile il secolarismo, e con il secolarismo tutte le esperienze e avventure, quelle avventure che negli ultimi duecento anni sono anche tragicamente sfociate nei totalitarismi.
Sul piano politico quest’opera di razionalizzazione coincide con il tentativo, prima teorico e poi pratico, di eliminare la realtà sociale che era stata prodotta dalla precedente tradizione europea, una realtà organizzata per corpi intermedi, autonomi, intesi come espressione e proiezione naturale della persona, di una persona che non poteva neppure essere concepita priva di legami, di una persona che è in sé stessa un dato relazionale: san Tommaso d’Aquino (1221-1274) diceva che la cosa più contraria alla nozione di persona è l’idea di parte, poiché la persona umana è un insieme di relazioni e di legami. Questo, invece, per la cultura dei «lumi» non va bene, perché contrasta con la dinamica e con la meccanica di un nuovo Stato in formazione, che prescinde da questi legami, che nella sua logica deve farne a meno. Si arriva così ad affermare — cosa assolutamente inedita, che non ha precedenti nella storia europea — un bipolarismo non già tra la persona e lo Stato, ma tra l’individuo, il cittadino, considerato il titolare dei diritti, e lo Stato, unico garante di questi diritti, anzi l’unico a poterli, non solo riconoscere, ma anche fondare. Questo bipolarismo ha una serie di conseguenze innanzitutto sul piano sociale, perché fa venir meno tutta quella vasta rete di solidarietà caratteristica della società europea preesistente, il che ha come effetto che l’individuo venga abbandonato a se stesso. Certo egli è cittadino, è titolare di un diritto di cittadinanza e la sovranità non appartiene più al principe, ma è divisa per «n», tanti quanti sono i componenti, indistintamente, del corpo sociale. Questo però viene vanificato nella realtà, come a suo tempo sottolineato da Joseph de Maistre (1753-1821), perché il cittadino si trova in realtà in balìa delle forze economiche più forti e aggressive, le quali avevano tutto da guadagnare da una evoluzione di questa natura. Tutto ciò ha conseguenze ancora più profonde su quella che è l’identità delle popolazioni, una identità che viene espropriata dei suoi riferimenti, innanzitutto di quello religioso. Con la Rivoluzione la Chiesa cessa di essere l’elemento legittimante dell’ordine politico e sociale, mentre la religione viene ridotta a un fatto privato e le comunità vengono private dei loro elementi costitutivi. Uno degli scopi del processo rivoluzionario — anche se apparentemente non si mostrerà tale —, che avrà conseguenze drammatiche, sarà il tentativo, voluto e perseguito, di negare le identità territoriali: le province, i territori, le circoscrizioni amministrative particolari sono tutte ridotte a «dipartimenti», ciascuno tendenzialmente uguale all’altro per popolazione, per superficie, per risorse economiche, ciascuno definito con un nome geografico, in modo da non avere più alcun legame con l’identità che lo costituisce. Se questo è vero, se questo viene elaborato teoricamente, viene pensato da una cultura che si pone consapevolmente come alternativa all’ordine esistente — la cultura dei lumi, la cultura delle «società di pensiero», la cultura dell’Enciclopedia, quella di tutti coloro che vogliono il sovvertimento dell’ordine sociale antico e che infine giungono al potere e sono in grado di operare sulla società in base ai nuovi principi —, le repubbliche giacobine italiane — naturalmente con la mediazione della forza della Francia rivoluzionaria, che esporta la Rivoluzione oltre i suoi confini — ne sono il campo storico di applicazione. Con esse si vuole in effetti giungere a una razionalizzazione della vita sociale, che nega il fondamento della società europea precedente, basato sulla persona e su tutto ciò che dalla persona deriva in naturale successione. Certo, basato anche sullo Stato, anche sull’autorità politica: ma come momento gerarchicamente superiore, non come momento che tutto assorbe e tutto riconduce a sé. È davvero il nocciolo della questione: le insorgenze sono la reazione a questo tentativo. Non si insorge nell’Italia tra il 1796 e il 1799 per le tasse o per la leva militare — che pure hanno il loro peso —: si insorge, come accadde in Valtellina, secondo l’espressione dell’epoca, «per religione», per la difesa di un tessuto sociale, di una tradizione, di un mondo, di princìpi percepiti come fondamentali e che si sentivano ingiustamente negati dalle «idee nuove».
[Secondo intervento]
Vi è un elemento comune agl’interventi che si sono susseguiti oggi. È stato ricordato un po’ da tutti il principio di legittimità, che è fondamentale per ogni ordine politico, in quanto la legalità da sola evidentemente non può bastare. Ma perché l’Antico Regime era legittimo? Perché la monarchia prerivoluzionaria rappresentava un ordine legittimo? Non solo per una questione di successione dinastica — in terra veneta il Doge, il «Serenissimo Principe», era eletto con un complicato meccanismo dai patrizi della città dominante e aveva l’autorità di supremo magistrato della Repubblica non per diritto ereditario —: il potere era legittimo perché rispettava gli altri poteri. Questo è il punto: l’intendente, il rappresentante del re nelle province non era il depositario di tutta l’autorità, l’unico suo interprete e garante. Era invece il rappresentante di un potere semplicemente superiore ad altri poteri, a loro volta legittimamente costituiti e originari, spesso preesistenti a quello del principe: il potere delle comunità, delle universitates — che sono state qui ricordate [nell’intervento di F. Pappalardo, ndr] per quanto riguarda il Mezzogiorno d’Italia —, dei ceti, delle corporazioni, della Chiesa e delle istituzioni ecclesiastiche. Erano poteri originari che coesistevano, anche di fronte all’autorità sovrana. Questo regime viene drammaticamente interrotto dalla Rivoluzione e sostituito da un meccanismo per cui il prefetto napoleonico o il commissario di governo diviene l’unico interprete e garante del potere e lo esercita lungo una linea verticale tra autorità centrale e autorità periferica dello Stato; al di fuori di essa, quindi dello Stato, non esiste alcuna autorità legittimamente costituita, al contrario della situazione precedente. Ora però la trasformazione rivoluzionaria non è di per sé in grado di costituire una nuova legittimità. Come si faceva a dire — soprattutto allora, come le notazioni fatte prima sul popolo napoletano [il cui modo d’insorgere, secondo F. Pappalardo, riflette in pieno l’organizzazione «per ceti» della società del tempo, ndr] ben dimostrano — che la legittimità apparteneva dello Stato in quanto tale, se questo si fondava ultimamente su se stesso? Credo, a questo proposito, che si debba recuperare la notazione importante e suggestiva di François Furet (1927-1997), secondo cui il processo rivoluzionario sostituisce, come elemento legittimante per la società europea, la sanzione religiosa con l’idea di nazione. Ciò equivale a dire che da un ordine che poggiava su un fondamento universalistico-religioso e si articolava in un pluralismo sociale, legittimo in sé, di fronte al quale il potere regio e statuale era semplicemente superiore ma non alternativo, si passa a un nuovo ordine politico, che è costretto a trovare la sua legittimazione altrove. Ed è il paradosso della Francia rivoluzionaria, che pure parte anch’essa da un ideale universalistico ma poi perviene a un ideale nazionalistico, come possono sperimentare le popolazioni italiane quando arrivano i soldati francesi. Essi in realtà non agiscono in nome di un principio universale, ma agiscono in nome dell’interesse nazionale francese, della politica del Direttorio di Parigi, della strategia consolare e poi imperiale di Napoleone Bonaparte (1769-1821). Questo è l’atteggiamento espresso dalla Francia — tra l’altro con molte ragioni, dal suo punto di vista — nel ventennio che va dagli anni Novanta del Settecento fino alla battaglia di Lipsia (1813). Il problema è che il nuovo fondamento che viene posto, il nuovo elemento di legittimità che viene cercato e trovato nella nazione, si presenta come auto-referenziale. Di qui nasce il dramma, perché l’idea di nazione che esce dalla Rivoluzione francese e a cui si contrappongono presto tutti gli altri nazionalismi — il nazionalismo tedesco, quello dell’Europa balcanica e danubiana, quelli che drammaticamente vediamo ancora all’opera ai nostri giorni, sono tutti figli, in un complesso rapporto di amore-odio, della Rivoluzione francese — si basa a sua volta su se stessa e quindi il potere che ne deriva non conosce limiti. Al contrario, il potere pre-moderno trova i suoi limiti nel diritto naturale e divino, come pure nella sua stessa intima natura: il suo fondamento stesso lo limita. Dopo la Rivoluzione, invece, questo fondamento non c’è più, per cui il potere tende, appena può, a farsi invasivo di ogni aspetto della vita sociale. Questo spiega ad esempio perché in terra veneta dalla prima Insorgenza del 1797, combattuta in nome di San Marco — anche se San Marco a quel punto non aveva più la forza di aiutare nessuno —, si passa a insorgenze, soprattutto quella del 1809, che vengono combattute in nome di un ideale imperiale, perché si ravvisava nell’Impero asburgico — a torto o a ragione, non importa — l’erede di quell’antico ordine politico, che poteva in qualche modo assicurarne la continuità. D’altra parte, questo spiega anche l’andamento drammatico della storia successiva dell’Europa, che finisce per smarrire il suo riferimento e che perde quella profonda unità fra i popoli che discendeva proprio da un comune principio religioso, che nondimeno era un principio politico, culturale e giuridico. Quando questo legame viene infranto, allora inevitabilmente la logica diventa quella della forza, della conquista. L’Insorgenza è il banco di prova, è ciò che mostra l’ambiguità profonda del nuovo potere e la contraddizione insita in esso: quella di un ideale universalistico, che poi diventa invece affermazione di un interesse specifico e particolare.
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