Se mi è lecito indulgere a qualche annotazione di carattere personale, terrei a dire che ho conosciuto il nome di Silvio Vitale fin dagli anni della giovinezza, quando la sua rivista L’Alfiere fu uno degli strumenti scelti dalla Provvidenza per propiziare la mia conversione culturale al cattolicesimo, prodromo di quella conversione della volontà e del cuore, che, grazie ad altre «agenzie» e anche se sempre in fieri, seguì di lì a poco.
La struggente nostalgia che mispiravano, in sintonia fra loro, gli articoli della rivista e i racconti di Carlo Alianello (1901-1981) — il nome della rivista riprendeva quello del romanzo più celebre di Alianello — per tutto quel mondo che trovava il suo referente ultimo in una antica monarchia dove anche il re parlava napoletano e dove ancora regnavano la fede e il senso dell’onore, mi è rimasta impressa per sempre nella memoria.
E non solo come un luogo ove far ritorno per riposare lo spirito, ma come un robusto, ancorché nebuloso, «luogo di bene» cui ispirarsi, per esempio, per compiere meno peggio i doveri di padre. Una scena de L’Alfiere mi rimase con particolare forza nel ricordo: pochi giorni prima dell’ingresso di Garibaldi, il padre del protagonista, accomiatandosi dal figlio prima di raggiungere in esilio Roma, raccomanda al giovane come essenziale una cosa sola: «procura di non rimanere mai, neppure un’ora, in peccato mortale». Ebbene questa nota, per quanto en passant, secondo cui l’anima è la cosa più preziosa che abbiamo, proprio perché incastonata in quel contesto, si fissò e fermentò per il bene.
Questa nostalgia, in ultima analisi germinata su un fondo estetizzante, si tramutò tuttavia a poco a poco in nostalgia per i principi e per i valori di quel mondo, per quelle mete che vi si rinvenivano al di sotto, ossia la grande visione del cosmo, dell’uomo e della società umana che il cattolicesimo romano rifletteva, e che oggi, pur nelle mutate circostanze, ancora mi ispira.
Ebbi poi modo di godere dei numerosi prodotti editoriali scaturiti — quasi come figli intellettuali —, uno dopo l’altro nel corso degli anni, dalla sua operosa fucina di studioso innamorato del passato della sua terra e dell’Italia: dalla Lettera del Principe di Canosa contro Pietro Colletta agli studi sullo stemma del Regno delle Due Sicilie.
Vitale fu senza dubbio un valido meridionalista, ma non un meridionalista dei tanti — da Fortunato, a Dorso, a Salvemini, a Gramsci — che dopo l’Unità si succedettero in quella che divenne a lungo andare una sorta di professione, quanto meno intellettuale: costoro — mi si passi la metafora —, contemplandone le rovine, sembrano lamentare le conseguenze del crollo del palazzo sui suoi abitanti, senza dolersi che il palazzo sia crollato o fatto crollare. Vitale ebbe invece sempre ben presente quanto fosse pesato sulle sorti del Mezzogiorno l’abbattimento manu militari, un giorno per l’altro, dell’antica monarchia e, soprattutto, la cancellazione dell’identità culturale napoletana e l’orgoglio di essere già nazione e Stato.
Solo poco tempo fa, nel febbraio del 2004, tuttavia, ho avuto modo di conoscerlo, per un’unica volta, di persona a Gaeta e poi di risentirlo più volte telefonicamente da Milano.
Ho così potuto in extremis, e del tutto nel senso pieno di quest’espressione, direi conoscerne ed apprezzarne i modi signorili ed il tratto affabile, che rivelavano in lui un plafond spirituale genuinamente nobile. Una serietà, una serenità, un senso della misura, un sostanziale affidamento alla Provvidenza della battaglia che aveva intrapreso fin dagli anni giovanili ed è proprio questa la quintessenza dell’umiltà, che scaturivano dalla sua fine cultura umana e dal suo profondo senso religioso, che trasfondeva in una schietta e saporita napoletanità.
Su questa base fu giocoforza instaurare con lui un subitaneo rapporto basato sulla simpatia e sul reciproco apprezzamento.
Dopo aver letto i miei poveri sforzi di dare una voce e una interpretazione del fenomeno dell’Insorgenza popolare italiana e aver sfogliato le raccolte di saggi di storia moderna e contemporanea che avevo pubblicato sotto l’etichetta di Annali Italiani, aveva pensato d’invitarmi al convegno che il movimento tradizio-nalista, di cui era parte, organizzava tutti gli anni a Gaeta per parlare dell’opposizione intellettuale anti-risorgimentale. In quella sede ho avuto modo di verificare quanto la sua apertura, la sua erudizione e la sua cultura fossero più vaste di quelle che trasparivano mediamente dagli altri interventi dei simpatizzanti e militanti neo-borbonici. Nel suo intervento Introduzione ad una rilettura del Risorgimento Vitale aveva infatti evidenziato una non comune conoscenza della storia italiana e dei suoi nodi e un eccellente dominio delle fonti, che rendevano la sua relazione più una lezione che altro.
Sul tema dell’intellettualità italiana anti-risorgimenta-le e su altri ancora era nato poi un colloquio e un confronto a distanza ― lunghe telefonate tardo-pomeridiane ―, così come sulle sue più recenti pubblicazioni ― che aveva voluto inviarmi in omaggio, cosa di cui lo ringrazio nuovamente nella certezza che la communio sanctorum e la buona educazione non finiscono con la morte. Soprattutto stava a cuore a Silvio il progetto di redigere un dizionario biografico degli storici e degl’intellettuali che avevano animato la cultura italiana nel periodo in cui in essa facevano irruzione le «idee nuove», il «diritto nuovo», la «religione civile», ossia l’Ottocento e il Novecento. Parlava di questa idea con giovanile intraprendenza ed entusiasmo ―
in Silvio si poteva verificare quanto la fede conservi giovani! ―: mi disse che aveva raccolto negli anni un notevole materiale, naturalmente soprattutto sul Mezzogiorno, che sarebbe stato utile integrare con quanto ero riuscito a mettere assieme in un profilo della storiografia anti-risorgimentale pubblicato nel 2001 nel volume La Rivoluzione italiana. Storia critica del Risorgimento.
Purtroppo l’iniziativa è rimasta allo stato d’idea: ma, se Dio vorrà, nel futuro riprenderò questa idea, anche in omaggio alla sua memoria.
Della sua biografia umana e intellettuale non so molto di più di quello che è già apparso in altre memorie fatte di lui.
Era nato a Napoli nel 1928 e svolgeva la professione di avvocato civilista e di pubblicista. Da sempre schierato anche politicamente «a destra» — è stato consigliere comunale, consigliere regionale ed europarlamentare — aveva riscoperto fin da giovane la storia della sua città e dell’antico regno di cui era stata per settecento anni la capitale. Aveva contemporaneamente constatato quanto infelice fosse stato il destino del Regno e della Casa regnante, i Borbone-Napoli, in conseguenza dell’aggressione militare subita da parte del neonato Regno d’Italia nel 1860. A cent’anni dalla fine della monarchia borbonica, nel 1960, nasceva per opera di Vitale e di altri intellettuali meridionali, come Alianello, L’Alfiere, la rivista di studi storici e tradizionalistici destinata e durare fino a oggi e a influenzare in maniera forte la cultura italiana. Da esse nacque un movimento di opinione sempre meno affetto da nostalgie sentimentali e sempre più vicino a una forma di contro-cultura, da cui prenderanno le mosse diverse formazioni di azione civica e culturale, che costituiscono oggi quello che viene chiamato in senso lato il movimento neo-borbonico.
Anche a lui si deve la riscoperta di autori importanti nella polemica anti-unitaria, ma anche nella cultura alternativa e antagonistica a quella liberale che aveva fatto l’Italia e che, sebbene con minor fortuna rispetto al secolo XIX, allora, negli anni 1960, costituiva ancora parte non irrilevante della cultura egemone. Le voci del Principe di Canosa, di Monaldo Leopardi, di Giacinto de’ Sivo e di tanti altri, attraverso L’Alfiere e le altre pubblicazioni promosse dalla rivista, uscivano dalla polvere dei secoli e riallacciavano con il lettore tardo-novecentesco un dialogo tutt’altro che infecondo.
Ma non vi erano solo le voci dei «padri»: anche studiosi contemporanei come lo spagnolo Francisco Elias de Tejada y Spínola (1917-1978), un altro innamorato della napoletanità, filtrata dal suo amore per la Spagna o per «le» Spagne, le tante Spagne nella Penisola iberica, o quelle che nel mondo la storia aveva disseminato. Di Tejada Vitale aveva tradotto l’opera Nápoles hispanico, di cui aveva potuto curare l’uscita di tre dei cinque volumi.
Così pure attraverso i periodici incontri degli scrittori e dei simpatizzanti della rivista a Gaeta, a Civitella del Tronto, a Napoli, le idee di questo gruppo di intellettuali uscivano dalle «sacrestie» della cultura per diventare oggetti di dibattito civico e popolare e stimoli per un’azione civile meno subordinata alle ideologie imperanti.
Silvio Vitale ha legato la sua esistenza a questo sforzo per la riscoperta di un passato che si è voluto far passare troppo in fretta e perché su questa base, su questo zoccolo di memoria si costruisse il futuro di Napoli, delle terre dell’antico regno e dell’Italia tutta: un futuro meno in contrasto con le radici partenopee e cristiane del suo popolo.
Per questo l’ho e l’abbiamo caro.