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a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale





STRAGE DI PORZÛS UN’OMBRA
CUPA SULLA RESISTENZA


di Paolo Deotto


7 febbraio 1945, mercoledì, alle 14,30. Nelle malghe di Porzûs, due casolari sopra Attimis, in provincia di Udine, ha sede il comando del Gruppo Brigate Est della divisione partigiana Osoppo, formata dai cosiddetti «fazzoletti verdi» della Resistenza, cattolici, azionisti e indipendenti. Giungono in zona cento partigiani comunisti, agli ordini di Mario Toffanin — nome di battaglia Giacca — sotto le false spoglie di sbandati in cerca di rifugio dopo uno scontro con i nazifascisti. In realtà, è una trappola: alla malga vengono uccisi il comandante della Osoppo, Francesco De Gregori — nome di battaglia Bolla —, il commissario politico Enea, al secolo Gastone Valente, una giovane donna sospettata di essere una spia, Elda Turchetti, e un giovane, Giovanni Comin, che si trovava a Porzûs perché aveva chiesto di essere arruolato nella Osoppo. Il capitano Aldo Bricco, che si trovava alle malghe perché doveva sostituire Bolla, riesce a fuggire e salva la vita perché i suoi inseguitori, dopo averlo colpito con alcune raffiche di mitra, lo credono morto.
Altri venti partigiani osovani vengono catturati e condotti prima a Spessa di Cividale e poi nella zona del Bosco Romagno, sopra Ronchi di Spessa, una ventina di chilometri più a valle. Due dei prigionieri si dichiarano disposti a passare tra i garibaldini. Gli altri saranno tutti uccisi e sbrigativamente sotterrati tra il 10 e il 18 febbraio. Della cosa si cercò di non far trapelare nulla. Ancora un mese dopo c’era chi assicurava che i capi Bolla ed Enea erano tenuti prigionieri dai garibaldini o dagli sloveni.
«[…] La propaganda clericale del tempo descriveva i partigiani comunisti, inquadrati nelle Brigate Garibaldi, come dei Satana spergiuri che volevano consegnare il Friuli alla Jugoslavia. Furono del resto pure inglobati nella Osoppo molti fascisti, come il Reggimento Alpini Tagliamento (formazione della Repubblica di Salò) che operava nella zona con il compito di combattere i «comunisti jugoslavi» e questo avvenne con la mediazione dell’Arcivescovado di Udine (Arcivescovo Nogara). Lo scopo della Osoppo e della Tagliamento infatti coincideva, l’obiettivo comune era quello di criminalizzare i partigiani delle Garibaldi.
In molte zone facevano persino presidi misti, cioè repubblichini e osovani.
Quelli della Osoppo, si appropriavano delle forniture inglesi che spettavano alle Garibaldi, l’accordo con gli inglesi era che il 30% di ogni lancio fatto alla Osoppo doveva essere destinato alle Garibaldi. Quelli della Osoppo non rispettarono mai l’accordo ed i Garibaldini per approvvigionarsi e procurarsi armi dovevano assaltare i presidi tedeschi e fascisti»
. Così in un’intervista rilasciata nel 1996 dal comandante partigiano Mario Toffanin, Giacca.
«[…] La Grande Slovenia, volevano i partigiani comunisti. Noi volevamo solo combattere per la libertà, non per il comunismo, ed eravamo favorevoli a lasciare ad un referendum dopo la liberazione la scelta sui confini… Bolla, il comandante, alzava la bandiera, bandiera italiana, bandiera con lo stemma sabaudo. Io lo mettevo in guardia: attento, gli dicevo, la vedono i comunisti e i partigiani sloveni, quello stemma a loro ricorda il fascismo, toglila. E lui no, cocciuto, perché credeva sopra ogni cosa all’Italia, senza compromessi, senza tante prudenze politiche… Avevamo sempre operato insieme, anche se noi cattolici ci preoccupavamo, oltre che della onestà dei fini, anche della onestà dei mezzi. Ci furono discussioni assai accese con i comandanti comunisti sulla necessità di azioni che comportavano sacrifici di vite umane».
Così si espresse in un’intervista nel 1997 monsignor Aldo Moretti, Lino, medaglia d’oro al valor militare, uno dei fondatori della Divisione Osoppo.
Quando lo stesso anno il regista Renzo Martinelli doveva girare gli esterni del suo film Porzûs, si trovò alle prese con i divieti di diversi sindaci, che non consentirono le riprese sui loro territori. Erano passati più di cinquant’anni, ma di Porzûs molti non volevano neppure parlare; non mancò chi chiese di vietare la presentazione del film al festival del cinema di Venezia.
Cattive coscienze, risentimenti, fanatismo ideologico duro a morire, uniti ad una insopprimibile abitudine a riscrivere la storia con ottica di parte, hanno fatto sì che a tutt’oggi restino dei punti interrogativi su quella cupa vicenda. Non abbiamo la pretesa di poter fornire tutte le risposte; confidiamo solo che una rilettura seria e serena sia possibile, a passioni sopite e senza nessun preconcetto. E speriamo che cinquantasei anni di distanza siano sufficienti, non fosse altro per rendersi conto che non esiste causa, per nobile che sia, che possa trarre giovamento dalle falsificazioni della realtà.
Molti segreti se li portò nella tomba Mario Toffanin, Giacca. A differenza di altri, Giacca su Porzûs aveva parlato molto, dando tante versioni diverse, con una sola costante: «se li avessi di nuovo davanti, li accopperei ancora tutti». Morì, ottantaseienne, venerdì 22 gennaio 1999, nell’ospedale della cittadina di Sesana, in Slovenia. Era lui il comandante dei reparti che compirono l’eccidio. Il protagonista della vicenda, almeno il più visibile; non necessariamente il più consapevole.

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Partigiani contro partigiani, con accuse reciproche, fino al tragico epilogo di sangue.
Nella vicenda di Porzûs si materializza violentemente quello che fu il problema centrale della Resistenza: la competizione, più che la collaborazione, tra i diversi gruppi ideologici. In più si aggiunsero le rivendicazioni territoriali slovene, che avevano una loro legittimità storica, ma che contribuirono ad arroventare una situazione già calda.
Ma non possiamo leggere queste vicende, accadute in quell’estremo lembo di territorio italiano tra le provincie di Udine e Gorizia, se prima non accenniamo brevemente alla nascita della Resistenza in Italia e ai suoi sviluppi.
Una storiografia oleografica ci ha spesso presentato la Resistenza come un movimento di popolo, una spontanea ribellione di massa contro l’oppressione fascista e nazista. Se vogliamo guardare più realisticamente ai fatti, partiamo da una data fondamentale: 25 luglio 1943. Il Gran Consiglio del Fascismo vota a maggioranza un ordine del giorno presentato da Dino Grandi, che, chiedendo il ripristino dei poteri degli organi costituzionali — il parlamento e la Corona —, di fatto sfiducia il Duce Benito Mussolini, mettendo fine a diciotto anni di una dittatura che, se negli anni precedenti aveva goduto di un grande seguito popolare, aveva poi gettato l’Italia nella tragedia della seconda guerra mondiale. Il Re, Vittorio Emanuele III, fa arrestare Mussolini e nomina primo ministro il maresciallo Pietro Badoglio. Sul 25 luglio, sulle effettive intenzioni degli uomini che causarono la caduta del Duce, si discute e si discuterà ancora a lungo. Ma resta un dato di fatto: il fascismo fu liquidato dai fascisti e dal Re, né le attività clandestine di gruppi antifascisti ebbero alcun peso sull’estromissione di Mussolini dal potere.
Le ambiguità di Badoglio, l’illusione di poter tenere a bada contemporaneamente gli Alleati e i tedeschi, le incertezze di un Re più preoccupato delle sorti della Corona che di quelle della Patria, si tradussero in un mese e mezzo di politica ambivalente e pasticciona, col solo risultato di consentire ai tedeschi, che avevano ben poca fiducia nella lealtà del nuovo governo italiano, di rinforzare massicciamente la propria presenza militare nella penisola, limitata, al 25 luglio, a quattro divisioni. Quando l’8 settembre di quel tragico 1943 fu reso noto l’armistizio firmato unilateralmente cinque giorni prima dall’Italia con gli Alleati, le truppe tedesche furono pronte a disarmare numerosi reparti dell’esercito italiano e ad arrestare e deportare centinaia di migliaia di militari dell’ex alleato, ora considerato traditore. Lo sbandamento delle forze armate in quei terribili giorni fu quasi totale, anche se non mancarono episodi di resistenza eroica da parte di unità che non accettarono supinamente il disarmo. La nascita di quell’ombra di Stato che fu la Repubblica Sociale Italiana e la conseguente divisione dell’Italia tra repubblica fascista al Nord, e Regno del Sud — nei territori che via via venivano conquistati dagli Alleati risalendo la penisola —, segnarono l’inizio della guerra civile in Italia.
Le prime bande che si costituirono in funzione anti-tedesca e anti-fascista erano formate perlopiù da militari che erano riusciti a sottrarsi ai rastrellamenti massicci che le truppe germaniche iniziarono subito dopo lּ settembre, o che non accettarono di servire nella Repubblica Sociale, considerata, a ragione, poco più che un paravento dei veri padroni, i tedeschi. Si trattava di unità isolate, senza collegamenti tra loro e senza una strategia definita, generalmente guidate da ufficiali che si sentivano comunque vincolati dal giuramento di fedeltà al Re. Ma la Resistenza assunse ben presto caratteristiche marcatamente politiche; l’armistizio preludeva inevitabilmente a uno sganciamento dell’Italia dall’alleanza con la Germania, con le inevitabili ritorsioni che sarebbero venute — come vennero — da quest’ultima. I partiti politici anti-fascisti, che iniziavano a ricomparire dalla clandestinità al passo dell’avanzata degli alleati sul territorio italiano, non potevano rischiare un altro 䋥 luglio», restando tagliati fuori dal gioco; le sorti della guerra erano segnate, la sconfitta della Germania era considerata inevitabile — anche se nessuno credeva che ci sarebbero voluti ancora quasi due anni di guerra — e si trattava di prepararsi per il futuro assetto che l’Italia avrebbe dovuto assumere al termine del conflitto. Il primo CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) sorse a Roma, già il 9 settembre 1943. Lo fondarono Ivanoe Bonomi, indipendente, Alcide De Gasperi per la Democrazia Cristiana, Alessandro Casati per i liberali, Pietro Nenni per i socialisti, Mauro Scoccimarro per il partito comunista e Ugo La Malfa per il Partito d’Azione. Aderì poi al CLN anche Meuccio Ruini, in rappresentanza di Democrazia del Lavoro. Al CLN Bonomi rivendicò il diritto di essere considerato come «l’unica organizzazione capace di assicurare la vita del paese». Era un’affermazione perlomeno ottimistica, se non poco realistica, considerando che al momento il CLN rappresentava poco più che sé stesso, in una situazione nazionale di estrema confusione. Ma era stato gettato il seme, e l’incitamento «per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza e per riconquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni» veniva da un organismo politico e si sarebbe concretizzato nella costituzione di bande partigiane, che esplicitamente si richiamavano agli ideali politici dei partiti di riferimento. I partigiani di Italia Libera aderivano al Partito d’Azione, una formazione politica di élite che si sarebbe dissolta molto presto dopo la guerra, ma che raccoglieva uomini di grande valore come Ferruccio Parri, Emilio Lussu, Leo Valiani, Aldo Garosci. Le Fiamme Verdi erano i partigiani di ispirazione cattolica, forti soprattutto nel Bresciano e nell’Udinese; con loro si unirono anche molti liberali e indipendenti. Le Brigate Garibaldi, braccio armato del partito comunista, furono il primo gruppo partigiano a darsi una struttura organica, istituendo a Milano, all’inizio del novembre 1943, un Comando Generale, con a capo Luigi Longo e con Pietro Secchia come commissario politico.
Sarebbe qui interessante anche approfondire le differenze tra Resistenza al Nord e al Sud, ma non vogliamo esulare troppo dal nostro tema. Da quanto finora esposto appare già evidente che il movimento partigiano ebbe, aldilà del denominatore comune della lotta contro fascisti e nazisti, la caratteristica di raccogliere gruppi politici tra loro antitetici, riflettendo quell’innaturale alleanza tra Unione Sovietica e mondo capitalista, resa inevitabile dalla comune lotta contro il nazismo. Tuttavia ci sono alcuni punti che è importante sottolineare, perché ci aiuteranno a capire meglio la genesi di eventi come la strage di Porzûs.
La Resistenza non ebbe in Italia un peso militare determinante, né lo avrebbe potuto avere, perché restò sempre un fenomeno elitario e comunque in buona parte legato, per la sua sopravvivenza, ai rifornimenti di armi, viveri, materiale, che gli alleati iniziarono ad effettuare alla fine del 1943, dopo un primo incontro avuto in Svizzera da Ferruccio Parri e Alfredo Pizzoni con Allen Dulles, capo dei servizi segreti americani. Gli anglo-americani, del resto, avevano interesse a mantenere il contatto e, per quanto possibile, il controllo sui gruppi partigiani, sia per operazioni di sabotaggio, di appoggio, di informazione, sia perché questi costituivano comunque la longa manus di quei partiti politici che avrebbero determinato la politica italiana del dopoguerra. E l’alleanza tra gruppi che sopra definivamo antitetici fece sì che nel movimento partigiano si trovassero contemporaneamente monarchici e repubblicani, liberali e comunisti, militari gelosi delle propria apoliticità contrapposti a quanti invece consideravano la Resistenza anzitutto un fenomeno politico. Una posizione del tutto peculiare era poi quella del partito comunista, che fu il partito che diede più combattenti di tutti gli altri alle forze partigiane, ma che era guardato con sospetto dai gruppi «alleati» per i suoi mai recisi legami con Mosca, e che a sua volta ricambiava con sospetto gli altri gruppi, ai quali via via attribuiva simpatie monarchiche, badogliane, capitaliste, se non addirittura tout court fasciste.
Se formalmente i gruppi partigiani dipendevano dal CLN e, per l’Italia settentrionale, dal CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, costituito alla fine del 1943), delegato del CLN romano, di fatto la gran miscela di gruppi diversi generò anche due visioni ben diverse dello stesso concetto di «lotta partigiana». I gruppi che facevano capo alla Democrazia Cristiana e che raccoglievano tra loro anche la maggior parte delle prime bande autonome — di origine, come vedevamo, perlopiù militare —, nonché liberali e spesso anche azionisti, furono sovente accusati di «attendismo» dai comunisti quando decidevano di evitare scontri diretti con le truppe tedesche, se la disparità di forze faceva presumere l’inutilità militare dello scontro. Viceversa furono una creatura comunista i GAP (Gruppi di Azione Patriottica), piccoli gruppi di non più di cinque-dieci elementi, che agivano soprattutto nelle città, con azioni veloci contro tedeschi e fascisti. Le azioni dei GAP spesso non avevano alcun peso dal punto di vista militare, ma il loro scopo era dichiaratamente quello di mantenere una tensione contro l’occupante e di mantenere sempre vivo lo spirito di lotta del combattente partigiano, nonché quello, meno dichiarato, di mostrare a nemici e alleati che il partito comunista sapeva colpire con decisione e durezza.
Alle accuse di «attendismo» spesso veniva controbattuto accusando i comunisti di inutile spietatezza e cinismo, perché le azioni dei GAP provocavano poi l’inevitabile rappresaglia tedesca. L’attentato di via Rasella, a Roma, con la conseguente strage alle Fosse Ardeatine, resta in questo senso emblematico. Ma, se vogliamo fare un altro esempio, un attentato come quello che costò la vita al filosofo Giovanni Gentile fu un’altra azione decisa autonomamente dal partito comunista ed attuata dai GAP, in un quadro di una lotta sempre più crudele.

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Pensiamo di aver delineato abbastanza il quadro di frazionamento e di rivalità intestine che contraddistinse tanti momenti della lotta partigiana; ci scusiamo con gli amici lettori per la non breve digressione, peraltro indispensabile per inquadrare gli avvenimenti che andremo a rileggere.
La Divisione Osoppo era nata nella notte fra il 7 e lּ marzo 1944, quando si erano incontrati al seminario di Udine don Ascanio De Luca, don Aldo Moretti e il parroco di Attimis, don Zani. In quella riunione era stata battezzata l’organizzazione clandestina con il nome del paese friulano, Osoppo, dove i patrioti risorgimentali combatterono gli austriaci. I partigiani che la componevano erano quasi tutti ex alpini, di tendenze democristiane, azioniste o liberali; i simboli della divisa erano il cappello con la penna d’aquila e il fazzoletto verde, «colore della speranza e delle nostre montagne, che ci distinguerà chiaramente dai fazzoletti rossi», come disse uno dei fondatori, don De Luca.
La base per il reclutamento e le prime azioni fu l’eccentrico e disabitato castello Ceconi a Pielungo, nella Val d’Arzino. I due capitani Candido Grassi (Verdi) e Manlio Cencig (Mario), e don De Luca (Aurelio) formarono i primi reparti, rifornendosi di armi attraverso i lanci aerei organizzati dalle missioni alleate. Si presentò subito la questione dei rapporti con le formazioni garibaldine. Se comune appariva la guerra all’occupante tedesco, diverse erano le posizioni relative al «dopo» e cioè alla sistemazione dei confini a conflitto concluso.
I trattati del 1924 avevano inserito nel territorio italiano ampie regioni miste o a maggioranza slava; correzioni e rettifiche apparivano ovvie; ma le rivendicazioni slovene erano inaccettabili per gli osovani. La comunanza ideologica tra sloveni e garibaldini alimentava il sospetto che questi ultimi volessero realizzare un’annessione «di fatto». Le formazioni comuniste a loro volta ricambiavano la diffidenza, sospettando gli osovani di atteggiamenti reazionari, accusandoli di avere come primo scopo non la lotta ai nazifascisti, bensì la lotta ai comunisti. In questo clima, i periodici tentativi — ve ne furono una ventina — di creare un comando unificato finirono sempre nel nulla.
In particolare, un comando unificato si sarebbe dovuto costituire dopo un’incursione tedesca nel castello di Pielungo. Nel vecchio maniero gli osovani avevano rinchiuso alcuni militari tedeschi catturati in uno scontro. Reparti tedeschi, con un’improvvisa azione di commando, riuscirono a liberare i loro commilitoni. L’episodio ebbe conseguenze immediate: il CLN udinese e quello regionale veneto (CRV) intervennero destituendo i due principali responsabili dell’Osoppo, Grassi-Verdi e De Luca-Aurelio, accusati di comportamento imprudente, non avendo predisposto sufficienti servizi di guardia, e affidarono al maggiore Lucio Manzin (Abba) il comando provvisorio. Per i due capi osovani, arresto «sulla parola», in attesa di decisioni. Cosa per nulla gradita a quelli dell’Osoppo, anzi. Peggio ancora fu quando a metà agosto, in un incontro fra CLN, garibaldini e osovani a San Francesco, sopra Pielungo, fu stabilito il nuovo organigramma dell’Osoppo. Al comando, per la parte militare, Abba, del Partito d’Azione, suo vice il comunista Lino Zocchi (Ninci), capo delle Garibaldi. Commissario il comunista Mario Lizzero (Andrea), vice-commissario l’azionista Comessatti-Spartaco. In pratica il «comando unificato» era posto in mano ai comunisti e agli azionisti, considerati loro paravento. Le formazioni osovane reagirono con una specie di golpe, al quale CLN e garibaldini dovettero arrendersi. Destituiti gli azionisti Abba e Spartaco, i vecchi comandanti tornarono ai loro posti. Ribaltamento incruento per fortuna, ma che la diceva lunga, se gli uni e gli altri si fronteggiavano mitra in spalla.
D’altra parte difficilmente gli osovani potevano accettare quello che di fatto si sarebbe tradotto in un «inglobamento» nelle formazioni garibaldine, quando le stesse, poche settimane prima, in località Piancicco, avevano sottratto, mitra alla mano, un carico di armi destinate all’Osoppo, paracadutate dagli alleati.
Pur in questa continua contrapposizione, garibaldini e osovani riescono a combattere insieme, quando, il 27 settembre 1944, irrompono dal passo di Tarvisio 30.000 uomini tra tedeschi, fascisti e cosacchi al servizio della Wehrmacht, ben decisi ad eliminare due «zone libere», comprendenti 55 comuni sulle montagne e nei territori pedemontani al di qua e al di là del Tagliamento. Quest’oasi di libertà, che durava da poco più di due settimane, viene devastata con artiglieria, carri armati e due treni blindati. In tre giorni di battaglia nel triangolo Tarcento-Bergogna-Cividale i partigiani perdono oltre 400 uomini tra morti e dispersi. Il 2 ottobre i tedeschi attaccano nuovamente su tutto il fronte partigiano, da Meduno a Bordano, lasciando mano libera alle truppe cosacche, che si abbandonano ad ogni tipo di violenza. Le forze partigiane devono ripiegare. Il gruppo Brigate Est della Divisione Osoppo si porta nella zona di Attimis, ponendo il proprio comando alle malghe di Porzûs. In zona è presente anche la brigata Garibaldi-Natisone, che ha il suo comando nel vicino villaggio di Canebola.
La fratellanza d’armi che ha visto garibaldini e osovani combattere assieme sta nuovamente svanendo, perché altri avvenimenti sono nel frattempo maturati.
Il 6 settembre le truppe sovietiche, occupata la Romania, si erano congiunte all’armata popolare di Josip Broz (Tito). Con grande delusione degli alleati — che al futuro maresciallo avevano sacrificato il generale Draza Mihajlovic, leader della resistenza monarchica — Tito attuò la «svolta stalinista». La pressione per spostare la linea di frontiera lungo il Tagliamento si fece via via più accentuata. Risale al 9 settembre il messaggio di Edvard Kardelj, capo delle forze di liberazione slovene e luogotenente di Tito, ai capi comunisti dell’Alta Italia. Kardelj parlava di una «comune presa di potere nella regione Giulia di comunisti italiani e sloveni». Ad una prima missione segreta, a giugno, del plenipotenziario sloveno Anton Vratusa (professor Urban) al CLNAI di Milano aveva fatto seguito una seconda trasferta a settembre, con precise richieste sulla delimitazione dei confini. Il generale Raffaele Cadorna, comandante militare del CLNAI si era dichiarato contrario, mentre Longo era favorevole alle richieste slovene. Fu deciso un rinvio a guerra conclusa, ma le aspirazioni slovene e la disponibilità comunista non erano un segreto e il clima di diffidenza e sospetto ai confini orientali non poteva che aumentare. Contribuì poi a gettare benzina sul fuoco la lettera di Palmiro Togliatti, segretario del partito comunista, con la quale si ordinava al comando della brigata Garibaldi-Natisone di porsi alle dipendenze operative del IX Corpo d’Armata (o Corpus) sloveno; la lettera conteneva anche il testo dell’ordine del giorno da approvare: «I partigiani italiani riuniti il 7 novembre in occasione dell’anniversario della Grande Rivoluzione (rivoluzione russa del 1917; n.d.a.) accettano entusiasticamente di dipendere operativamente dal IX Corpus sloveno, consapevoli che ciò potrà rafforzare la lotta contro i nazifascisti, accelerare la liberazione del Paese e instaurare anche in Italia, come già in Jugoslavia, il potere del popolo».
Parlavamo in precedenza del potere più formale che sostanziale del CLN sulla condotta della guerra partigiana: di fatto un ordine operativo come quello sopra citato avrebbe dovuto pervenire, al più, dal comando del CLNAI. Se è doveroso riconoscere al partito comunista il più alto contributo, in uomini e in sangue, alla lotta di liberazione, è altrettanto doveroso sottolineare come esso perseguì sempre e comunque la sua propria politica, che si sostanziava nella cooperazione con gli altri partiti democratici — la cosiddetta «svolta di Salerno» era la rassicurazione che il PCI seguiva una «via italiana al socialismo» —, attuata da Togliatti nel Regno del Sud e contemporaneamente nell’atteggiamento «internazionalista» che significava di fatto l’acquiescenza ai progetti sovietici che, nel caso dei confini orientali italiani, erano ben chiari e facevano conto sul leader jugoslavo Tito, allora considerato un docile stalinista.
In questo clima non c’è da stupirsi che gli osovani respingano la proposta di integrarsi anch’essi nel IX Corpus: la proposta poteva avere un senso dal punto di vista operativo, per porre sotto un unico comando tutte le forze impegnate nella lotta contro fascisti e nazisti. Ma ormai l’ordine normale delle cose era stravolto: gli alleati erano tra loro avversari e sempre meno il comune nemico poteva cementare una fiducia che non esisteva più.
Il 7 novembre 1944, mentre a Canebola i garibaldini festeggiano l’adesione alle formazioni di Tito, a Porzûs il capitano De Gregori (Bolla), che già si trovava a forza ridotta perché molti partigiani erano stati inviati in licenza per la sospensione invernale delle operazioni, convoca i suoi e fa presente la situazione di tensione che si è creata con la Garibaldi-Natisone. «Vogliono farci sloggiare. Chi vuole andarsene è libero di farlo. Io resto». Restarono alle malghe in una ventina.
Chi volle l’eccidio del 7 febbraio? La risposta a tutt’oggi non è sicura. Di certo c’è l’esistenza di una lettera firmata da Kardelj, indirizzata a Vincenzo Bianchi, nome di battaglia Vittorio, rappresentante del Partito Comunista Italiano presso il IX Corpus, che era tornato da Mosca insieme con Togliatti, in cui lo si invita a liquidare le formazioni partigiane che, in Friuli, non accettano di porsi agli ordini del IX Corpus. Ed altrettanto certo è che, dopo il rifiuto degli osovani a integrarsi nel comando del IX Corpus sloveno, incominciano a circolare, sempre più insistenti, le voci di «tradimento». Queste voci d’altra parte trovavano facile esca in alcuni contatti, peraltro mai negati dai partigiani osovani, sia con la Decima Flottiglia Mas, la milizia comandata da Junio Valerio Borghese — numerosi reparti della quale erano stati schierati a difesa del confine orientale —, sia con il federale fascista di Udine, Mario Cabai, che si fa latore di un’ambigua proposta dell’SS Sturmbannführer (tenente colonnello) Von Hallesleben, comandante della piazza di Pordenone. In entrambi i casi si propone agli osovani di formare un fronte comune contro i comunisti e, nel caso della Decima Mas, contro comunisti e nazisti, in nome della difesa dell’italianità del Friuli. Erano gli ultimi mesi di una guerra le cui sorti erano ormai chiare a tutti e nell’atmosfera un po’ surreale da «si salvi chi può» le proposte stravaganti non mancavano. Bisogna sottolineare che in entrambi i casi fu la Osoppo ad essere sollecitata alle trattative, che non furono una sua iniziativa; e in entrambi i casi le proposte furono respinte. Ma mentre le proposte tedesche furono dirette ed immediatamente rifiutate con due lettere — una del 28 dicembre 1944 e l’altra del 10 gennaio 1945 — di don Aldo Moretti, consegnate all’arcivescovo di Udine mons. Giuseppe Nogara, che a sua volta le consegnò al federale Cabai, nelle proposte di Borghese, non mancò chi vide lo zampino dell’ufficiale del genio Thomas John Roworth, detto «maggiore Nicholson», che guidava la missione inglese in zona, e che avrebbe voluto così acuire, in chiave anti-comunista, la divisione tra osovani e garibaldini. In questo groviglio ambiguo due cose sono certe: il comando della Osoppo non strinse alcun accordo con fascisti e nazisti, ma il fatto stesso degli avvenuti contatti servì ad alimentare il clima ormai avvelenato tra osovani e garibaldini.

Più interessante, dal punto di vista sostanziale, ci sembra la vicenda di Elda Turchetti. Questa ragazza di Pagnacco, paese dove i tedeschi avevano depositi di carburante, viene segnalata da Radio Londra — probabilmente su analoga segnalazione del «maggiore Nicholson» — come spia al soldo dei nazisti. Spaventata, si rivolge a un amico partigiano garibaldino per protestare la propria innocenza. Questi l’accompagna da Mario Toffanin, Giacca, comandante dei GAP di Udine, che si comporta in modo decisamente strano. Se fosse stato sicuro che la Turchetti era una spia Giacca l’avrebbe senza dubbio uccisa; nel dubbio, l’avrebbe dovuta consegnare al proprio comando per gli accertamenti. Invece Elda Turchetti viene consegnata da Giacca a Tullio Bonitti, capo della polizia interna della Osoppo, che a sua volta conduce la ragazza a Porzûs. Perché una sospetta spia veniva consegnata proprio alla formazione più volte accusata di mantenere ambigui rapporti col nemico? Ci fu chi disse che la Turchetti venne consegnata alla Osoppo per fare realmente la spia, per conto di Giacca contro la Osoppo. Difficile sapere la verità, perché la Turchetti fu uccisa a Porzûs.
E siamo arrivati a parlare nuovamente di Mario Toffanin, Giacca. Padovano, nato il 9 novembre 1912, a tredici anni era già operaio ai cantieri San Marco di Trieste. Iscritto dal 1933 al partito comunista clandestino; sei anni dopo, ricercato, riparava a Zagabria, in Croazia. Aderì al movimento partigiano di Tito fin dall’invasione delle forze dell’Asse nell’aprile del 1941. I compagni jugoslavi dovevano avere in lui molta fiducia perché lo inviarono «in missione» prima alla federazione comunista di Trieste, poi a quella di Udine per «dare la sveglia» ai compagni italiani. Giacca non fu mai un partigiano combattente vero e proprio: trovò la sua collocazione migliore nei GAP. Del resto, era poco propenso alla disciplina di tipo militare, ma in compenso era fedelissimo al partito. E dalla federazione comunista di Udine gli arrivò l’ordine di «liquidare» il problema della presenza osovana a Porzûs, con la specifica che si trattava di un ordine del «comando supremo». L’ordine è del 28 gennaio 1945. Il tempo di organizzare l’azione, radunando un centinaio di uomini dei GAP a Ronchi di Spessa e il 7 febbraio Giacca sale alle malghe di Porzûs, coadiuvato dai suoi luogotenenti Aldo Plaino e Vittorio Iuri. Pare che gran parte degli uomini fossero all’oscuro degli scopi della missione; molti ignoravano anche dove si stesse andando.
Il comandante osovano Bolla non si allarma per le segnalazioni delle sentinelle, che vedono salire alle malghe la lunga fila di uomini: era atteso un battaglione di rinforzo, richiesto al comando divisione Osoppo proprio per l’acuirsi delle tensioni tra garibaldini e osovani. Gli uomini di Giacca ostentano un’aria dimessa, nascondono le armi sotto gli abiti, pochissimi portano il fazzoletto rosso. Spiegano alle sentinelle di essere partigiani sbandati dopo uno scontro con i nazifascisti; ma mentre in due parlamentano con le guardie della Osoppo, il grosso degli uomini inizia ad accerchiare la zona. Poi, è la strage. Il capitano Bricco si salva, come vedevamo in apertura, solo perché viene ritenuto morto. Tra i venti partigiani portati via, si salvano solo Leo Patussi e Gaetano Valente, il cuoco, che, per aver salva la pelle, chiedono di essere accettati tra i garibaldini. Per gli altri non c’è scampo. L’irruzione alle malghe non aveva portato alcuna prova del «tradimento» della Osoppo, salvo la presenza in luogo della Turchetti; ma vedevamo prima che era stato lo stesso Giacca a consegnare la presunta spia agli osovani.
Le uccisioni durano fino al 18 febbraio nel Bosco Romagno, dove poi verranno ritrovati i corpi, mal sotterrati.
Dopo l’azione a Porzûs, Toffanin, Plaino e Iuri, i «triumviri» che avevano guidato la formazione dei GAP, fecero una relazione scritta, indirizzata alla federazione comunista di Udine e al Comando del IX Corpus sloveno, nella quale si sottolineava che l’azione era stata effettuata «col pieno consenso della Federazione del partito». La relazione — che, come si nota, non era indirizzata ad alcun organo della Resistenza — cercava di giustificare le uccisioni con affermazioni fantasiose — i comandanti Bolla ed Enea che al momento della fucilazione non trovano di meglio che gridare «viva il fascismo internazionale», i partigiani osovani «figli di papà» che «giacevano in comodi sacchi a pelo ed erano provvisti di tutti i conforti» —, ma non allegava alcuna prova concreta.
Quanto è accaduto alle malghe inizia a delinearsi. Quando Mario Lizzero, commissario politico delle brigate Garibaldi in Friuli viene a sapere dell’accaduto va su tutte le furie e chiede che Giacca e i suoi luogotenenti siano fucilati. Non riesce ad ottenerlo, riuscirà solo a farli destituire dalle loro cariche di comando nei GAP. Ostelio Modesti e Alfio Tambosso, segretario e vice-segretario della federazione del PCI di Udine, forse iniziano a rendersi conto che è stata una grave imprudenza affidare la missione a Mario Toffanin, ottimo elemento per le azioni spicce e violente dei GAP, ma rozzo e violento e con un certificato penale già ben nutrito di reati, furto, rapina, omicidio, sequestro di persona, che nulla avevano a che vedere con azioni militari o politiche. Ma adesso è troppo tardi per i ripensamenti e viene scelta la linea di condotta peggiore, quella di gettare tutta la croce addosso a Giacca — che avrebbe mal inteso gli ordini —, favorendone peraltro l’espatrio in Jugoslavia, insieme ad altri implicati nella strage.
Dopo che un’inchiesta del Comando Regionale Veneto non è approdata a nulla, il CLN di Udine decide la costituzione di una commissione d’inchiesta, formata da un rappresentante della Osoppo, uno della Garibaldi e presieduta da un membro del CNL stesso. Ostelio Modesti, il segretario del PCI di Udine, ha continuato la sua politica dello struzzo, opponendo inerzia al Comando Regionale, che gli chiedeva di incontrare i responsabili della spedizione alle malghe. Ora la commissione del CLN dovrebbe chiarire le cose, ma si fa ancora tutto il possibile per ritardare, finché si arriva al 25 aprile, all’ordine di insurrezione generale, che fa passare ovviamente in secondo piano qualsiasi altra questione.
Sarà la magistratura ordinaria ad occuparsi della strage di Porzûs, in seguito alla denuncia presentata il 23 giugno 1945 al Procuratore del Re di Udine dal Comando Divisioni Osoppo. Il processo ebbe inizio solo sei anni dopo, nell’ottobre 1951, davanti alla Corte d’Assise di Lucca, dove era stato trasferito per «legittimo sospetto» e motivi di ordine pubblico e dopo un palleggiamento tra magistratura ordinaria e militare. Il dibattimento d’appello si svolse a Firenze tra il 1° marzo e il 30 aprile 1954. Dopo quasi un decennio dalla strage di Porzûs veniva resa definitiva la sentenza che condannava Giacca e i suoi due luogotenenti all’ergastolo. Tutti e tre erano riparati da anni in Jugoslavia. Chi pagò un conto probabilmente non suo fu Ostelio Modesti, condannato a trent’anni, di cui nove scontati effettivamente. Parimenti conobbero il carcere altri imputati minori, che nessuno si era preoccupato di far espatriare, mentre per effetto di successive amnistie e indulti le condanne all’ergastolo vennero definitivamente cancellate il 15 maggio 1973. A questo punto Mario Toffanin avrebbe potuto tranquillamente tornare in patria; ma i suoi conti con la giustizia non si limitavano a reati «politici» o comunque connessi ad eventi della guerra partigiana. L’ex gappista, stabilì la Procura della Repubblica di Trieste, doveva scontare trent’anni per effetto di cumulo di pene definitive, irrogate per una serie impressionante di reati, dal sequestro di persona, alla rapina aggravata, all’estorsione, al concorso in omicidio aggravato e continuato. E Toffanin restò in Jugoslavia, rilasciando spesso interviste in cui rivendicava la legittimità della sua azione a Porzûs, volta all’eliminazione di «spie e traditori».
Le inchieste e l’interminabile processo avevano comunque lasciato irrisolto il problema centrale: chi aveva dato l’ordine dell’azione a Porzûs? E l’ordine era di uccidere, o la parola liquidare andava diversamente intesa? Come dicevamo sopra, l’atteggiamento del PCI di Udine, nella persona del segretario Modesti, fu il peggiore, perché volle difendere a tutti i costi una causa persa, probabilmente temendo più gravi ripercussioni per tutto l’apparato di partito e per la stessa operatività delle brigate Garibaldi, che peraltro nulla autorizza a dire che fossero implicate coi loro comandanti nella strage. Modesti sbagliò con le sue mille reticenze, ma ebbe la dignità di farsi in silenzio anche il carcere, forse non meritato, ma subìto in nome di una disciplina di partito che si può disapprovare, ma che, laddove viene pagata di persona, è degna di rispetto.
Francamente ci appare incredibile pensare come mandanti della strage di Porzûs lo stesso PCI o il comando della Garibaldi-Natisone; se esponevamo ampiamente tutti i contrasti profondi che dividevano garibaldini e osovani, non per questo crediamo che questi contrasti potessero sfociare in atti di selvaggia crudeltà, eseguiti a freddo e senza altra motivazione che l’odio ideologico. Piuttosto ci pare credibile l’opinione espressa da Alberto Buvoli, direttore dell’Istituto Friulano per la storia del movimento di liberazione, che in un’intervista del 30 luglio 1997 al Corriere della Sera diceva: «L’ordine di intervenire a Porzûs venne dagli Sloveni. La responsabilità della federazione comunista di Udine è semmai di aver affidato il compito a Giacca, noto squilibrato, con una fedina penale già sporca. Quando Lizzero, commissario politico delle Brigate Garibaldi venne a sapere della strage, chiese che Giacca e i suoi venissero fucilati […] ma Giacca era protetto dagli sloveni». Ci permettiamo di aggiungere una notazione a quanto dichiarato da Buvoli: con ogni probabilità il comando del IX Corpus diede l’ordine dell’azione, imponendo anche che fosse compiuta da Toffanin, che era comunque un loro uomo, da loro proveniva e da loro, non a caso, tornò. Giacca era il più qualificato per eseguire un ordine nello stile di chi, non scordiamolo, inventò le foibe come strumento di dialettica politica con gli oppositori. A poco vale obiettare che l’irrilevante numero di osovani non avrebbe potuto costituire alcun ostacolo all’eventuale dilagare fino al Tagliamento del IX Corpus. Se il pericolo non esisteva sotto il profilo militare, era comunque da eliminare una sacca di dissidenza, altrettanto pericolosa in un’ottica di cieco fanatismo politico. A questo punto la funzione del PCI di Udine sarebbe stata solo e unicamente quella di «passacarte», perché neanche la scelta di Toffanin come esecutore era loro. Purtroppo, come dicevamo, una disciplina di partito rigida e assoluta impedì di fare piena luce. Ma riteniamo che la nostra ipotesi non sia del tutto priva di fondamento.


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E qui potremmo chiudere questa breve rilettura di una delle pagine più tristi della nostra storia nazionale. Ma c’è un ultimo mistero, questo destinato a restare irrisolto. Che cosa spinse Sandro Pertini nel luglio del 1978, appena eletto Presidente della Repubblica, a concedere la grazia a Giacca? L’ex gappista, lo ricordavamo prima, aveva un pesante debito con la giustizia per reati ordinari, essendo estinte le pene per i fatti di Porzûs da provvedimenti di successivi indulti e amnistie. Il settimanale L’Espresso pubblicò, il 25 settembre 1997, un’inchiesta al proposito, ma si scontrò con una diffusa epidemia di amnesia, malattia che aveva colpito il consigliere giuridico di Pertini, il segretario generale del Quirinale, perfino il funzionario della Presidenza che si occupava all’epoca proprio delle pratiche di grazia. Quanto al guardasigilli dell’epoca, il professor Francesco Bonifacio, era già morto da diversi anni. Mistero. Tuttavia Mario Toffanin, comandante Giacca, nonostante la grazia restò in Slovenia. Forse perché la sentiva come la sua patria, forse perché temeva di fare qualche spiacevole incontro rientrando in Italia.


Paolo Deotto


Bibliografia


  • Marco Cesselli, Porzûs, due volti della Resistenza, Ed. La Pietra, Milano 1975.
  • Alexandra Kersevan, Porzûs, dialoghi sopra un processo da rifare, Ed. Kappa Vu, Udine 1997.
  • Indro Montanelli e Mario Cervi, L’Italia della guerra civile, Rizzoli, Milano 1983.
  • Giampaolo Pansa, L’esercito di Salò, Mondadori, Milano 1970.


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    Sugarco Edizioni, Milano 2008,
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    Christopher Dawson,
    La crisi dell'istruzione occidentale
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