Rievocare la figura del beato Carlo d’Austria (17 agosto 1887-1° aprile 1922) significa ricordare un modello di santità laicale che la Chiesa cattolica ci propone — anche se Carlo non è ancora stato canonizzato —, nonché riandare alla storia di una famiglia come la sua che ha legato per settecento anni il suo nome ai destini d’Europa, servendo politicamente molti dei suoi popoli e prodigandosi anche perché rimanesse fedele alle proprie radici cristiane.
Ho imparato ad amare Carlo d’Asburgo negli incontri di formazione di Alleanza Cattolica, dove si è sempre pregato e si continua a pregare per la sua canonizzazione, e l’ho sempre ricordato, benché senza quella nostalgia che caratterizza spesso la devozione a uomini del passato che, a diverso titolo, hanno incarnato con la loro vita, emblematizzandolo, un ordine sociale e politico diverso e dalle caratteristiche molto lontane da quelle del mondo contemporaneo, un mondo che in qualche modo nasce con la Rivoluzione del 1789 e, in Italia, con il Risorgimento.
La nostalgia è un sentimento comprensibile in chi ha fatto l’esperienza concreta di entrambi gli ordini, ma diventa sempre meno efficace quando si cerca di trasmetterla a è nato dopo, che non conosce quindi la precedente esperienza politica. Vorrei portare il mio piccolissimo contributo in tal senso, affinché cioè non si ricordi Carlo d'Asburgo come l’uomo di un passato, magari splendido e affascinante, ma irrimediabilmente trascorso. In altre parole, non solo come un uomo della felix Austria, ma anche come un beato cattolico, perché laico consapevole e impegnato in una missione, marito e padre esemplare di una numerosa famiglia, capo di Stato e uomo politico premuroso per la sorte dei popoli affidatigli dalla Provvidenza: qualcuno, cioè, che ci può insegnare alcune cose importanti anche oggi e utili per il futuro della nostra Europa.
1. L’ultimo imperatore
La prima osservazione che propongo riguarda la cultura politica di cui Carlo è stato espressione, una cultura che normalmente traspare dal modo più comune di presentarlo, cioè come «l’ultimo imperatore».
L’idea d’impero oggi è normalmente associata a quella di conquista, di dominio, di oppressione di popoli liberi, che vorrebbero diventare nazioni politicamente indipendenti. Con la sconfitta, al termine della prima guerra mondiale, nel 1918, quella sconfitta che costringerà Carlo all’esilio, finiscono in Europa gl’imperi, almeno quegl’imperi che ne avevano contrassegnato la storia dopo la Restaurazione del 1815: l’impero germanico, quello ottomano e appunto quello austro-ungarico, erede in qualche modo del Sacro Romano Impero medievale. Sempre durante la Grande Guerra, in conseguenza della Rivoluzione bolscevica dell’ottobre del 1917, era scomparso anche l’impero degli Czar in Russia.
Nei libri di storia spesso si confonde l’imperialismo degli Stati dei secoli XIX e XX, che a volte ha rappresentato una forma di espansionismo nazionalista che sottometteva o sfruttava altri popoli, con l’idea d’impero così come si è sviluppata in Occidente nell’antichità, con Roma e soprattutto con la formazione appunto del Sacro Romano Impero. Una aggregazione, questa, di diversi popoli, ciascuno dei quali manteneva le proprie caratteristiche culturali, ma si univa in un’unica famiglia di nazioni, si impegnva a osservare una legge comune e a riconoscere l’autorità diuna famiglia imperiale, la quale appunto ha il compito istituzionale di garantire l’esistenza e i diritti di ciascun popolo che vive nei confini dell’impero medesimo. Naturalmente nella storia degli imperi non mancano ingiustizie e soprusi e spesso la realtà umana, con le sue debolezze e incoerenze, ha offuscato l’ideale che avrebbe dovuto servire, cioè la creazione di più ampi spazi geografici di civiltà.
Ma mi preme di sottolineare come il «mondo di Carlo» fosse profondamente diverso da quello creato da quel nazionalismo che si diffonde nel secolo XIX e trionfa con la Grande Guerra. Questa, in particolare con il trattato di Versailles del 1919, darà vita a una Europa di sedicenti Stati-nazione — ciascuno infatti in realtà incorpora porzioni più o meno ampie di nazionalità allogene — che si guardano in cagnesco, pieni di rancore e di odio l’uno contro gli altri, pronti a riprendere la via delle armi, come tragicamente avverrà vent’anni dopo, con la Seconda guerra mondiale.
Il mondo che Carlo rappresenta aveva tenuto insieme, seppure con tante difficoltà, popoli di religione, di storia e di cultura diverse, fra cui anche italiani, nel Tirolo meridionale, nel Friuli e nella Venezia Giulia, e prima ancora in Veneto e in Lombardia. Proprio Carlo avrebbe voluto unire i suoi popoli attraverso un patto federale che coinvolgesse nell’impero i cechi e gli slavi, concedendo loro quell’autonomia che avevano già gli ungheresi, perché si era reso conto che la malattia del nazionalismo, così come in un altro campo quella del giurisdizionalismo ostile alla Chiesa, aveva contagiato anche l’Impero che era stato chiamato a guidare.
Ma non ebbe il tempo di fare quanto si era proposto.
La diversità fra il «mondo di Carlo» e quello successivo non sta nel fatto che prima gli uomini erano migliori. La differenza sta nell’irruzione delle ideologie, che in pochi decenni travolgono istituzioni umane certamente perfettibili e incapaci di risolvere tutti i problemi, ma che per secoli avevano impedito lo scatenarsi di quell’odio bestiale che caratterizzerà le due guerre mondiali e in generale il secolo XX, «il secolo delle idee assassine».
In particolare è l’«idea di nazione», concepita come una religione che avrebbe dovuto sostituire il cristianesimo, a penetrare nel cuore degli uomini europei dopo il 1789 e a caratterizzare tutto il secolo XIX. Lo storico Federico Chabod lo ha spiegato nelle sue lezioni tenute all’università di Milano alla fine della seconda guerra mondiale, poi raccolte nel libro, ormai diventato un classico, L’idea di nazione (Laterza, Bari 1961; n. ed. Laterza, Roma-Bari 2008). Quello novecentesco è un nazionalismo che non ha nulla a che vedere con l’amore per la patria. Quest’ultimo esisteva anche all’interno degli imperi e possedeva una propria dignità culturale. E la dottrina sociale della Chiesa, alla quale Carlo faceva esplicitamente riferimento come modello della sua azione politica, non nega la possibilità e l’opportunità che storicamente alcune nazioni possano acquisire una indipendenza anche politica: ma questo non deve andare a scapito della giustizia. Su questo punto hanno scritto pagine importanti padre Luigi Taparelli d’Azeglio (1793-1862), anche riferendosi al lungo dibattito che accompagnò il Risorgimento italiano, così come il beato Antonio Rosmini (1797-1855).
Quello che però è certo e inaccettabile nella vicenda di Carlo d’Asburgo è che l’odio profondo che accompagna il nazionalismo volle alla fine della guerra la morte dell’Impero austriaco anche quando quest’ultimo avrebbe potuto sopravvivere in altra forma, come ordine federale e plurinazionale e, soprattutto, senza perdere la sua radice cristiana. In fondo il cristianesimo, nella sua dimensione pubblica, era il vero obbiettivo del nazionalismo ottocentesco, in questo sostenuto da diverse logge massoniche: l’idea moderna di nazione era incompatibile con una concezione dell’uomo e del mondo che metteva la patria al giusto, non all’unico posto nella gerarchia dei valori.
2. Carlo e la pace
Il contrario dell'odio è l’amore, e soltanto l’amore genera la pace, anche nelle e fra le nazioni. Dalla diffusione dell’odio nazionalista non poteva nascere che un mondo segnato dall’odio, un odio sempre più intenso. Di quest’odio etnico e nazionalista abbiamo potuto vedere ancora gli effetti devastanti nella guerra nei Balcani successiva al crollo del Muro di Berlino, negli anni 1990. Quanti in questi giorni invocarono un arbitro capace di intervenire e porre fine ai massacri non fecero altro che riconoscere a posteriori l’importante ruolo svolto in quel contesto geografico così affollato di popoli, di culture e di religioni in conflitto dall’impero, che per secoli fu il rifugio, il guscio protettore per tanti popoli, ammortizzandone le diversità, come mai gli Stati nazionali riusciranno a fare.
Costretto all’esilio a causa di una guerra che non aveva voluto né potuto evitare e che tenterà di concludere non appena salito al trono, Carlo d’Asburgo fu un uomo di pace. Non un pacifista, che usa la pace come arma per fare saltare gli equilibri, così come fanno i nazionalisti con l’amore di patria, ma certamente un uomo che cercò di porre fine a un conflitto immane, di cui aveva colto il volto satanico, appunto perché frutto di un odio che non si sarebbe fermato.
Non è un caso, ma un segno della Provvidenza che opera nella storia, il fatto che Carlo esce dalla scena pubblica l’anno successivo alle apparizioni della Madonna a Fatima, dove l’odio che avrebbe potuto distruggere l’umanità viene non soltanto denunciato e descritto, ma del quale vengono anche suggerite le contromisure spirituali per contrastarlo. L’ondata di odio che aveva portato al primo conflitto mondiale non si sarebbe fermato e una nuova e peggiore guerra sarebbe scoppiata solo vent’anni dopo: questo la Madonna predisse a Fatima. All’ideologia che propugnava l’inimicizia fra le nazioni si sarebbe accostata e contrapposta quella che affermava la necessità della lotta fra le classi sociali, una ideologia che avrebbe diffuso i suoi errori in tutto mondo attraverso la Russia, diventata comunista proprio nell’ottobre del 1917, quando le apparizioni di Fatima avranno fine. Entrambe le ideologie avrebbero perseguitato la Chiesa e conquistato molti popoli, che avrebbero dovuto soffrire moltissimo.
Per decenni i popoli dell’impero di Carlo avrebbero invocato un potere liberatore dal comunismo, capace di porre fine alle loro sofferenze. Così sarà in Polonia e a Budapest nel 1956 e, poi, a Praga nel 1968. Quanti, allora, soprattutto gli anziani, avranno fatto il confronto fra i due imperi, quello scomparso con Carlo d’Asburgo e quello sovietico, estesosi a tutta l’Europa orientale dopo il 1945. Quanti avranno riflettuto sulla radicale differenza che esiste fra un impero nato dall’incontro — e anche dagli scontri — fra popoli diversi e un altro nato per imporre un’ideologia totale e internazionalista. È singolare, ma non è un caso, che don Jozsef Mindszenty (1892-1975), il futuro cardinale primate di Ungheria, campione della libertas Ecclesiae contro il dominio sovietico, allora giovane sacerdote, dicesse nel 1921, davanti al tentativo di restaurazione di Carlo in Ungheria: «Se solo avessi un poco di potere, il re non dovrebbe lasciarci come un cane bastonato, ma andrebbe in trionfo a Buda, lì nel luogo che gli appartiene, a palazzo reale». Ma come sappiamo, lo tradì un ammiraglio calvinista e nazionalista, Miklós Horthy (1868-1957), lo stesso che porterà l’Ungheria fra le braccia di Hitler.
Carlo ci può aiutare a riflettere sulla storia di Europa, a meditare sulle radici dei nostri errori e sull’armonia del mondo che con lui scompariva. Senza nostalgia, appunto, perché anche quel mondo era segnato dal peccato e dalle debolezze umane e perché comunque non potrà ritornare. Ma a quel mondo si può e si deve guardare con amore per la verità, cercandola e non creandola invece per interessi ideologici. E allora si troverà che con Carlo d’Asburgo muore un mondo storico che non solo continua a stupire per la bellezza dei suoi monumenti, della sua letteratura, delle opere che ha costruito in tanti campi dell’attività umana, ma un mondo che può concretamente aiutarci ad affrontare con realismo i tanti problemi contemporanei, a cominciare dall’identità del nostro continente.