L
@
a figura di
Benedetto XV (1914-1922) appare come particolarmente significativa — ma quale
pontefice non lo è, in ultima analisi? — nella storia della Chiesa del secolo
scorso.
Perché riparlarne a più di novant’anni di distanza
dalla sua elezione?, Non è Benedetto XV, un personaggio tutto sommato rimasto
un po’ in ombra nella storia del Novecento, quasi schiacciato — potremmo dire —
dalle figure ben più corpose e vivaci di un Pio X (1903-1914), di un Pio XII
(1939-1958) o di un Giovanni Paolo II (1978-2005), per fare degli esempi?
In generale, parlare o riparlare di storia, se è vero
che la storia ammaestra, non è mai ozioso e arricchisce sempre, soprattutto se
si tratta di argomenti come la biografia di un successore di Pietro. Credo però
che riguardo a Benedetto XV vi sia stato un ritorno di interesse dopo che, il
27 aprile del 2005, abbiamo udito il neo-eletto Papa, il card. Joseph
Ratzinger, dichiarare: «Ho voluto chiamarmi Benedetto XVI per riallacciarmi
idealmente al venerato Pontefice Benedetto XV, che ha guidato la Chiesa in un periodo travagliato a causa del primo conflitto mondiale. Fu coraggioso e autentico
profeta di pace e si adoperò con strenuo coraggio dapprima per evitare il
dramma della guerra e poi per limitarne le conseguenze nefaste. Sulle sue orme
desidero porre il mio ministero a servizio della riconciliazione e dell’armonia
tra gli uomini e i popoli, profondamente convinto che il grande bene della pace
è innanzitutto dono di Dio, dono purtroppo fragile e prezioso da invocare,
tutelare e costruire giorno dopo giorno con l’apporto di tutti» .
La grandezza di quello che ora possiamo chiamare
l’«altro» Benedetto, quello del secolo scorso, sta dunque — ed è proprio Papa
Ratzinger a sottolinearlo — nella capacità che ebbe di guidare con acume e
serena fermezza la barca di Pietro in un frangente del tutto drammatico,
facendola uscire integra da una tempesta senza precedenti e approdare a una
condizione nuova e migliore nei suoi rapporti con un mondo che la guerra aveva
profondamente cambiato.
Ma, se vogliamo capire qualcosa, dobbiamo domandarci
per prima cosa com’è questo mondo, qual è il mondo che Benedetto incontra
all’inizio del suo ministero e, soprattutto, qual è quello che lascia al
momento del suo transito.
1. Il mondo di Benedetto
Il XX secolo ha avuto senz’altro diverse letture, non
tutte concordanti, ma, a misura che lo sguardo retrospettivo dello storico ne
illumina sempre più le vicende e ne penetra sempre più la trama, se ne va
consolidando fra gli studiosi un’immagine che definire tutt’altro che rosea è
un consapevole eufemismo. Quel secolo, che è stato definito dallo studioso
marxista Eric Hobsbawm il «secolo breve» ,
aperto nel 1914 dalla prima guerra mondiale e chiuso nel 1989 dalla rimozione
del Muro di Berlino, ha infatti conosciuto altre due, probabilmente ancor più
spaventose, guerre mondiali — la terza, quella «fredda», quella meno visibile e
vistosa, secondo una stima, ha fatto circa trenta milioni di vittime (
—, i peggiori regimi totalitari della storia, le più tremende forme di «peccato
sociale».
Una età che per lo storico Karl Dietrich Bracher
è il «secolo delle ideologie», evidenziando così la tirannia delle
utopie sociali sulla vita dei popoli che lo caratterizza in maniera dominante.
Ideologie che non sono meri sistemi di pensiero, neutri nelle loro conseguenze,
ma sono «idées qui tuent», idee che uccidono, secondo la felice
espressione dello scrittore francese Jacques Ploncard d’Assac (1910-2005) ,
e che fanno del Novecento, secondo Robert Conquest, addirittura il «secolo
delle idee assassine» :
un’espressione indubbiamente «forte», ma molto meno forte del titolo, il «secolo
del male», che Alain Besançon ha apposto a un suo recente e stimolante
saggio su nazismo, comunismo e Shoah .
Gli anni in cui Benedetto si trova a reggere la Chiesa sono anni di svolta, anni in cui davvero finisce l’Ottocento e prende corpo il
Novecento, intesi non come mere partizioni cronologiche della biografia europea
ma come due realtà qualitativamente diverse. Intorno a quegli anni, infatti, il
portato a dominante «politica» della modernità — o, meglio, di quella sua
declinazione che si rivela fattualmente vincente —, espressa dalle dinamiche originatesi
nel 1789 — dopo quelle a dominante «religiosa» apertesi con il 1517 — passano a
una fase a dominante «sociale», emblematizzata dalla Rivoluzione dell’ottobre 1917 in Russia. Le idee dell’Ottantanove nel frangente si «socializzano», non sono più patrimonio
esclusivo o privilegiato di quelle minoranze borghesi e liberali che hanno dato
il tono all’Ottocento, ma cominciano a estendersi a strati sempre più vasti
della società, organizzandosi all’interno di coordinate ideologiche forse non
nuove, ma che si precisano sempre più e ora divengono motrici di un accelerato
cambiamento. Quella del primo Novecento si presenta come una società in
transizione la quale, nella perdurante presenza del solvente individualistico
di marca liberale, sotto gli assalti della montante utopia socialista —
rivoluzionaria e non —, esposta ai venti di una sempre più travolgente
Rivoluzione industriale, vede ogni giorno di più logorarsi il proprio tessuto
connettivo, sia esso religioso o civile, tende sempre più a dis-aggregarsi e a
de-strutturarsi, mentre si allentano i legami sociali naturali e si logora il
perno religioso tradizionale, s’indebolisce la memoria del passato e la società
tende a diventare così con sempre maggior accentuazione una «società di massa»,
in cui si profila minacciosa quella «ribellione», delle masse appunto, di cui
sarà acuto diagnostico José Ortega y Gasset (1883-1955) ,
ma che ha già trovato un precedente nella lucida prosa del cattolico Juan
Donoso Cortés (1809-1853) .
L’Europa del 1914 è sì — ancora, aggiungerei —
l’Europa della Belle Epoque, dei re e degli imperatori, delle corti e
delle ambasciate, delle uniformi e della cavalleria. Ma è già un’Europa che le
coscienze più sensibili di allora, credenti e non credenti — basti pensare
all’accorata denuncia dell’attivismo e di altre corruzioni del «robusto
idealismo» ottocentesco, di cui è autore il filosofo Benedetto Croce
(1866-1952)
—, iniziano ad avvertire come ammalata nella sua fibra intellettuale e
spirituale.
La guerra del 1914 fungerà da catalizzatore di queste
patologie dell’anima europea e, alla fine del pontificato benedettino, si
rileverà quanto profondamente quelle linee di forza, cui ho accennato, abbiano
mutato la fisionomia della civiltà occidentale.
Non ci saranno più gli imperi, retaggio della civiltà
sacrale, ma regneranno le ideologie moderne. Nasceranno nuove forme di potere:
gli autoritarismi nazionalisti e le dittature fasciste, a loro volta
battistrada dei totalitarismi. S’invocheranno nuove ragioni di legittimazione
politica: la classe e, ben presto, l’ethnos inteso biologicamente. E
nasceranno anche nuovi tipi di conflitto: la guerra «ideologica», la guerra
rivoluzionaria, ovvero la guerra delle utopie contro i popoli e le loro
tradizioni.
2. Giacomo della Chiesa
Se questo è, per sommi capi,
il mondo di Benedetto XV, viene ora da chiedersi, un po’ manzonianamente ,
chi era Benedetto XV ?
2.1 Verso il pontificato
Giacomo della Chiesa nasce a
Genova nel 1854 da un’antica famiglia aristocratica originaria della Valsassina.
Nell’albero genealogico paterno e materno figurano, anche se in anni ormai
lontani, ben due pontefici, rispettivamente Callisto II (1119-1124) e Innocenzo
VII (1404-1406) .
È impressionante quanto il suo itinerario formativo assomigli a quello di Eugenio
Pacelli. Brillanti studi classici, collegio ecclesiastico, studi universitari
in diritto, precoci vocazione e ordinazione — per Giacomo nel 1878, quando
muore Pio IX (1846-1878) e ascende al soglio Leone XIII (1878-1903) —,
accademia dei nobili ecclesiastici a Roma, tirocinio di nunziatura all’estero —
in Spagna, nel caso di Giacomo —, ritorno a Roma e ingresso nella Segreteria di
Stato. Giacomo della Chiesa resterà nella Segreteria, retta in quegli anni dal
cardinale Mariano Rampolla del Tindaro (1843-1913), fino al 1907, quando Pio X
lo vorrà arcivescovo di Bologna.
Nei sette anni di episcopato
bolognese — coronati assai tardi dalla porpora cardinalizia — il presule
genovese si fa apprezzare dalla popolosa diocesi per la sua dolce e umana
fermezza, accompagnata da una ardente carità anche materiale.
Il Conclave del 1914 lo vedrà accettare con serenità
l’altissima missione di successore di Pietro. Come accadrà di nuovo nel 1939
con Eugenio Pacelli, i cardinali elettori vedranno in Giacomo Della Chiesa, diplomatico
navigato e dimostratosi valente pastore, la guida ideale di cui ha bisogno la Chiesa in un mondo che entra in un conflitto dagli sviluppi imprevedibili.
2.2 Il profilo umano
Benedetto non è un figlio di contadini come Pio X, ma
viene da una famiglia nobile e riceve una educazione da aristocratico.
È un prelato di curia, un giurista preparato, un
raffinato intellettuale e un esperto di relazioni internazionali, un prodotto
riuscito di quella grande scuola di «esperienza in umanità» che è la Curia vaticana.
Come persona fisica e come carattere è una figura,
come si dice oggi, assai poco carismatica: piccolo, dal viso irregolare,
leggermente claudicante, non è certo un personaggio che oggi si direbbe «buchi
gli schermi», alla Giovanni Paolo II. Intelligentissimo e, smentendo il
pregiudizio contro i liguri, assai generoso, è un tipo riservato, ma non
freddo, né alieno da un certo humour elegante, che però talora
improvvisi malumori e scatti d’impazienza intersecano.
Ha pochi amici, anche se per la vita, come il quasi
coetaneo vescovo piemontese Teodoro Valfrè di Bonzo (1853-1922), nunzio a
Vienna negli anni della guerra, che Benedetto nominerà cardinale nel 1919 e
che, per inciso, morirà nello stesso anno di Giacomo.
2.3 La «linea» del pontificato benedettino
Benedetto si dimostra meno sensibile del predecessore
ai pericoli che possono derivare per la fede dal confronto con le ideologie
moderne e con i metodi scientifici del primo Novecento. O, quanto meno, ne dà
un giudizio più sfumato rispetto a quello di Pio X. Meno propenso di questi
alle scelte nette, Della Chiesa si è formato nel clima di apertura del
pontificato leoniano e all’ombra del suo protettore, il cardinal Rampolla, quel
cardinale che — anche se mons. Della Chiesa riferì di non condividere questa
tesi — l’imperatore Francesco Giuseppe (1830; 1848-1916) non aveva voluto papa
alla morte di Leone XIII .
Per tutti questi motivi e per l’influenza che esercita
su di lui la «robusta» figura, così diversa dalla sua, del Segretario di Stato,
cardinale Pietro Gasparri (1852-1934), le sue scelte intraecclesiali
divergeranno alquanto da quelle del santo predecessore.
Mentre conferma con nettezza la condanna del
modernismo, mantiene il giuramento anti-modernista per i nuovi sacerdoti e
conferma gli organi di vigilanza diocesani, smobilita il Sodalitium Pianum,
l’agenzia d’informazione — per gli avversari: di delazione — ecclesiali messa
in piedi da monsignor Umberto Benigni (1862-1934), ed emargina i principali
attori della battaglia anti-modernista, come Benigni e il Segretario di Stato
di Pio X, il cardinale spagnolo Rafael Merry del Val (1865-1930). Con i
modernisti, leonianamente, sembra anteporre la pedagogia alla condanna, se così
si può interpretare la fondamentale enciclica sull’esegesi biblica Spiritus
Paraclitus emanata nel 1920 per commemorare il quindicesimo centenario
della morte del traduttore della Bibbia in latino, san Gerolamo (347ca.-420).
Soprattutto, Benedetto pare non condividere l’eccessivo arroccamento nelle
relazioni esterne attuato dal santo predecessore. Mentre all’interno
dell’organismo ecclesiale interverrà fin da subito, non avrà il tempo di
impostare una linea politica di lungo respiro verso l’esterno, poiché i
rapporti fra i popoli, quando sale al soglio di Pietro, sono già precipitati in
una tragica spirale di rissa e di odio.
Benedetto XV
si spegnerà nel 1922 per una banale bronchite, due mesi prima del giovane e devoto amico Carlo d’Austria (1887-1922), offrendo, come fece que-st’ultimo, la
sua vita per la pace dei suoi popoli, ossia, nel caso del Papa, dell’intera umanità.
3. La
condizione della Chiesa al tempo di Benedetto XV
Come accennato, il mondo di Benedetto, almeno nella
cultura delle élite e incipientemente in quella delle masse, è un mondo
— nel senso neutro del termine — in cui, almeno nella sfera pubblica — ma, come
si comprende, non senza riflessi anche in quella privata —, la fede nella rivelazione
cristiana impallidisce costantemente e la sua tradizione sembra anch’essa affievolirsi:
un mondo che sembra soccombere al «mondo» nel senso forte cristiano delle «tre
concupiscenze», le quali sembrano venir incarnate, ormai in maniera vessillare,
metodica e organizzata, dai movimenti politici moderni, che in alcuni casi
sfruttano a questo scopo il propellente costituito del potere. Un mondo che,
nel suo sforzo di mondare la Chiesa da indebite incrostazioni storiche, non di
rado scivola in quel «secolarismo», corruzione della sana secolarizzazione, che
Paolo VI (1963-1978) ha equi-parato all’ateismo ,
che Giovanni Paolo II ha più volte condannato
e che nel suo saggio La pedagogia della secolarizzazione e il conflitto
delle culture il filosofo Augusto del Noce ha acutamente definito «[…]
la riduzione della religione trascendente o della morale che ne dipende a
retaggio del passato destinato progressivamente a scomparire» .
La prima
reazione, quella dei Papi del 1700 e del 1800, all’imporsi e poi al trionfo
delle idee moderne aveva assunto la forma del monito e della condanna
dottrinale :
il Sillabo del 1864 ne è, in più di un senso, l’emblema .
Tuttavia già con Leone XIII, nell’ultimo quarto del secolo XIX, matura nella
Chiesa la consapevolezza che la frattura con il mondo determinatasi un secolo
prima vada in qualche modo ricomposta. In effetti il vecchio mondo non c’è più:
e tale dato di fatto non muta anche se si pensa — legittimamente, peraltro —
che qualcuno ha buttato via il bambino con l’acqua sporca del bagno, come si
usa dire. E una civiltà cristiana — ossia una società storica, più o meno
estesa, in cui il cristianesimo dà forma alla cultura e questa a sua volta ne
modella le istituzioni — può risorgere, di sicuro in nuove forme, solo a prezzo
di un grande sforzo di auto-evangelizzazione, di cui è premessa la
rielaborazione e l’aggiornamento della dottrina cattolica sulla società. Questo
sforzo costituirà l’asse del pontificato di Leone XIII, che produrrà fra
l’altro quel gigantesco monumento di teologia e di scienza sociale — ma anche
di ascesi e di mistica della vita in società e della società medesima, in
quanto ente collettivo —, destinato a lasciare una traccia profonda, e di cui
l’enciclica Rerum novarum del 1891 è solo un importante capitolo.
Tuttavia,
nonostante il nuovo atteggiamento della Chiesa, le ideologie moderne, nella
loro duplice spinta immanentistica e secolarizzatrice — e ben presto
materialistica e ateistica —, proseguiranno nella loro espansione aggressiva e
tendenzialmente onnipervasiva, sì che il breve pontificato di Pio X segnerà
quasi fatalmente un momento di arroccamento dottrinale e disciplinare della
compagine ecclesiale .
Benedetto XV — come peraltro tutti i pontefici a lui
successivi — si porrà non solo il problema dell’auto-difesa, ma anche quello
delle forme attraverso cui dialogare con il mondo del suo tempo, con un mondo
profondamente cambiato e sempre più alieno da una relazione subordinata o anche
solo organica con la Chiesa. Egli apprezza l’irrobustimento della struttura
ecclesiale attuato con grande sforzo dalla «restaurazione» che si era posta
come programma — «Instaurare omnia in Cristo» era stata la sua divisa
pontificale — Pio X ed è conscio che la solidità della base di partenza è la
condizione di ogni apertura, ma — anche grazie a tale sforzo di ricompattamento
— propenderà per la linea leoniana, più incline al confronto con la cultura
della modernità ,
favorevole a mantenere comunque relazioni, anche nel divergere delle opinioni,
con le potenze mondane e d’intenti sostanzialmente rifondatori, piuttosto che
per la linea piana di contrapposizione dottrinale e diplomatica.
4. La guerra mondiale
4.1 Il conflitto frutto della crisi della civiltà
europea
Ma, come detto, il primo e decisivo impatto di
Benedetto è con un mondo in stato di guerra e di una guerra — occorre
sottolinearlo a oltranza — del tutto nuova. Oltre a pronosticarne, con successo,
l’anno di inizio ,
Pio X aveva intravisto che sarebbe stata una «grande guerra», una guerra
diversa dal solito, una guerra come mai il mondo aveva visto .
In effetti, quella del 1914 sarà altresì una guerra «moderna», combattuta con
una mentalità moderna, da masse sterminate di combattenti arruolati con la
forza, e con una strumentazione di morte frutto della più avanzata tecnologia
del secolo XX: sarà un’eruzione devastante, nel cui flusso confluiranno tutte
le derive patologiche di cui è gravido l’ethos dell’uomo europeo di inizio
Novecento.
Benedetto, acutamente, scorgerà nella guerra appunto «[…]
la conflagrazione dei mortali elementi fermentati nel materialismo; la crisi
di pensiero e di coscenza [sic] di un’èra»
e una «“manifestazione sovra ogni altra odiosa del predominante disordine
morale”» .
Pio XII, a sua volta, nel 1952 descriverà
più in dettaglio la natura e la dinamica di questo «disordine morale», allorché
scriverà: «Un […] “nemico” […] violento e subdolo […] negli
ultimi due secoli ha tentato di operare la disgregazione intellettuale, morale,
sociale dell’unità nell’organismo misterioso di Cristo. Ha voluto la natura
senza la grazia; la ragione senza la fede; la libertà senza l’autorità;
talvolta l’autorità senza la libertà» .
Un disordine, dunque, visto in questa prospettiva come il prodotto di un itinerario
di «aversio societatis a Deo» e di «perdita del centro» — come lo
descriverà il filosofo dell’arte austriaco Hans Sedlmayr (1896-1984)
—, che avanza di crisi in crisi ,
dissociando realtà in sé buone, ma che, proprio in quanto lasciate a sé stesse,
producono effetti funesti.
Molteplici segnali nell’età di Benedetto — alcuni che
precedono, altri che seguono il conflitto — sostanziano questa lettura in
termini di regresso etico dello sviluppo della civiltà moderna in Occidente.
Per citarne solo alcuni: la tremenda guerra russo-giapponese del 1904-1905, autentica
anticamera della guerra mondiale ;
il genocidio degli armeni nella Turchia post-ottomana del 1915 ;
la nascita — già alla fine del secolo precedente, durante il conflitto
anglo-boero — dei campi di prigionia e di concentramento ;
lo sterminio del clero russo e ucraino a opera dei bolscevichi ;
i bagliori della persecuzione anti-religiosa nel Messico cattolico ;
la nascente dottrina eugenetica — non solo in Germania, ma anche negli Stati
Uniti e nei paesi scandinavi —
e le prime forme di razzismo biologico .
4.2 Il conflitto, sbocco di una politica di potenza secolarizzata
Spostandosi su un piano meno astratto, si osserva come
le radici storiche della guerra europea affondino in un passato non vicino. Da
decenni, infatti, l’Europa, al di là di una pace apparente, va accumulando un
potenziale di conflitto sempre più altamente esplosivo, la cui miscela è composta
di diversi ingredienti.
In primis la
politica di potenza degli Stati nazionali europei, ciascuno geloso della sua
autonomia, preoccupato del possibile estendersi del peso politico e strategico
del vicino e goloso di ampliamenti territoriali ai suoi danni, magari
giustificati con ragioni di riunificazione nazionale. A questa politica fanno
da pendant le spinte, spesso veementi, dei movimenti nazionalistici, soprattutto
il pangermanesimo tedesco e austriaco, il revanscismo anti-tedesco dei francesi,
il panserbismo e l’ideologia panslavistica russa. Negli Stati nazionali queste
spinte si riversano di norma sul rivale, sia nel senso di concorrente, sia in
quello di confinante: basti pensare alla Germania e alla Francia. All’interno
dei superstiti imperi, le nazionalità premono per dissolverne la costituzione
pluralistica, dando vita a Stati fondati nazionalmente e territorialmente. Soprattutto
la straordinaria ascesa del neonato Reich germanico si scontra sul piano
strategico con le mire di grandezza della Repubblica Francese e con le esigenze
di predominio mondiale dell’Impero britannico. Come è stato bene riassunto, in
ultima analisi, «la Francia voleva l’Alsazia e la Lorena; la Germania altre colonie, una flotta più grande e l’egemonia sul Vicino Oriente.
L’Austria voleva la sottomissione della Serbia e un porto a Salonicco, la Russia il Bosforo e i Dardanelli. La Serbia aveva i suoi piani sulla Bosnia e l’Erzegovina,
l’Italia su Trento e Trieste, la Romania sulla Transilvania, che rivendicava
dall’Ungheria, e sulla Bessarabia che intendeva togliere alla Russia» .
Con queste premesse è inevitabile che l’esplosione
avvenga e l’attentato di Sarajevo del giugno 1914 ne sarà l’innesco.
Nell’agosto di quell’anno scoppia così il «guerrone»
che aveva pronosticato Pio X e che segna la fine dell’Europa come centro
politico del mondo.
4.3 Un periodo di osservazione
Fin dai primi giorni del suo pontificato il
sessantenne Giacomo Della Chiesa ha dunque davanti agli occhi dell’intelletto e
del cuore un complesso di realtà nuove e gravide di conseguenze drammatiche per
l’umanità. Non è uno sprovveduto: la sua lunga esperienza di relazioni lo ha
reso pienamente consapevole di che cosa si agiti nell’animo dell’homo
europaeus e dietro la politica delle potenze mondiali. Ma si può anche intuire
il suo disagio nel dover trarre giudizi sulla base di pochi elementi su realtà
cangianti e, soprattutto, dover prender decisioni di ampio momento in tempi
ristretti. La prima guerra mondiale esordirà con le armate schierate sul campo
nelle loro belle divise colorate per continuare e finire nel fangoso e mortale
grigiore delle trincee, in un crescendo di dolore e di disperazione. Per
elaborare una linea di azione non improvvisata per la Chiesa occorrerà a Benedetto almeno un anno di tempo.
5. Benedetto e la guerra mondiale
Fin dall’enciclica di apertura di pontificato, la Ad beatissimi, Benedetto si rende conto di quali funesti sviluppi potrà avere
una guerra ,
nata apparentemente per risolvere
contenziosi politici tutto sommato minori, ma i cui attori sono uomini e gruppi
sempre più estranei all’ethos cristiano e visibilmente in preda a una devastante
febbre ideologica.
Impressionato e addolorato assistendo per la terribile
carneficina che vede imperversare nel cuore della famiglia dei popoli un tempo
ufficialmente cristiani — l’8 settembre 1914 scrive: «[…] vediamo
tanta parte d’Europa […] rosseggiare di sangue cristiano»
—, intuisce che il conflitto è destinato a estendersi al mondo intero, che durerà
a lungo e che sarà combattuto in maniera sempre più barbarica. I dati sulle
perdite e sugli orrori sempre più gravi e diffusi conforteranno tragicamente, giorno
dopo giorno, questi suoi presentimenti e pronostici.
Per testimoniare al mondo la gravità della situazione che
si viene creando e il lutto incombente sull’Europa all’indomani della sua elezione
Giacomo della Chiesa non vorrà essere incoronato in San Pietro, ma nella più
discreta Cappella Sistina.
Il primo anno di guerra, come accennato, sarà per la Santa Sede un periodo di osservazione e di riflessione. Ma non saranno mesi sterili e inattivi:
l’attenzione primaria sarà in questo frangente per le vittime, che il conflitto
miete sempre più numerose. Su tutti i fronti e in tutti i paesi dove vi è
presenza cattolica prende corpo allora un’ampia gamma di iniziative a favore
dei feriti, dei prigionieri, delle famiglie dei combattenti, degli sfollati, che
avrà grande incremento negli anni successivi.
Pian piano, in seguito, inizia a prendere forma una
linea di azione.
5.1 L’offensiva magisteriale e diplomatica
A un anno dallo scoppio delle ostilità, Benedetto avvia
una incalzante campagna contro la guerra, fatta di interventi magisteriali, di note
diplomatiche, di lettere ad personam, ma non priva di silenzi, soprattutto
quando verrà a più riprese «tirato per la giacca» dai cattolici interventisti e
dai capi degli Stati in lotta.
Facendo appello ai popoli e ai loro reggitori, nella
esortazione Allorché fummo chiamati, il 28 luglio 1915, definirà la guerra
una «orrenda carneficina, che ormai da un anno disonora l’Europa»
e, ancora, ammonirà che «[…] il mutuo proposito di distru-zione»
non paga perché — e lo dice qui, già nel 1915, e non solo nella famosa Nota
del 1917 ,
come molti hanno scritto — «[…] le nazioni non muoiono», ma «[…]
umiliate ed oppresse, portano frementi il giogo loro imposto, preparando la
riscossa e trasmettendo di generazione in generazione un triste retaggio di
odio e di vendetta» .
Nel messaggio del Natale dello stesso anno si
dorrà che il mondo sia diventato «ossario e ospedale» .
Nel marzo 1916, ancora, parlerà di «suicidio dell’Europa civile» e del
ricorso alle armi come «la più fosca tragedia dell’odio umano e dell’umana
demenza» .
Benedetto non è un pacifista, cioè uno che avversa
qualunque guerra «senza se e senza ma», come si usa dire ai nostri giorni: è un
evangelico operatore di pace, che sa che la giustizia, per essere attuata in
temporalibus, necessita talora anche della forza. Egli, di principio, detesta
che i conflitti siano risolti — ma poi lo sono veramente? — esclusivamente attraverso
la forza: ma soprattutto capisce che la guerra del suo tempo è contro ogni
ragionevolezza, perché, visto il terribile potenziale distruttivo delle nuove
armi — le bombe aeree, i siluri, i gas asfissianti, i carri armati, le mitragliatrici,
le mine, i lanciafiamme —, le sue conseguenze, non solo sui combattenti,
comportano quasi sempre un male che supera quello, reale o presunto, che si vorrebbe
eliminare. Avendo costantemente davanti agli occhi questa realtà, Benedetto si
adopera pertanto con ogni mezzo per far cessare la carneficina in atto fra i
popoli europei e all’interno di ciò che era stata la cristianità o, almeno, per
ricondurre la lotta su binari più civili.
Tre sono le linee della sua azione pastorale e diplomatica:
in primis convincere i belligeranti a concordare una tregua e a siglare
una pace; in mancanza di ciò, indurli a circoscrivere il conflitto e a umanizzarlo;
infine, soccorrere le vittime dovunque si combatta, dalla Marna allo Stretto dei
Dardanelli.
Si tratta di una politica la cui premessa è che non è
lecito ai cattolici disobbedire alle leggi dei rispettivi Stati, sottraendosi
alla lotta, né sabotare lo sforzo che le proprie nazioni stanno compiendo:
tuttavia, spetta ai capi di governo, come tali e in quanto quasi tutti cristiani,
cercare di ottenere quanto prima la pace, anche a costo di veder rimanere
insoddisfatte in tutto o in parte le proprie rivendicazioni.
In questo impegno per la pace Benedetto — lo
rivendicherà nell’appello dell’agosto 1917 — manterrà altresì un atteggiamento di
assoluta e tenace equidistanza dai contendenti — tutti cristiani, tranne i
turchi — e di rigida imparzialità azione nell’alleviare le sofferenze comuni.
Questa sua fermezza e l’accoratezza che metterà nel denunciare
la follia del conflitto gli alieneranno le simpatie di quasi tutti i governi,
ciascuno convinto che il Pontefice faccia il gioco del nemico. Solo il giovane
successore di Francesco Giuseppe, l’imperatore d’Austria-Ungheria, Carlo I
d’Asburgo (1887-1922), profonda-mente credente e futuro beato della Chiesa cattolica ,
darà ascolto con prontezza e docilità — ma senza peraltro riuscire a vincere le
resistenze dell’apparato politico e militare, tutt’altro che in sintonia con il
magistero del papa — alle richieste di Benedetto.
Ciononostante, questi non defletterà mai dalla sua
politica e non penserà mai a una pace che sia frutto dalla vittoria dell’uno o
dell’altro contendente .
Vorrà una pace giusta e sollecita, ottenuta anche a costo dell’abbandono dei
vantaggi conseguiti sul campo e fondata sul riconoscimento reciproco e durevole
dei diritti. In tutte le proposte di accordo di cui la Santa Sede si farà attrice o tramite figurerà sempre la restituzione dei territori occupati e
la pre-condizione della liberazione del Belgio dai tedeschi. E anche per questa
dottrina del ripristino dello status quo egli sarà oggetto dell’avver-sione
dei governi belligeranti.
All’inizio del conflitto si può rilevare nella Curia
romana una certa simpatia per le potenze germaniche, frutto della rottura del
1905 con la Francia massonizzante e dell’egemonia della cultura tedesca in
ambito ecclesiastico in quegli anni .
E questo atteggiamento tenderà a irrobustirsi quando l’Italia, entrata a far
parte del fronte opposto, scenderà in guerra: anche Benedetto temerà allora che
la Santa Sede, ospite dell’Italia e in rotta con la monarchia unitaria dopo
Porta Pia, possa rimanere isolata dal mondo e possa trovarsi esposta al ricatto
dello Stato italiano. Poi, mentre questa propensione sfumerà e s’imporrà la
linea di equidistanza verso tedeschi, austriaci, francesi, britannici e
americani di Benedetto, la Santa Sede non porrà ostacoli al lealismo del clero
e del mondo cattolico italiano verso lo sforzo bellico del governo e della
nazione.
Quello che nella seconda fase del conflitto, quando si
delinea la sconfitta austro-tedesca, preoccuperà Benedetto sarà il sempre più
verosimile crollo del bastione costituito dall’impero asburgico, sia in quanto
potenza mittel-europea che tradizionalmente conteneva l’espansione dell’elemento
slavo-ortodosso e ottomano, sia perché si vedeva venir meno un valido antemurale
contro il nascente bolscevismo russo .
Per evitarlo appoggerà il giovane imperatore asburgico — anch’egli pienamente
consapevole di questi rischi — fino all’ultimo, anche se già all’inizio del
1918 il realismo della diplomazia vaticana non si asterrà dall’immaginare e dal
sostenere altri scenari, facenti perno soprattutto sulla Polonia cattolica .
Venendo all’episodio che ha trovato più spazio nella
memoria comune, la nota diplomatica del 1917, si può dire che essa segna la
ripresa e il culmine della politica pacificatrice di Benedetto XV: in
quell’anno fatidico, lo stallo dei fronti, le inutili e sempre più numerose e sanguinose
battaglie di massa, l’uso scriteriato di armi ognora più terribili e devastanti
lo indurranno, quando gli sembrerà di intravedere qualche spiraglio di buona volontà
— o almeno di stanchezza — da parte di più di un contendente, a indirizzare, il
1° agosto, l’appello Dés le dèbuts ai capi delle potenze in armi, in cui
egli definirà la guerra una «lotta tremenda, la quale, ogni giorno di più,
apparisce inutile strage» .
Benedetto, oltre alla tregua, chiederà in sostanza di ritirarsi dai territori
occupati dopo il 1914, di aprire negoziati per definire le diverse pretese
territoriali, di limitare la corsa agli armamenti, d’istituire un arbitrato
internazionale, di garantire la libertà di navigazione dei mari e, infine, la
rinuncia reciproca agl’indennizzi post-bellici .
Il messaggio del Papa avrà una enorme eco, ma,
soprattutto per questo giudizio, tanto obiettivo quanto radicale, sarà letto su
entrambi i fronti come una pugnalata alle spalle e questo gli conquisterà la
definitiva inimicizia dei circoli nazionalisti e guerrafondai di ogni paese.
Quegli stessi circoli che in Italia cercheranno di giustificare la grave
sconfitta patita a Caporetto nell’ottobre successivo — che dall’Isonzo porterà
gli austro-tedeschi a irrompere nella pianura padana fino al Piave — con la
presunta demoralizzazione delle truppe causata dalla reiterata e pesante
dissociazione del vertice della cattolicità. In realtà, la ragione principale
della rotta andavano rinvenute nella consapevolezza ormai generale
dell’esiguità della contropartita di tante morti e nell’insopportabile cinismo
e dallo sprezzo delle vite umane di cui gli alti comandi avevano via via dato
prova e che con le decimazioni di quell’anno, il quarto di guerra,
raggiungeranno il culmine .
Nonostante il clamore e le manifestazioni di odio suscitate dalla rinnovata e
dura presa di posizione del Papa, la diagnosi di Benedetto è amaramente esatta:
la guerra si stava allora trasformando in una autentica ecatombe della migliore
gioventù occidentale e sarebbe stato venir meno alla sua missione di pastore se
non avesse approfittato della condizione di apparente favore per una tregua che
si era potuto ipotizzare e lo avesse taciuto alle orecchie del mondo.
In questa sua lotta contro la degenerazione della
guerra Benedetto si troverà pressoché solo. Sarà con lui l’ala intransigente e
più popolare del cattolicesimo italiano, ma anche, come detto, l’imperatore
d’Austria, che ne condividerà genuinamente l’ansia di pace e l’orrore per le
atrocità della guerra moderna. Esemplare e anche toccante, in questo senso, è
la lettera con cui Carlo, il 20 settembre 1917, risponde alla nota di Benedetto
dell’agosto precedente: in esso vibra un autentico accento filiale e il medesimo
ardente desiderio di pervenire a una pace giusta .
Davanti al fallimento del suo appello, il 24 ottobre 1917, Benedetto confesserà
all’imperatore: è «l’ora forse più amara della nostra vita» .
5.2 Limitare la barbarie e aiutare le vittime
Gli sforzi vaticani per lenire gli orrori di un
conflitto globalizzato sono tanti, dalla richiesta di messa al bando delle armi
chimiche, dei bombardamenti, della guerra sottomarina, alla richiesta di
tregue, allo scambio di prigionieri. L’organizzazione di soccorso allestita in
Vaticano e mediante la rete delle nunziature e degli episcopati è imponente e
lascia una eredità di cui Pio XII potrà avvalersi nei giorni dell’ancor più
tremendo conflitto mondiale nel 1939-1945.
Le
iniziative di Benedetto — nel teatro di guerra europeo, ma anche oltremare, nel
Vicino Oriente, come pure nei Balcani e in Russia — non si contano: a favore
delle onoranze ai morti, della cura dei feriti, del sostegno dei prigionieri,
del ritorno dei civili deportati, del soccorso ai malati, agl’intossicati, ai
neurolesi, della comunicazione fra i soldati e le famiglie, delle ricerche dei
dispersi, del sostentamento delle popolazioni civili, gravemente denutrite e
prive di tutto. Si ricorderà forse che proprio mons. Pacelli, nunzio a Monaco
di Baviera, recherà i pacchi-viveri del Vaticano ai prigionieri italiani, cui
il governo di Roma impediva di ricevere aiuti, perché timoroso che una miglior
prigionia potesse incentivare le diserzioni .
A ostilità cessate, la gratitudine verso Benedetto
sgorgherà spontanea dai luoghi e dai popoli più impensati, perfino dagli
armeni, dai maroniti libanesi, dai russi. A lui nel 1920, in segno di gratitudine per aver soccorso prigionieri turchi degli Alleati e come memoria del
suo ardente desiderio di riconciliazione fra i popoli, verrà eretta una statua
a Istanbul, in terra musulmana e alla cerniera fra Europa e Asia. La sua carità
personale è rimasta proverbiale: riferirà il card. Gasparri che durante il
conflitto Benedetto erogherà di tasca sua ben ottantadue milioni di lire
italiane .
6. Il dopoguerra
Nel 1918 l’Europa si risveglia sconvolta dai cinque
anni di immani distruzioni umane e materiali che ha voluto e che ha subito. Ma,
invece che trarre la dovuta lezione dalla contemplazione delle macerie di una antica
civiltà, invece che soffocare i proverbiali sette demoni che l’hanno posseduta
per cinque drammatici anni, insiste sulla strada del nazionalismo moderno, che,
anzi, i nuovi Stati, creati a Versailles dalle ceneri degl’imperi e spesso, a
loro volta, piccoli imperi pluri-nazionali privi di ideale imperiale, alimentano
ed esasperano .
Su un altro binario, la Rivoluzione d’Ottobre e la caduta del gigantesco impero russo nelle mani del partito
socialista «bolscevico» imprimono una rapida accelerazione alla lotta di classe
mondiale — in Italia vi sarà il famoso «biennio rosso» 1919-1920 — e apre uno
scenario nuovo, dagli sviluppi dirompenti e non solo in Europa, ma anche, per
esempio, nel Messico massonizzato.
Nel 1919 molto è cambiato: quattro imperi sono
scomparsi, sono nati nuovi e avidi soggetti politici a base nazionale, gli
Stati Uniti hanno fatto pesantemente il loro ingresso nel concerto delle
nazioni. Il nuovo imperialismo sovietico preoccupa il mondo e avrà come contraccolpo
quella ideologia detta della «Rivoluzione conservatrice», che porterà alla
rapida ascesa di movimenti autoritari — come i fascismi e le «dittature
monarchiche» —, soprattutto negli Stati eredi degl’imperi, e del totalitarismo
hitleriano in Germania .
Benedetto si rende conto che queste nuove dinamiche
porteranno fatalmente a un nuovo scontro e nel 1920, nell’enciclica dedicata alla
riconciliazione dei popoli, la Pacem Dei munus, osserva che,
nonostante i trattati di Versailles — e forse grazie a essi: «restano
tuttavia i germi di antichi rancori» .
La sua indefessa opera di pacificazione e di
intervento umanitario farà crescere enormemente il prestigio della Santa Sede
negli anni del dopoguerra. Con Benedetto, possiamo dire che la Chiesa passa realmente allora da un protagonismo di tipo «temporale e territoriale» — che prende
corpo nell’età moderna, con i pontefici-re, e dura all’incirca fino a Pio X —, e
da una fase che potremmo definire di «primato magisteriale», ottenuto soprattutto
con Leone XIII, a una nuova condizione in cui la Chiesa inizia a svolgere, anche se embrionalmente, un ruolo di primazia morale e di guida
nella difesa dei diritti umani, che conquisteranno sempre maggior spazio nel
corso del secolo XX.
Non è un caso che, alla morte di Benedetto, dai quattordici
dell’epoca di Pio X siano saliti a ventisette i paesi in relazioni diplomatiche
con la Santa Sede: tanti, anche tenendo conto del frazionamento degl’imperi.
Paesi che fino al 1914 non avevano rapporti con Roma li ristabiliscono: l’Inghilterra,
l’Olanda, ma soprattutto la Francia — nel clima della beatificazione di
Giovanna d’Arco — riaprono le loro sedi diplomatiche romane.
In sintesi si può affermare che alle luce dei principi
cristiani di sempre, grazie alla sua intelligenza e al suo straordinario acume
diplomatico, Benedetto seppe gettare le fondamenta per un nuovo diritto
cristiano internazionale, che avrà, purtroppo, solo vent’anni dopo un severo banco
di prova con il nuovo conflitto mondiale.
7. Benedetto e l’Italia
7.1 I rapporti con lo Stato
Negli anni di Benedetto XV pesa ancora fortemente
nei rapporti con il nuovo Stato la Questione Romana. Anche in questo campo l’indole conciliatrice di Papa Della Chiesa si mette subito al lavoro. Fra i suoi
primi atti di governo egli si preoccupa di aprire un canale di comunicazione con
il governo italiano, scegliendo per questa funzione un alto funzionario cattolico
del Ministero dei Culti — dal 1908 al 1923 è Direttore generale del Fondo per
il Culto — e suo antico compagno di studi, il barone Carlo Monti (1851-1924).
Nel 1914, nonostante numerosi tentativi di ricomporre la frattura del 1870, il
centro del cattolicesimo rimaneva ancora un’associazione semi-privata incorporata
nel tessuto di uno Stato sovrano, di orientamenti ideali tutt’altro che in
sintonia con la fede cristiana, da cui dipendeva per tutto, dall’energia, alla
sussistenza, alle comunicazioni con la cristianità, in particolare con i nemici
dell’Italia, e con gli altri popoli del mondo. L’entrata in guerra dello Stato-ospite,
oltre a sollevare gl’interrogativi sopra accennati, provocherà l’esodo in
Svizzera delle legazioni presso la Santa Sede e l’occupazione di italiana di Palazzo Venezia, tradizionale sede dell’ambasciata austriaca. Ma, attraverso
un’intervista del cardinal Gasparri al Corriere d’Italia del 28 maggio
1915 ,
Benedetto mette le mani avanti, dichiarando di rifiutare ogni soluzione alla
Questione Romana, che derivi come contropartita da una sua adesione alla guerra
italiana. E simultaneamente rinuncia di fatto all’appoggio degli Imperi
centrali, nonostante questi abbiano espresso l’intenzione di portare la Questione alla futura conferenza di pace in caso di loro vittoria.
Peraltro, questa scelta, oltre alla
verificata non ostilità della Santa Sede all’Italia in guerra, dopo la guerra contribuirà
al riavvicinamento fra le due sponde del Tevere. Già il governo di Vittorio
Emanuele Orlando (1860-1952), nel 1919, non rigetterà l’idea di uno Stato
vaticano, e poi con il successore Francesco Saverio Nitti (1868-1953), le
intese faranno un deciso progresso, per compiersi infine — vinte le
insuperabili more dell’età liberale — con il governo di Benito Mussolini (1883-1945)
nel 1922.
7.2 Benedetto e la sua patria
Ma i rapporti fra Benedetto e l’Italia
non si riducono alla Questione Romana.
Sotto di lui, nel 1919, si compie la
completa soppressione di fatto del non expedit, che riapre
pienamente ai cattolici l’elettorato passivo e attivo. La prepotente ascesa del
partito «di cattolici», autonomo e aconfessionale, fondato da don Luigi Sturzo
nel 1919 metterà in sordina la linea delle intese clerico-moderate degli anni
di Pio X e offrirà — accanto a quello sindacale — un nuovo strumento di
presenza dei cattolici nella politica .
Uno strumento con i suoi pro e con i suoi contra, che Pio X — e
in seguito Pio XII — aveva sempre visto come un rischio di contaminazione dei
principi della dottrina sociale cattolica nella pratica politica in un quadro
di pluralismo culturale. Ma uno strumento che, nel contesto della società
sempre più democratizzata e secolarizzata, si andava imponendo in tutta Europa
e al quale sia Benedetto sia Gasparri non si opporranno durante i pochi anni che
intercorrono fra il 1919 e la soppressione del Partito Popolare a opera della dittatura
mussoliniana, distinguendo sempre fra «azione cattolica», legata alla
gerarchia, e «azione di cattolici», con diverse caratteristiche e autonomia.
Con Benedetto un altro non expedit cadrà, promuovendo anch’esso il
riavvicinamento alla nuova Italia: per migliorare le relazioni fra i sovrani
europei e favorire l’assestamento del Continente Benedetto nella Pacem Dei
munus rimuoverà anche il divieto ai sovrani cattolici di far visita al re
italiano nell’antica residenza papale del Quirinale a Roma.
8. Conclusioni
Vi sarebbero molti altri aspetti del pontificato
benedettino sui quali soffermarsi. Sarebbe importante, per esempio, rievocare
la sua opera per la diffusione della devozione al Sacro Cuore — attraverso la canonizzazione
della mistica francese santa Margherita Maria Alacoque (1647-1690), la dedicazione
dell’Università Cattolica di Milano al Sacro Cuore e il «lancio» della Basilica
del Sacro Cuore sulla collina di Montmartre a Parigi —; ricordare che il ciclo
di apparizioni mariane a Fatima del maggio-ottobre 1917 ,
così gravido di segni per lo sviluppo successivo degli eventi novecenteschi, si
svolge sotto Benedetto XV; rivisitare la grande riforma dell’azione missionaria
ad gentes, contenuta nell’enciclica Maximum illud del 1919 ;
sottolineare l’importanza della promulgazione, nel 1917, nel cuore della
guerra, del Codice di Diritto Canonico, già elaborato in gran parte sotto Pio X
;
parlare della nascita dell’Università Cattolica come importante tappa di
riconquista culturale della società, quindi anche di padre Agostino Gemelli (1878-1959)
— e della sua cerchia intellettuale — e della linea politica alternativa a
quella sturziana; menzionare come Benedetto abbia rilanciato i rapporti con le
Chiese orientali ;
rileggere la magnifica enciclica In praeclara su Dante Alighieri
(1265-1321), che ne rivendica la piena ed esemplare cattolicità ;
infine, descrivere la nascita della politica vaticana verso Israele e i Luoghi
Santi, liberati nel 1917 dai turchi ,
e vedere, magari, come la Chiesa si schierò davanti all’atroce genocidio
armeno.
Molti sono, dunque, i temi da sviluppare e molti gli
avvenimenti, spesso di difficile decifrazione, che si affollano nei pochi ma
cruciali anni benedettini in Europa e nel mondo, di cui parlare. V’è dunque ancora
molto da studiare. Mi piace rievocare, in chiusura, in questa prospettiva, una
frase che il cardinale Giuseppe Siri (1906-1989), arcivescovo di Genova, consapevole
di ciò, scrisse nel cinquantenario della morte di Benedetto: «La [sua] figura
ha diritto alla giustizia della storia. Purtroppo, la storia si muove quanto si
muovono gli scrittori, allorché si tratta dell’apprezzamento degli uomini. Chi
non ne trova nella sua scia, è costretto all’oscurità. È quello che è accaduto
a Benedetto XV. Se qualcuno sorgerà per scrutarlo a fondo renderà giustizia al grande
papa e renderà più onesta la storia» .