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a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale


inserito il 31 maggio 2008


Ángel David Martín Rubio (*)


Le vittime della Guerra Civile spagnola(1)



1. Introduzione

È stato detto, e a ragione, che la vera importanza della Guerra Civile spagnola nella storia del secolo XX non è tanto geopolitica o strategica quanto ideologica e culturale. Questi due ultimi concetti si rivelano particolarmente appropriati se li si dilata fino a considerare la guerra spagnola del 1936 uno scontro fra due concezioni del mondo: quella occidentale e cristiana e le nuove forme di totalitarismo che, provenienti dalla Unione Sovietica, cominciavano allora a espandersi. Nella fase finale della Seconda Guerra Mondiale il difficile accordo fra le potenze occidentali e l’Unione Sovietica si logorò e, nel corso del riordino delle alleanze durante la Guerra Fredda, la Spagna fu definitivamente inglobata nel mondo libero, consolidando così un percorso iniziato nel luglio del 1936.

Questa circostanza non poteva non aver ripercussioni sulle manifestazioni del conflitto internazionale all’interno del Paese e la profonda spaccatura che si verificò fra gli spagnoli nei più diversi campi — religioso, politico, sociale, dell’identità nazionale — fece sì che, alle normali perdite umane causate dalle conseguenze dirette e indirette delle operazioni militari, si aggiungessero, e in numero assai elevato, quelle prodotte in entrambe le retrovie dalle rappresaglie, dagli omicidi e dalle esecuzioni sommarie che si prolungarono fino ai primi anni del dopoguerra.

Però una corretta analisi storiografica non può dimenticare che le morti dovute alla repressione si situano in un contesto bellico e che, anche se sommiamo loro quelle avvenute in conseguenza delle operazioni militari, non sono le uniche ad aver avuto impatto sul piano demografico. In tempo di guerra si muore, ma vi sono anche meno nascite. D’altro canto, la sovramortalità non riguarda esclusivamente quelli che muoiono abitualmente — in quel frangente, anziani e bambini —, ma uomini giovani, non tanto persone inattive e infeconde quanto quelli che si trovano in età ottimale per il lavoro e per la paternità. In sé, la componente ideologica inerente a una guerra di tipo civile provocherà perdite nei settori più qualificati intellettualmente e più compromessi socio-politicamente della popolazione. Inoltre, la guerra separa i coniugi, ritarda i matrimoni e fa abbandonare i compiti abituali alla popolazione attiva, situazione che per gli sconfitti può prolungarsi nel dopoguerra. Infine — e l’elenco non è affatto esaustivo — le vicissitudini del fronte danno origine a non poche dislocazioni di popolazione, la cui espressione massima è l’esilio permanente.

Gli effetti demografici, le perdite umane della guerra hanno grande impatto sul futuro di un Paese la cui vita e i cui abitanti si vedranno colpiti necessariamente dai vuoti generazionali dovuti, soprattutto, all’aumento della mortalità e alla diminuzione della natalità. Tuttavia, ciò che veramente va lamentato è che, a settant’anni dalla fine della Guerra Civile, la sinistra spagnola si sia lanciata in una parziale e unilaterale revisione sul tema, deformando quanto è avvenuto per poi utilizzarlo nelle campagne elettorali e per introdurre il cosiddetto «recupero della memoria storica» fra le misure più urgenti per favorire il processo di trasformazione socio-culturale della Spagna intrapreso e incoraggiato dal governo presieduto da José Luis Rodriguez Zapatero. La cosiddetta «Ley de la Memoria historica» (2) inizia già a tradursi nella pratica nella lesione della concreta libertà di ricerca per gli storici spagnoli e consacra una interpretazione ufficiale della storia che riduce il conflitto spagnolo degli anni 1930 a una mobilitazione reazionaria contro quello che sarebbe stato un moderato progetto riformista, cioè quello della Seconda Repubblica, e che parla della violenza solo per minimizzare e giustificare quanto avvenuto nella zona del Fronte Popolare, mentre si presenta con la lente di ingrandimento quanto è avvenuto nella zona dei nazionali.

Il risultato di questo è l’aggiornamento dei vecchi miti «frontepopolaristi», formulazioni che si fondano su una realtà che è stata deformata e che giudica con diversa misura la violenza nell’una e nell’altra zona: il governo repubblicano si sarebbe visto scavalcato dall’attività di gruppi incontrollati, mentre nella zona nazionale sarebbero state le stesse autorità a dirigere l’azione repressiva, la quale assunse così caratteri di genocidio o di sterminio, come dimostrerebbe la corposa disparità delle cifre. Tutto ciò è al servizio di un progetto ideologico concreto: la rivendicazione odierna delle ragioni della fazione «frontepopolarista», il cui crollo ebbe origine prima in campo morale e poi in quello militare. I vincoli che esistono fra i promotori del ricupero della memoria storica e il neo-repubblicanesimo di una sinistra oggi radicale rendono inutile scendere in maggior dettaglio riguardo all’obiettivo politico ultimo di queste iniziative che rappresentano la riproposta aggiornata della vecchia concezione marxista della storia come strumento al servizio della lotta rivoluzionaria.

Per dare sfondo sentimentale a questa campagna politica, si pianifica e si porta a termine l’esumazione di resti umani, che vengono sempre attribuiti a vittime provocate dal partito vincitore. In tale contesto si situano alcuni libri di intonazione sensazionalistica, di contenuto unilaterale, carenti di metodo storiografico e in cui si avanzano cifre di vittime, di tombe e di dispersi senza alcun criterio. Ciò che è più penoso in tutto ciò è che per condurre questa offensiva si inalbera come bandiera il legittimo interesse di alcuni di sapere dove riposano i resti di propri familiari o i ricordi di coloro che erano bambini nel 1936 e le cui testimonianze vengono spiattellate senza sottoporle ad alcuna previa ed elementare verifica e senza invitare costoro a confrontarle con quelle di altri sopravvissuti, affinché così questi stessi testimoni divengano consapevoli di ciò che accadde in tutta la Spagna e non si limitino ad agitare i loro drammi personali.

Così si dimentica che molti familiari degli assassinati dai «frontepopolaristi» neppure sanno dove sono stati sepolti i loro caduti: basta ricordare quanto è avvenuto per le popolazioni aragonesi di Quinto e di Belchite, occupate dall’Esercito Popolare nella primavera del 1937, e per molti abitanti o difensori di queste due città, che furono immediatamente fucilati e non si sa dove sono stati sotterrati. Qualcosa di simile sarebbe possibile dire dei tanti che furono prelevati dalle celle delle checas (3) e dalle carceri, che abbondavano nelle retrovie rivoluzionarie; a parte i casi ben noti di Madrid e di Barcellona, in vari luoghi della Mancia si conservano pozzi pieni dei cadaveri che lasciavano dietro di sé i difensori della Repubblica e che finora non sono stati esumati.

Buona prova di ciò che vado dicendo è quanto avvenuto nel marzo del 2008, allorché comparve sui mezzi di comunicazione spagnoli la notizia che il Ministero della Difesa avrebbe occultato per un mese il rinvenimento di una fossa nelle installazioni militari dell’Unità di Servizio di Base «Primo de Rivera» della Brigata di Paracadutisti ad Alcalá de Henares (Madrid) (4). Le prime opinioni formulate a riguardo si concentrano sul fatto che possa trattarsi di una fossa comune, dove i corpi sarebbero stati gettati alla rinfusa invece che essere collocati ordinatamente sul suo fondo. Si fa perfino l’ipotesi che si tratti di una fossa aperta e poi richiusa varie volte per accumularvi nuovi cadaveri. La ragione per cui il «governo della memoria» ha cercato di far sparire la notizia è che Alcalá durante la guerra si trovava nella zona «frontepopolarista», cioè dominata dal Frente Popular de España, e che qui si commmisero centinaia di eccidi. Inoltre, ad Alcalá de Henares, nel giugno del 1937 fu detenuto, torturato e assassinato il leader del Partido Obrero de Unificación Marxista (Poum), Andrés Nin, e — elemento che individua con molta probabilità chi fu il responsabile di ciò — qui si trovava la principale base di operazioni della 46a Divisione dell’Esercito Popolare della Repubblica, comandata da Valentín González, un attivista comunista chiamato «El Campesino», che fece carriera nell’esercito durante la Guerra Civile approfittando della situazione. Le doti di comando di questo caporione erano scarse, ma godeva di grande influenza politica; il suo carattere era così duro, secondo dichiarazioni dei suoi stessi subordinati, che, non appena veniva disobbedito o era scontento di qualche ufficiale o soldato, ne ordinava la fucilazione, così che questa Divisione fu considerata un reparto di punizione per i maltrattamenti che vi subivano i soldati. Spesso gli ufficiali della 46a Divisione organizzavano, soprattutto ad Alcalá de Henares, incontri che si prolungavano talvolta per lo spazio di vari giorni, ubriacandosi a tal punto che in certe occasioni, in tale stato, lanciavano bombe a mano, con il risultato di provocare la morte di qualche soldato dell’Unità. Altra prova delle tendenze criminali di «El Campesino» è quanto avvenne in una postazione del fronte di Quijorna (Madrid): avendogli regalato una pistola, egli per provarla sparò diversi colpi a breve distanza su alcuni prigionieri, che restarono così uccisi (5).

Il silenzio ufficiale sulla scoperta di questa fossa comune apre una serie di interrogativi sulle inadempienze da parte del governo socialista della «Ley de Memoria Historica», poiché l’esecutivo di Zapatero si è compromesso favorendo la raccolta di ogni notizia disponibile su terreni in cui si fossero localizzati resti di vittime della Guerra Civile. Ma, soprattutto, dimostra che le fosse comuni sono solo un pretesto: la ribadita parzialità con cui si fa carico di una questione così largamente dibattuta non necessita di ulteriori dimostrazioni delle sue vere intenzioni.

 

2. Le perdite umane nella Guerra Civile spagnola, necessario sbocco di un ampio dibattito storiografico

Se oggi possiamo affermare che conosciamo i dati reali riguardo al totale delle vittime causate dalla guerra civile spagnola, ciò si deve solo all’ampio processo di ricerca con cui la storia ha rimosso le affermazioni esagerate e interessate della propaganda e in cui i lavori succedutisi nel tempo hanno permesso di giungere all’attuale stato del problema.

I riferimenti fondamentali sono la precoce indagine sulle ripercussioni demografiche della Guerra Civile svolta dal dottor Jesús Villar Salinas (6) e l’opera del generale Ramón Salas Larrazábal, (7) il primo ad abbordare il tema della mortalità nella Guerra Civile con una base statistica solida e a conseguire ciò che si era prefisso: far uscire l’argomento dal terreno «belligerante» e consegnarlo al campo dell’indagine storica. Nonostante i suoi limiti, si deve parlare di un «prima» e di un «dopo», riguardo al libro di Salas. Così, Juan Díez Nicolás, basandosi sul tasso di mortalità relativo ai decessi registrati, stimava che fra il 1936 e il 1941 fossero morti di morte violenta circa 300.000 maschi adulti, una cifra molto simile a quella ottenuta da Salas Larrazábal e a quella che si deduce dalle cifre ufficiali suddivise per causa di morte (8).

Nella valutazione di queste cifre — che comprendono tanto i caduti in azione di guerra quanto coloro che furono oggetto di rappresaglie in entrambe le retrovie e nell’immediato dopoguerra — si sono evidenziate due tendenze: quella predominante — che condivido — le considera essenzialmente corrette, anche se non per questo esenti da ulteriori analisi e precisazioni, poiché tanto le cifre utilizzate quanto le ipotesi verso quelli che sarebbero valori normali — che consentono di fare calcoli di sovramortalità — comportano necessariamente margini di errore. Un’oscillazione, perfino di diverse migliaia di unità, non ha la minima importanza in una proiezione demografica su una popolazione di venti milioni di persone, sebbene, naturalmente, anche una sola morte violenta abbia un grande impatto dal punto di vista umano. Al contrario, un settore della storiografia specializzatasi nello studio della repressione politica e che si caratterizza per la sua avversione verso i vincitori insiste nel dire che bisogna ridurre in maniera drastica le cifre delle violenze commesse in zona repubblicana, mentre vanno moltiplicate quelle delle vittime provocate dai suoi avversari, dal momento che le cifre ufficiali non hanno per loro valore.

Solo l’elaborazione di un campione sufficientemente rappresentativo di studi di tipo regionale o provinciale potrebbe riuscire a decidere la questione. Purtroppo nella maggior parte degli studi pubblicati finora si osserva come il pregiudizio che cerco di descrivere condizioni in maniera così grave l’uso delle fonti che o queste si fondano su stime, su notizie misteriose e sulle esagerazioni dell’opinione pubblica oppure, quando presentano elenchi nominativi elaborati a partire dai registri di Stato Civile, sono attribuite alla repressione degl’insorti parecchie vittime che in realtà sono causate da azioni di guerra oppure si tratta di caduti di parte nazionale, per cui i bilanci finali delle cifre non si possono accettare. Basta far riferimento, in questa prospettiva, ai lavori di autori come Francisco Moreno, Julián Casanova e Francisco Espinosa, rispettivamente per Córdoba, l’Aragona e Badajoz (9).

Gli esempi che cito in continuazione — e altri potrebbero essere addotti — sono sufficientemente significativi per dimostrare che siamo davanti a una manipolazione cosciente e, quindi, per mettere in dubbio i conteggi globali basati su dette cifre. Al contrario, quando le indagini sono svolte con rigore si delinea la tendenza a confermare le cifre dei registri ufficiali: per esempio ciò accade nel caso, fra gli altri, di Miguel Ors (Alicante), Rafael Quirosa (Almeria), Vicente Gabarda (regione valenciana) e Juan Antonio Ramos Hitos (Malaga) e José Maria Solé e Juan Villarroya (Catalogna) (10).

Nel caso dell’Aragona già Carlos Engel richiamava l’attenzione nei confronti del metodo impiegato nello studio promosso da Julián Casanova per attribuire alla repressione dei nazionali vittime di altre cause: «Il sistema di Solé Sabaté e di Joan Villarroya — scriveva — fu, ed è, largamente imitato, ma, mentre alcuni autori hanno fatto ciò con buon risultato, in alcuni casi, come nello studio sulla repressione in Aragona El pasado oculto, di diversi autori, si è arrivati a contabilizzare tra i fucilati dai nazionali anche i difensori di Codo e di Belchite, i feriti in azione e i morti di setticemia!» (11).

Alla fine di una rassegna assai accurata degli elenchi nominativi che compaiono alla fine dell’opera citata ho potuto provare che fra quelle che si adducono come vittime della repressione nazionale nella provincia di Teruel ve ne sono 65 che con tutta sicurezza persero la vita in conseguenza della repressione repubblicana oppure di operazioni militari e altre 105 che sono seriamente dubbie. Ciò impone di ridurre l’elenco nominativo da 1030 a 860 unità, una percentuale molto significativa (16,5%), se si tiene conto che si tratta di un libro alla sua seconda edizione rivista. Nel caso della capitale Saragozza posso dimostrare che cosa accade se si applica il medesimo criterio alle morti attribuite al mese di luglio: su un totale di 113, ne appaiono non identificate nominativamente 35, per cui si può pensare all’esistenza di una doppia contabilità, mentre 12 sono in realtà nazionali fucilati o caduti in azione di guerra. Nei mesi seguenti si ripetono casi simili e il fatto più curioso è quello dei 19 abitanti del Barrio di Santa Isabel che compaiono nello stesso tempo in questa presunta lista di vittime della rappresaglia dei nazionali e in un elenco di caduti della provincia di Saragozza consegnato dalla delegazione provinciale della Falange Spagnola Tradizionalista alla Causa General (12).

Riguardo all’Andalusia e all’Estremadura, Francisco Moreno Gómez e Francisco Espinosa Maestre si rivelano non meno privi di scrupoli al momento di aumentare il saldo numerico. Il primo è solito basarsi su calcoli e notizie misteriosi o sulle esagerazioni di quella che chiama l’«opinione pubblica»: così attribuisce più di novemila morti alla repressione nazionale nella provincia di Cordoba (13), mentre Espinosa mescola continue invettive e giudizi peggiorativi verso chiunque non condivida il suo punto di vista radicale con liste in cui — come ho dimostrato compiutamente in altra sede (14) — si fondono con le vere vittime della repressione nazionale morti avvenute precedentemente all’occupazione della città, vittime di sinistra come quelle provocate ad Azuaga e a Monesterio durante gli incidenti avvenuti il 19 luglio fra i rivoluzionari e le forze dell’ordine, perdite dovute a bombardamenti ed esplosioni, persone assassinate dai «frontepopolaristi», membri dell’Esercito Nazionale morti in azione, nomi ripetuti con leggere varianti. Da ultimo, in località dove vi furono combattimenti di rilievo, le morti corrispondenti al giorno di battaglia si inseriscono integralmente nelle liste, come se si trattasse di vittime della repressione: e questo ci porterebbe all’assurdo di dover ammettere che non sia stata registrata alcuna perdita dovuta ad azione di guerra... Basta citare il caso di Juan Blanco Platón, una delle «vittime della repressione» che Espinosa Maestre aggiunge per aumentare le cifre relative alla capitale (15), sebbene un decreto del giudice istruttore di Badajoz consenta di provare che la morte di Platón avvenne «in conseguenza di lesioni come quelle che subisce chi cade da un’automobile» e perciò si citano i suoi familiari più prossimi «al fine di prestare dichiarazione e di offrir loro il procedimento di detta causa» (16).

 

3. Ripartizione per causa di morte delle perdite fra la popolazione in relazione alla Guerra Civile

3. 1 Mancate nascite

Se osserviamo l’evoluzione della natalità fra il 1926 e il 1935 possiamo vedere come questa decrebbe in media dell’1,2% annuo — ponendo il tasso del 1926 uguale a 100 —, mentre nel decennio seguente (1936-1945) la discesa sarà del 2,1% — sempre in riferimento al 1926. Cioè, la Guerra Civile venne a incidere su una natalità che stava già scendendo dagli anni precedenti e che già non avrebbe potuto ricuperare i valori del 1935. Tale fattore dev’esser tenuto in considerazione quando si tratta di valutare quali effetti ebbe la guerra sulla natalità, anche se esso non esime dalla valutazione, poiché, come logico, il decremento fu allora maggiore e più rapido di quanto sarebbe stato in circostanze normali. La questione non è oziosa in quanto, come vedremo, la riduzione della natalità raggiunse valori simili all’incremento della mortalità e la sua ripercussione fu ingente nel determinare il profilo della popolazione spagnola nei decenni seguenti.

Calcolando quale natalità si sarebbe avuta se fosse continuato il trend del 1926-1935 e sottraendo al risultato la natalità reale del periodo 1936-1945, si può stimare che i «non-nati» siano 598.268 (17). Esiste una coincidenza generale di opinioni sul fatto che a questo capitolo si debba ascrivere la maggior perdita di popolazione imputabile alla guerra: «Il sistema demografico spagnolo risultò più influenzato dalla riduzione delle nascite che non dall’aumento dei decessi. Gli strumenti basilari dell’analisi demografica, le curve di movimento naturale (natalità, mortalità, crescita naturale) e le piramidi di età rivelano con molta maggior chiarezza le anomalie in relazione al primo fenomeno (la denatalità) che con al secondo (sovramortalità)» (18).

3.2 Sovramortalità per cause naturali

Come prevedibile, i decessi per cause naturali registrati a partire dal 1936 sono maggiori di quelli ipotizzabili nel caso che il conflitto non fosse scoppiato e il ritmo normale non fu ricuperato se non nel 1944. La sovramortalità in questa accezione è stimata in oltre 300.000 persone.

Nel 1936 la guerra aveva appena prodotto i suoi effetti sulle condizioni di vita della popolazione civile, per cui il numero totale di decessi per cause naturali è inferiore a quello dell’anno precedente. Però, a partire dal 1937, la mortalità ordinaria crebbe considerevolmente e tale aumento ricade quasi interamente sul territorio «frontepopolarista», in specie sul sud-est della Spagna e sulle province costiere della Catalogna. Il deteriorarsi delle condizioni di vita nelle retrovie repubblicane in conseguenza dell’ondata di profughi che vi si installò provvisoriamente e, soprattutto, del fallimento delle formule collettivistiche e di sfruttamento agricolo e industriale introdotte dai rivoluzionari, spiegano facilmente tale fenomeno.

Secondo Salas Larrazábal, l’indice di mortalità rispetto al 1935 si situò a 108 e fu superato in 19 province, 14 delle quali appartenenti alla zona governativa — Jaén, Almería, Ciudad Real, Murcia, Valencia, Gerona, Barcellona, e altre. Al contrario, la valle del Duero — autentico «polmone» della Spagna nazionale —, la Guipuzcoa, le Baleari e l’Orense costituirono un nucleo resistente alle malattie e le province estremegne e andaluse del sud-est si situarono a un livello discreto. L’austera amministrazione delle risorse nella zona nazionale, capace di attenuare gli effetti della guerra, rese possibile questo bilancio positivo. Nel dopoguerra la fame fece invece da protagonista nella regione sud-est e nella Mancia. Questa vasta zona, con popolazione sottoalimentata, fu anch’essa più vulnerabile alle malattie. L’indice di mortalità si elevò nel 1941 a 121,7 rispetto al 1935 e fu superato ampiamente in province come Huelva, Badajoz, Cadice e Siviglia. A partire dal 1942 le cose avranno un’evoluzione più favorevole, sebbene non manchino ricadute come quella del 1946.

Un indicatore importante nell’analisi di questa sovramortalità per cause naturali è la mortalità infantile, la cui discesa stava diventando abbastanza constante, sebbene nel 1935 fosse alta. Negli anni seguenti, i tassi di questo settore particolarmente vulnerabile si elevarono considerevolmente, dando origine a una buona parte di quella sovramortalità che ho constatato per la Guerra Civile e per il dopoguerra. D’altro canto, questa maggior mortalità infantile verrà a incidere su generazioni già di per sé in calo, lasciando la sua impronta sulla piramide delle età in corrispondenza di questi anni.

Per finire manca solo di constatare che parte di questa sovramortalità per malattia va riferita ai soldati che contrassero infermità nelle trincee e ai prigionieri deceduti per le dure condizioni della prigionia — fatto specialmente rilevabile nei campi di lavoro repubblicani e nel dopoguerra. A partire dal tasso di sovramortalità maschile all’interno del totale di morti naturali, Salas Larrazábal propone le cifre di 10.000 per la guerra e intorno ai 5.000 per il dopoguerra.

3.3 Esilio

Come ha ricordato recentemente Milagrosa Romero Samper (19), l’emigrazione di massa è legata al corso della guerra e alla caduta dei vari fronti repubblicani; in molti casi poi ebbe carattere di evacuazione temporanea. Da ciò deriva il fatto che i diversi autori differiscano nelle cifre definitive avanzate in relazione a un fenomeno «di per sé alquanto fluttuante». Attualmente si parla di mezzo milione nel primo trimestre del 1939 e di molte meno alcuni mesi dopo, quando iniziarono i rimpatri. Detratti i ritorni, il saldo finale di circa 200.000 persone fuori della Spagna alla fine del 1939 è comunemente accettato dagli autori che si sono occupati specificamente del tema (20).

3.4 Morti violente (azione di guerra e repressione)

3.4.1 1931-1936

Stanley G. Payne ha calcolato un totale approssimativo delle morti per cause politiche prodottesi nei cinque anni della Repubblica di circa 2.200 persone, 1.500 delle quali in occasione dei fatti rivoluzionari dell’ottobre del 1934 (21). Vale senz’altro la pena di confrontare questa cifra con quella che si deduce dalle statistiche ufficiali corrispondenti al periodo 1931-1935 (22). In questi anni fu registrato un totale di 35.861 morti violente e, deducendo da esso la quota normale di decessi, si ottiene una sovramortalità di 5.751 unità, cifra notevolmente superiore a quella in generale stimata e che va posta in relazione con il notevole incremento di morti violente che si ebbe negli anni della Repubblica, non attribuibile esclusivamente a cause politiche, ma anche al deterioramento generale delle condizioni sociali e all’incremento della criminalità che caratterizzarono gli anni del suo regime.

3.4.2 Caduti in azione

A partire dai dati dell’Istituto Nazionale di Statistica, il totale generale delle morti causate direttamente o indirettamente da azioni militari si può situare intorno alle 135.000 unità. A questa cifra si deve aggiungere una quota per le perdite non iscritte nei registri, soprattutto quelle di combattenti stranieri, che Salas Larrazábal distribuiva così: 13.706 nelle file governative e 12.107 in quelle nazionali. In tal modo si arriva a un computo finale che si suddivide come segue.

Tabella 1: Caduti in operazioni militari

Morti in azione di guerra, bombardamenti, incidenti, ecc.

134.422

Combattenti stranieri morti in azione di guerra

25.813

Azioni di guerrilla (23)

2.641

Totale

162.876

Nella classificazione delle provincie in base al numero di morti in azione di guerra i fronti si disegnano con precisione: Madrid occupa il primo posto, seguita da Barcellona, Oviedo, la Biscaglia, Saragozza, Tarragona, Badajoz e Valencia. Si configurano pertanto nella mappa due ampie fasce, che coincidono con le zone dove maggiore è la densità delle perdite. La prima di esse inizia a Malaga, attraversa Cordoba e Badajoz — i «fronti del Sud», apparentemente lontani ma letali —, prosegue per Toledo, Madrid e Guadalajara — teatro di grandi offensive nel 1936 e nel 1937 — e si enfatizza verso l’Aragona e il Levante — dove si decise la guerra nel 1938. L’altra occupa la cornice cantabrica, l’autentico teatro della guerra dalla conquista di San Sebastian e dalla difesa di Oviedo fino al crollo del fronte asturiano. Sullo sfondo si definiscono con chiarezza le regioni della retrovia nazionale — fondamentalmente la Galizia, le Canarie, la Rioja e la Castiglia-Léon —, dove sono registrati solo alcuni dei loro nativi, perché caduti su altri fronti.

In questo numero di morti sono ricompresi circa 20.000 civili rimasti vittime di azioni militari — di cui Salas Larrazábal stima che circa 7.000 siano i morti a causa di bombardamenti e il resto a causa d’incidenti e di traumi vari —, la cui distribuzione per provincia conferma che le maggiori sofferenze furono patite dalle popolazioni più a ridosso della linea del fuoco, divenute i principali obiettivi nelle retrovie. Oviedo, Madrid e Barcellona si collocano in testa, seguite a maggior distanza dalla Biscaglia, da Badajoz, Valencia, Tarragona, Lérida, Jaén, Toledo, Gerona, Saragozza, Siviglia, Murcia e Alicante.

3.4.3 Repressione

Se uno dei fatti più significativi che si deducono dall’analisi demografica delle conseguenze della Guerra Civile è che la maggior perdita di popolazione si deve alle mancate nascite e non alle vittime dirette del conflitto, il secondo è l’elevata proporzione che, all’interno del numero delle morti violente, rivestono quelle occasionate da rappresaglie compiute nelle retrovie: approssimativamente il 50% del totale. Infatti le vittime nella retrovia «frontepopolarista» furono circa 60.000, mentre il numero di giustiziati da parte degl’insorti nel corso della guerra e nel dopoguerra ascenderebbe a 80.000. Tuttavia, non si può perdere di vista che, se agli inizi della guerra il 59% della popolazione risiedeva nella zona governativa e il 41% nella zona insorta, i rivoluzionari videro inevitabilmente ridursi il loro territorio — e pertanto la popolazione sotto il loro controllo —, mentre i nazionali ebbero l’opportunità della resa dei conti nelle zone che via via occupavano, sia durante la guerra, sia nel dopoguerra. È chiaro che si tratta di cifre differenti — poiché nel primo caso minore è l’entità della popolazione considerata potenzialmente ostile, dal momento che provincie intere erano fuori del controllo dei «frontepopolaristi» —, ma anche espressive di una differenza qualitativa essenziale: non è la stessa cosa la repressione in un contesto offensivo e quella in contesto difensivo o di ritirata. Pertanto, la repressione nella zona repubblicana causò meno vittime in numero assoluto, ma in proporzione la cifra risulta maggiore di quella della repressione della zona nazionale e del dopoguerra. In ogni caso, come vedremo nel paragrafo seguente, questo bilancio numerico continua a essere il più discusso fra quanti si riferiscono alle perdite umane della Guerra Civile.

 

4. Caratteri del fenomeno repressivo

4.1 In generale

Tuttavia, l’importanza del dibattito sulle cifre della repressione è assai relativa. In primo luogo perché gonfiare le liste delle vittime con qualche centinaio di nomi può dimostrare la maggiore o minore professionalità di chi lo fa; secondo, perché si tratta di volontà deliberata di manipolazione o di mancanza di capacità nel trattare le fonti, ma, soprattutto, perché la questione quantitativa ha un’importanza relativa e lascia intatta la necessità di arrivare a una spiegazione — mai a una giustificazione — di quella tragedia. Non si potrà mai minimizzare quanto sia pesata la violenza scatenatasi in occasione della Guerra Civile spagnola. Nella zona insorta e in quella controllata dal Fronte Popolare diverse migliaia di persone vennero fucilate in applicazione dei bandi di guerra e di processi giudiziari ben presto avviati nonché come frutto di una repressione irregolare, che si mantenne attiva fino a data assai avanzata: tutti questi dati sono sufficientemente esplicativi se vogliamo affrontare seriamente la questione.

Meno lecito risulta minimizzare quanto avvenuto nelle retrovie rosse perché, come qualcuno sostiene, «la sinistra mancava di un progetto repressivo» (24). Ciò significa passare sotto silenzio gli elementi più fondamentali delle ideologie marxista e anarchica, la cui teoria e pratica storicamente sono sempre state accompagnate dall’eliminazione dei dissidenti, sebbene proprio gli anarchici o i comunisti si mostrarono riluttanti ad accettare il predominio sovietico. Con estrema chiarezza aveva dato avviso di questi disegni il deputato comunista Antonio Mije in un raduno tenutosi nella Plaza de Toros di Badajoz nel maggio del 1936: «Suppongo che il cuore della borghesia di Badajoz generalmente non palpiterà domani al vedere come sfilano per le strade con il pugno alzato le milizie in uniforme; al vedere come sfilavano questa mattina migliaia e migliaia di giovani operai e contadini, gli uomini del futuro Esercito Rosso [...]. Questo atto è una dimostrazione di forza, è una dimostrazione di energia, è una dimostrazione di disciplina delle masse operaie e contadine inquadrate nei partiti marxisti, che si preparano assai presto a farla finita con quella gente che in Spagna continua ancora a dominare in forma crudele e sfruttatrice» (25).

Per non aver alcun «progetto repressivo» le parole citate prima della stampa socialista sembrano troppo esplicite e acquistano un senso tragico alla luce di quanto andava accadendo in Spagna fin dal 1931. Naturalmente i «borghesi di Badajoz», e di tanti altri luoghi, potevano incrociare le braccia e lasciare le mane libere ai militanti dei partiti e dei sindacati di sinistra decisi a farla finita con loro ma, sfortunatamente per costoro, non lo fecero. Ed è questo che deve spiegare lo storico: furono le sinistre a distruggere la legalità repubblicana, propiziando con ciò il terrore che si scatenò a partire dal 1936.

Lavori come quelli di Pio Moa e di Stanley G. Payne (26) hanno documentato con estrema chiarezza un processo che ha come antecedente l’azione sovversiva e terroristica della sinistra radicale durante il regno di Alfonso XIII; un processo che si accelera con la instaurazione della Repubblica in virtù di un atto di forza cui non poté dar risposta la legalità vigente. La prima tappa fu marcata dal movimento antidemocratico del 1934, quando il Partito Socialista e i separatisti catalani si sollevarono contro la volontà della maggioranza della nazione che si era espressa nelle elezioni del novembre 1933 dando la vittoria al centro-destra. Il disegno fallì, ma in Catalogna, nelle Asturie e in altri luoghi si produsse un primo assaggio degli omicidi, dei saccheggi, degl’incendi e delle torture che si sarebbero ripetuti nel 1936 su scala assai maggiore. Soffocata la rivolta con le armi, fu evidente l’incapacità degli altri e più alti poteri di rispondere all’aggressione subita e, mentre la propaganda di sinistra lamentava una repressione mai esistita come seguito della Rivoluzione dell’ottobre 1934, i suoi stessi organizzatori si preparavano a un secondo e definitivo assalto al potere che avrebbe avuto luogo dopo le elezioni del febbraio del 1936.

Il processo che portò il Fronte Popolare, nonostante il ridotto risultato elettorale, a mettere insieme una maggioranza alla Camera ebbe il suo culmine nella destituzione illegale del Presidente della Repubblica e nella sua sostituzione con Manuel Azaña. Durante i mesi che trascorrono dal febbraio al luglio del 1936 si assiste allo smantellamento dello Stato di diritto attraverso provvedimenti quali l’amnistia concessa per decreto-legge; l’obbligo di riammettere le persone destituite per la loro partecipazione ad atti di violenza politico-sociale; la riabilitazione davanti alla Generalità di Catalogna di coloro che erano stati protagonisti del golpe del 1934, le espropriazioni anti-costituzionali, il ritorno all’arbitrarietà dei giurati misti, le coazione del potere giudiziario... Nel contempo, gli attivisti del Fronte Popolare si rendevano protagonisti con totale impunità di episodi che furono denunciati in Parlamento senza ottenere altra risposta se non minacce come quelle profferite contro José Calvo Sotelo. Non vi era alcuna ragione per non pensare che, in poco tempo, gli obiettivi della rivoluzione dell’Ottobre non sarebbero stati raggiunti attraverso l’uso combinato dell’«azione diretta» e delle vie legali. Qualunque analisi che ignori quanto fin qui esposto mancherebbe di rigore nello spiegare quanto avvenuto quando ciò che restava della Seconda Repubblica, dello Stato costituito nel 1931, crollò nel luglio del 1936.

In tale contesto, siamo in tanti a sostenere che non si può affermare che la crudeltà sia stata patrimonio di una delle due parti e che non si può scaricare una sola di esse dalla responsabilità piena di quanto accadde in Spagna a partire dal 1936. Nelle due zone vi fu repressione, repressione «irregolare» e repressione «controllata», in entrambe vennero a mancare meccanismi di difesa e in entrambe fu negato al nemico ogni diritto. Più tardi, superata l’esplosione di odio, di paura e di vendetta dei primi mesi, s’impose realmente il disegno di far passare la repressione attraverso le vie legali, precarie quanto si vuole, ma che senz’altro risparmiarono altro sangue. Infine, ai vincitori fu possibile pareggiare i conti una volta terminata la guerra e questo alla fine squilibra il saldo delle cifre.

Naturalmente ciò non significa che in ciascuna zona la repressione non avesse caratteri propri e che non esistesse fra le due zone una differenza sostanziale. Nella zona repubblicana la repressione fu in maniera predominante risultato di un procedimento giuridicamente incostituzionale e moralmente inqualificabile, nacque dall’aver armato il popolo, dalla creazione di tribunali popolari e dalla proclamazione dell’anarchia rivoluzionaria, fatti tutti che equivalevano a una «patente» concessa a convalida delle migliaia di omicidi commessi, la responsabilità dei quali ricade pienamente sopra coloro che li istigarono, li permisero e li lasciarono impuniti.

Nella zona nazionale e nel dopoguerra la repressione fu in maniera predominante il risultato della sanzione di comportamenti di rilevanza penale tenuti nel periodo del controllo rivoluzionario. Si potranno segnalare non poche eccezioni a queste due regole generali, ma difficilmente si potrà mettere in discussione i fatti che caratterizzano le grandi linee di quanto avvenuto e che spiegano la differenza di cifre fra le provincie che si trovarono sottoposte al processo rivoluzionario e quelle che rimasero fin dal principio della guerra in zona nazionale.

4.2 In particolare

In particolare, per capire quanto accadde in ciascuna zona bisogna considerare quanto segue.

4.2.1 Nelle retrovie repubblicane

Qui, fra l’agosto del 1936 e il gennaio del 1937, il valore massimo del numero delle morti varia nelle diverse provincie, ma la maggior parte di esse si ebbe nei mesi dell’estate e dell’autunno del 1936, ripresentandosi poi nei momenti di particolare tensione. A partire dal 1937 la repressione prenderà altre forme e conterà su organi più specializzati: è questa l’epoca delle checas, le carceri segrete di partito, del Servicio de Investigación Militar e dei campi di lavoro.

Specialmente là dove gli omicidi furono più selettivi o colpirono persone isolate i repubblicani uccisero persone benestanti e in genere notabili locali; altrove invece il fenomeno si tradusse in una persecuzione massiccia diretta anche contro impiegati, operai di diversi mestieri, lavoratori giornalieri e altri appartenenti ai gruppi sociali più modesti.

La persecuzione religiosa, iniziata prima della guerra, ebbe molteplici manifestazioni, fra cui va segnalato l’assassinio di sacerdoti, di religiosi e di laici; gl’incarceramenti e gli incendi, i saccheggi e le profanazioni di edifici e di oggetti sacri.

Queste azioni sono state attribuite a un fenomeno spontaneo, frutto della lotta di classe, avente come protagonista le masse inferocite: tuttavia, in base ai dati disponibili, è possibile precisare come, in numerose occasioni, l’iniziativa partì dalle autorità, tanto da quelle già esistenti quanto dalle nuove istanze costituitesi a partire dall’evento rivoluzionario, che furono quelle che dominarono veramente la situazione.

4.2.2 Nelle retrovie nazionali

Nel periodo della guerra, in quest’area le prime azioni repressive furono dirette contro i nuclei di resistenza incontrati dalla sollevazione e ben presto esse cedettero il passo alla pratica tragica dei «paseos», le passeggiate (senza ritorno), la quale più o meno tardi tenderà a sparire a seconda delle zone per essere sostituita, prima per gradi, poi definitivamente (sempre salvo eccezioni), dalle esecuzioni legali. A partire dalla fine del 1936 e dagl’inizi del 1937, le cifre relative alle vittime della repressione in luoghi fino ad allora parte della zona nazionale sperimentano una caduta certamente notevole, che va messa in relazione con il generalizzato trapasso dei poteri alle autorità preposte all’ordine pubblico, con la maggior centralizzazione dei poteri dello Stato e con il controllo, quasi definitivo, assunto dall’apparato repressivo.

A mano a mano che le zone rimaste sotto il controllo della Repubblica furono occupate dall’Esercito Nazionale, subirono una nuova ondata di violenza, di segno contrario rispetto a quella che avevano subito fino ad allora; riguardo al dopoguerra si può parlare chiaramente di due tappe: il 1939-1940 (momento di maggior intensità) e gli anni seguenti, in cui furono liquidate con relativa rapidità le responsabilità di carattere penale. È chiaro che, soprattutto dopo la guerra o nelle zone che erano appartenute alle retrovie repubblicane, si giudicavano, in un buon numero di casi, delitti concreti.

La provenienza delle vittime è duplice. Da un canto, i membri di una minoritaria borghesia liberale, repubblicana, di sinistra, fondamentalmente residente in nuclei urbani di una certa entità e nelle capitali. E, dall’altro, in maggioranza operai di diversi mestieri e salariati agricoli (giornalieri). Specialmente perseguite saranno le autorità repubblicane e, nel dopoguerra, i protagonisti della mobilitazione politico-sindacale del periodo precedente: il tutto senza però omettere di ricordare la componente arbitraria e aleatoria di molte delle morti avvenute in tale contesto.

4.3 Il dopoguerra

Nel periodo immediatamente successivo alla fine dello scontro armato — il dopoguerra — si creò l’urgenza primaria di mantenere la Spagna neutrale, di consolidare le basi del nuovo Stato, di risollevare l’economia e di conciliare le sanzioni con una politica di progressiva inclusione dei vinti nella stessa convivenza all’interno della nazione. La repressione non finì con la guerra. Conoscendo quanto era avvenuto negli anni precedenti è difficile pensare che potesse terminare: «Una guerra civile lascia un formidabile strascico di passioni collettive a cui non è facile porre termine. Parliamo con estrema chiarezza: ogni provvedimento governativo nel senso della liberazione dei vinti era visto con profondo sgradimento da parte di enormi settori dell’opinione pubblica. Naturalmente tale opinione non era propria dell’intero ambito nazionale, ma dell’enorme partito che trionfava. Credere che al termine di un conflitto come il nostro si sarebbe restaurata automaticamente la convivenza ordinaria e che la gente avrebbe chiesto a gran voce provvedimenti liberali significa cedere a un modo di pensare la storia banale e astratto, alieno dalla realtà, non sempre sereno, pur così tanto alla moda, nel mettere a fuoco i problemi politici» (27).

Come inevitabile, la retorica dei promotori della «memoria storica» si è rovesciata con tutta la sua artiglieria su quanto accaduto nel dopoguerra ma ha dimenticato e passato sotto silenzio che dopo la guerra furono giudicati in buon numero casi di delitti concreti, così come si scorda tutta l’opera condotta a termine in parallelo per la reintegrazione dei vinti nella vita civile, opera che si può dare per conclusa nel 1945, sei anni dopo la fine della guerra. Il seguente bilancio è a mio giudizio inoppugnabile e chiude la questione: «Questo genere di retorica ricorda quello che contrassegnò la campagna del 1935 sulla repressione nelle Asturie, falsa in percentuale elevatissima, come abbiamo visto, ma che diede forma allo spirito terroristico del 1936. E, di certo, sfida l’esperienza e la statistica. Quantunque vi fosse una durissima repressione nei primi anni del dopoguerra, nella quale incorsero fatalmente i responsabili di crimini così come degl’innocenti, neppure da lontano vi fu un simile sterminio di classe o non di classe. La immensa maggioranza di coloro che lottarono a favore del Fronte Popolare (più di 1.500.000 uomini), di coloro che lo votarono nelle elezioni (4.600.000) o vissero nella sua zona (14 milioni) [dopo la guerra] non furono né fucilati né dovettero esulare; si reintegrarono invece presto nella società e ricominciarono le loro vite, nel contesto di miseria che in quegli anni toccò quasi tutti gli spagnoli. Ciò è talmente ovvio che pare incredibile leggere a questo punto simili accuse, forse pensate per “intossicare&148;, secondo l’espressione di Besteiro, i giovani che non hanno vissuto la guerra né il franchismo» (28).

 

5. Bilancio finale del totale di perdite umane in conse guenza della Guerra Civile Spagnola

A conclusione di quanto finora detto, constato che, dieci anni dopo aver esposto per la prima volta questi risultati (29), non vi sono ragioni di peso per alterare nella sostanza il bilancio delle vittime presentato allora, nel 1996-1997; esso, integrato da qualche apporto di altri autori (30), si può riassumere come segue.

Tabella 2 : Bilancio delle perdite umane in conseguenza diretta e indiretta della Guerra Civile spagnola

§ Morti violente (le cifre relative alla repressione sono state arrotondate)

Durante la Seconda Repubblica

Scontri diversi

725

Rivoluzione dell’ottobre 1934

1.500

Durante la Guerra Civile

Repressione

Nelle retrovie repubblicane

60.000

Nelle retrovie nazionali

50.000

Spagnoli morti in campagna bellica

Esercito Nazionale

56.444

Esercito Popolare

57.332

Combattenti stranieri

Esercito Nazionale

12.107

Esercito Popolare

13.706

Bombardamenti e incidenti

20.646

Nel dopoguerra

Repressione

30.000

Guerrillas (1943-1952)

Uccisi dalla guerrilla

953

Banditi morti in conflitti

2.302

Membri delle forze dell’ordine morti in conflitti

339

Nella II Guerra Mondiale

Divisione Azul

3.934

Campi di concentramento nazionalsocialisti

5.015

Combattendo con gli Alleati e con la Resistenza

1.500

 

 

§ Altre cause

Esilio

200.000

Sovramortalità per malattia (guerra e dopoguerra)

330.780

Mancate nascite (idem)

550.000-600.000


Ángel David Martín Rubio

Note:


(*) Ángel David Martín Rubio è sacerdote (1969), nonché laureato in Geografia e Storia all’Università di Estremadura e in Storia della Chiesa alla Pontificia Università Gregoriana; professore in vari istituti, è specialista di storia spagnola, in particolare del periodo della Repubblica, della Guerra Civile e del dopoguerra; sul tema della repressione ha pubblicato diversi libri e articoli.
(1) L’articolo è stato anticipato sul sito Storia & Identità. Annali Italiani online (<www.identitanazionale.it>).
(2) Cfr. Ley 52/2007, de 26 de diciembre, por la que se reconocen y amplían derechos y se establecen medidas en favor de quienes padecieron persecución o violencia durante la guerra civil y la dictadura, in Boletín Oficial del Estado, n. 310, 27-12-2007, doc. 22.296, pp. 53.410-53.416.
Lo stesso Re di Spagna che ha promulgato questa legge, avrebbe detto nel novembre del 1975 davanti alle Cortes spagnole: «Una figura eccezionale entra nella storia. Il nome di Francisco Franco sarà una pietra miliare del passato spagnolo e un segno cui non si potrà non riferirsi per capire qual è la chiave della nostra vita politica contemporanea. Con rispetto e gratitudine voglio ricordare la figura di colui che per tanti anni ha assunto la grave responsabilità di reggere il governo dello Stato. Il suo ricordo costituirà per me una esigenza comportamentale e di lealtà riguardo alle funzioni che assumo al servizio della Patria. È proprio dei popoli grandi e nobili saper ricordare coloro che dedicarono la loro vita al servizio di un ideale. La Spagna non potrà mai dimenticare chi, da soldato e da statista, ha consacrato tutta la sua esistenza al suo servizio» (Juan Carlos I, cit. in Antonio Fernández García et Alii, Documentos de Historia Contemporánea de España, Actas, Madrid 1996, p. 640).
(3) Le prigioni segrete dei partiti rivoluzionari, chiamate checas, in analogia con quelle della Ceka, la polizia segreta sovietica (ndr).
(4) Cfr. il quotidiano ABC, Madrid 6-3-2008. Molti altri riferimenti sono apparsi in tutti i mezzi di comunicazione audiovisiva.
(5) Questa informazione risulta dalle indagini condotte nel dopoguerra dal Ministero della Giustizia e che si chiamò Causa General, fondo documentale attualmente conservato nell’Archivo Histórico Nacional (Madrid). Furono vittime di questa Divisione, fra parecchi altri, Eduardo Álvaro de Benito y Costa, Juan Verín Garrido, Jesús Ros Emperador, Agustín Ramírez Callar, Jose Riaza González, Manuel San Bartolomé Rodríguez e José Antonio Cascales Sánchez.
(6) Cfr. Jesús Villar Salinas, Repercusiones demográficas de la última guerra civil española. Problemas que plantean y soluciones posibles, Sobrinos della Suc. de M. Minuesa de los Ríos, Madrid 1942.
(7) Cfr. Ramón Salas Larrazábal, Perdidas de la guerra, Planeta, Barcelona 1977.
(8) Cfr. Juan Diez Nicolás, La mortalidad en la guerra civil española, in Boletín de la Asociación de Demografía Histórica, 1(1985), pp. 41-55.
(9) Francisco Moreno Gómez, La guerra civil en Córdoba, Alpuerto S.A., Madrid 1985; Julián Casanova et Alii, El pasado oculto. Fascismo y violencia en Aragón, Siglo XXI, Madrid 1992; e Francisco Espinosa Maestre, La columna de la muerte. El avance del ejercito franquista de Sevilla á Badajoz, Crítica, Barcelona 2003. Una sintesi di queste posizioni in Santos Juliá (a cura di), Víctimas de la guerra civil, Temas de Hoy, Madrid 1999, di cui esistono edizioni più recenti, l’ultima è Temas di Hoy, Madrid 2006. Oltre al coordinatore hanno collaborato a quest’opera Julián Casanova, José María Solé y Sabaté, Juan Villarroya e Francisco Moreno.
(10) Cfr. Josep María Solé i Sabaté, La repressió franquista a Catalunya (1938-53), Edizioni 62 S.A., Barcelona 1985; Idem e Joan Villarroya I Font, La repressió a la retaguarda di Catalunya 1936-1939, 2 voll., Publicazioni de l’Abadia de Montserrat, Barcelona 1989-1990; Vicente Gabarda Cebellán, Els afusellaments al País Valenciá (1938-1956), Edizioni Alfons il Magnànim, Valencia 1993; Miguel Ors Montenegro, La represión de guerra y posguerra en Alicante (1936-1945), Secretariado de Publicaciones de la Universidad de Alicante, Alicante 1995; Rafael Quirosa-Cheyrouze, Represión en la retaguardia republicana. Almería, 1936-1939, Librería Universitaria, Almería 1997; Vicente Gabarda Cebellán, La represión en la retaguardia republicana. País Valenciano, 1936-1939, Edizioni Alfons il Magnànim, Valencia 1996; e Juan A. Ramos Hitos, Guerra civil en Málaga. 1936-1937. Revisión histórica, Editorial Algazara, Málaga 2003.
(11) Carlos Engel, Sesenta años, ríos de tinta, in Historia y Vida, 373(1999), p. 49.
(12) Cfr. Archivo Histórico Nacional, Causa General, Leg. 1023(1).
(13) Senza pretendere per ciò di sottrarre drammaticità a quanto avvenuto a Córdoba, il ricercatore Patricio Hidalgo Luque ha provato che nel libro di Moreno Gómez si incontrano persone fucilate che non sono tali bensì vittime di bombardamenti, feriti dai «frontepopolaristi» nei villaggi della provincia e morti negli ospedali della capitale e un’altra serie di persone, infine, morte per cause diverse e che figurano nei registri come morti «giudiziarie». D’altro canto, le duplicazioni che si riscontrano nell’iscrizione a registro delle vittime rendono difficoltoso il computo di esse quando si vuol raggiungere un livello superiore a quello meramente locale.
(14) Cfr. il mio Los enredos della memoria histórica, in Razón Española, 138(2006)101-113.
(15) Cfr. F. Espinosa Maestre, op. cit., p. 347.
(16) Cfr. Boletín Oficial della Provincia di Badajoz, 3-11-1936.
(17) Cifra che si colloca nell’orbita di quelle proposte da Villar Salinas (516.602) dell’Istituto Nazionale di Statistica nell’Anuario, del 1943 (436.328) e, soprattutto, da Salas Larrazábal (557.182).
(18) Tomás Vidal Bendito e Joaquín Recaño, Demografía y guerra civil, in La Guerra Civil. 14. Sociedad y guerra, Historia 16, Madrid, s.a., p. 68.
(19) Cfr. Milagrosa Romero Samper, La oposición durante el franquismo. 3. El exilio republicano, Ediziones Encuentro, Madrid 2005, pp. 55-59.
(20) Oltre al libro citato di Milagrosa Romero, essenziale è Javier Rubio, La emigración de la guerra civil de 1936-1939. Historia del éxodo que se produce con el fin della II República española, 3 voll., Librería Editorial San Martín, Madrid 1977.
(21) Cfr. Stanley G. Payne, La primera democracia española. La Segunda República, 1931-1936, Paidos, Barcelona 1995, p. 404.
(22) La cifra non comprende i dati del 1936 perché in essa entrano anche i mesi di guerra.
(23) Cifre in Francisco Aguado Sanchez, El Maquis en España. Su historia, Librería Editorial San Martín, Madrid 1975, pp. 253-254. Una magistrale demolizione della mitologia forgiata da certi autori e dell’attuale propaganda intorno a ciò che viene chiamata la «guerrilla antifranchista» si può trovare in Alonso Sánchez Gascón, Los maquis que nunca existieron, Exlibris Ediciones, Madrid 2006.
(24) F. Espinosa Maestre, op. cit., p. 253. Incredibile affermazione dedotta dalle cifre ottenute a partire da una selezione di villaggi della provincia di Badajoz nella quale si sono eliminate quelle in cui i massacri dei rivoluzionari provocarono un numero più alto di vittime.
(25) Claridad (giornale socialista), Madrid, 19-5-1936.
(26) Cfr. Pio Moa, 1934: Comienza la Guerra Civil. El PSOE y la Esquerra emprenden la contienda, Áltera, Barcelona 2004; Idem, 1936: el asalto final a la República, Áltera, Barcelona 2005; e S. G. Payne, El colapso della República (Los orígenes de la guerra civil 1933-1936), La Esfera di los Libros, Madrid 2005.
(27) Quotidiano Hoy, Badajoz, 8-11-1945, pubblicato in precedenza in Arriba.
(28) P. Moa, il derrumbe della segunda república y la guerra civil, Ediciones Encuentro, Madrid 2001, p. 556.
(29) Cfr. il mio Las perdidas humanas, cit.; Miguel Alonso Baquer (a cura di), La guerra civil española (Sesenta años despues), Actas, Madrid 1999, pp. 321-365; e il mio Paz, piedad, perdón... y verdad (La represión en la guerra civil: una síntesis definitiva), Fenix, Toledo 1997.
(30) Cfr. Emilio Esteban Infantes, La División Azul (Donde Asia empieza), Editorial AHR, Barcelona 1956; F. Aguado Sanchez, op. cit.; J. Rubio, op. cit.; e R. Salas Larrazábal, op. cit.


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