1.Vitaliano Brancati (1907-1954) prende la tessera del Partito Nazionale Fascista all’età di diciassette anni, il 4 febbraio 1924
(1). La sua è un’adesione pienamente convinta, ma ispirata soprattutto da ragioni extrapolitiche. Egli infatti considera il fascismo, com’è stato giustamente sottolineato, una
«[…]
visione del mondo che risponde agli interrogativi pressanti dell’esistenza, che propone un canone perfetto di valori ideali, che incide beneficamente sulla realtà interna dell’individuo e su quella esterna della società» (2). Si ha conferma di ciò nelle parole con le quali il giovane scrittore siciliano descrive l’udienza concessagli da Benito Mussolini (1883-1945):
«Io sono nato in un’epoca d’asfissia. Ricordo che non c’era nulla da fare; che sedevo, bambino, in un mondo ove tutto pareva finito; e il dubbio di vivere era così grande da togliere anche il pensiero della morte. Egli, l’uomo che ho visto pochi minuti fa, apparve come un nuovo senso della vita» (3).
Tale giudizio, com’è evidente, rinvia a una prospettiva latamente religiosa. Secondo Brancati, Mussolini, il «nuovo senso della vita», incarna una speranza di palingenesi nei confronti di una realtà che considera imperfetta.
Brancati avrà poi modo di rivedere radicalmente, ben prima della caduta del regime mussoliniano, il giudizio sul fascismo; e tuttavia, sebbene capovolgendone il segno, continuerà a mantenere la medesima valutazione «religiosa» rispetto alle ragioni della sua adesione. Nel saggio Istinto e intuizione, del 1946, egli ripensa in questi termini la sua professione di fede fascista: «Sui vent’anni, io ero fascista sino alla radice dei capelli. Non trovo alcuna attenuante per questo: mi attirava, del fascismo, quanto esso aveva di peggio, e non posso invocare per me le scuse a cui ha diritto un borghese conservatore soggiogato dalle parole Nazione, Stirpe, Ordine, Vita tranquilla, Famiglia, ecc.» (4).
E spiega le ragioni profonde di questa scelta: «Il fascismo, lo reputai una religione; e in verità non potevo trovare un culto più macchinoso e fervido della bassezza e un odio più sincero e meglio armato per le cose alte e nobili. L’Italia fascista, la reputai un tempio: nessuna società infatti aveva mai dichiarato, con tanto concorso di popolo, grandiosità e strepito, dalle sue piazze, dalla sua radio, dai suoi giornali, dalle sue Camere, dalla sua scuola, guerra al Pensiero. Quel credere non si sapeva bene a che cosa, mentre non era moralità per il fatto che non era credere a Gesù Cristo né al Bene e dunque non imponeva alcuna rinunzia, era un gradevolissimo e sicuro antidoto del pensiero» (5).
2. Nel fascismo, il giovanissimo Brancati intravede innanzitutto la possibilità di comporre le lacerazioni interiori che lo agitavano intellettualmente, e che ci sono testimoniate dai suoi primi componimenti letterari.
In alcuni versi di ingenua ispirazione dannunziana, per esempio, egli, ancora sedicenne, dibatte sul valore di poesia e azione e, con apparente paradosso, si pronunzia per la superiorità della seconda rispetto alla prima:
«E non cetre molli tentare dobbiamo, ma in nobili
aratri e in balenanti
spade torcere il ferro. Io non chiedo versi sonanti:
chiedo robusti muscoli» (6).
Ma Brancati cerca anche risposte alla sua sete di assoluto. Nel «poema drammatico» Fedor, scritto fra il 1924 e il 1926, e pubblicato nel 1928, è ritratto l’omonimo protagonista nella sua ambizione di plasmare, attraverso l’arte, una realtà perfetta. Egli, come spiega a Paolo, il suo migliore amico, scorge il senso più profondo dell’esistenza umana nell’azione guidata dalla creatività: «Dovevo compiere un lavoro da demiurgo, non più da scultore […] lavorare con gli spazii, con l’infinito, come col marmo e col travertino» (7).
Il superamento del limite umano rappresenta la meta verso cui si indirizzano i suoi massimi sforzi. Appare emblematico, a questo proposito, il testo del coro che ne descrive l’ascesa verso il cielo:
«– Sali. Sali. Lasciamo il vecchio
cielo, le antiche sorelle
luminose... È tempo di sorgere,
di viaggiare nell’immensità.
- Si ascende! Si ascende! O divina
prora fatta di mare
di vento di rupe.
- Si ascende cinti di lampi,
con le vette che sfondano il cielo.
– Alfine ci scatenammo!
– Vedremo se c’è Dio lassù,
se in tutto lo spazio si piange, si trema...» (8).
È per l’appunto a partire da questi presupposti che ha luogo l’incontro con il fascismo.
3. Le opere, da questo punto di vista, più interessanti sono quelle che Brancati scrisse nella seconda metà degli anni 1920. Nell’atto unico Everest — la cui narrazione è ambientata nell’anno 3900, in un utopico villaggio situato a 6000 metri d’altezza —, egli ritrae una comunità che persegue il raggiungimento di uno stato di vita ideale. L’esistenza dei suoi abitanti ha come principale punto di riferimento, fisico e morale, l’altezza delle cime che si elevano sopra il villaggio. Un drappello di giovani, un giorno, decide di svelare il segreto della vetta che sovrasta il villaggio, scolpita da uno scultore che l’aveva poi ricoperta con un’enorme massa di foglie secche. Per scorgerne i tratti, i giovani si inerpicano fino a essa e danno fuoco alle foglie. Tra il rosseggiare delle fiamme, vedono apparire i lineamenti del volto di un uomo leggendario: Benito Mussolini. Nella prefazione il giornalista Telesio Interlandi (1894-1965) interpreta così il senso dell’opera: «Everest è il primo felice tentativo di rendere drammaticamente il senso eroico dell’azione mussoliniana. Una società umana dell’avvenire vive nel clima ideale creato dagli italiani di Mussolini; ha le sue radici morali in quel lontano tempo e tende, con le sue estreme vette, a una cima, su cui si scoprirà il segno del Condottiero» (9).
È poi lo stesso autore, con una nota posta in calce all’opera, a ribadire il valore metapolitico della sua concezione del fascismo: «Il Fascismo è rappresentato, in Everest, nel suo imperativo categorico, in quello che non può non essere oggi come ieri, domani come oggi: un’accolta di uomini puri, vigorosi, dignitosi, intorno a uno che, nell’attirarli e sollevarli verso l’alto, mentre lascia libera la loro personalità, si serve di una misteriosa e invincibile forza che trascende lui e gli altri» (10).
Come non scorgere, dunque, nell’aspirazione alla dimensione infinita che promana della figura di Mussolini i tratti di un’epifania religiosa?
In un altro testo teatrale, Piave, il protagonista è un disertore, il tenente Giovanni Dini, che trova rifugio, dopo la sconfitta di Caporetto del 1917, presso la propria famiglia. È ormai certo della fine dell’Italia e vede per sé e per la patria — che considera il valore supremo — soltanto la morte. Sollecitato dall’esempio di altri militari, Dini ritorna al fronte, senza però farsi soverchie illusioni circa l’esito finale del conflitto. Prostrato dal dubbio, nonché ferito, l’ufficiale ritrova il senso della propria esistenza dall’incontro con il sergente Benito Mussolini, il cui ingresso sulla scena ridà significato positivo all’azione bellica. Dalla vittoria finale, infatti, è destinata a sorgere una nuova umanità.
I due testi teatrali qui citati (11) rispondono, com’è evidente, a quello che probabilmente è stato il fine più ambizioso dell’azione politica di Mussolini, ovvero una sorta di trasformazione antropologica del popolo italiano. Da parte dell’autore, del resto, emerge il rifiuto del mondo in cui vive e la pressante aspirazione a un mondo nuovo, che vede realizzabile con la completa affermazione del fascismo. Quest’ultimo, come giustamente scrive lo storico Emilio Gentile, ha anche rappresentato il tentativo di «[...] infondere nelle coscienze di milioni di italiani e italiane la fede nei dogmi di una nuova religione laica che sacralizzava lo Stato, assegnandogli una primaria funzione pedagogica con lo scopo di trasformare la mentalità, il carattere e il costume degli italiani per generare un uomo nuovo, credente e praticante nel culto del fascismo» (12). Il fascismo, assumendo riti e simboli dal culto religioso, mira all’affermazione del primato della fede politica, alla consacrazione della figura del capo carismatico come interprete dell’anima della nazione, alla capillare diffusione di un codice comportamentale, all’instaurazione di una liturgia politica fondata sulla deificazione dello stato e sul culto del capo (13). Sicché, da questo punto di vista, le ragioni del fascismo di Brancati collimano pienamente con l’indirizzo totalitario, rivolto all’instaurazione di una vera e propria religione politica, perseguito da Mussolini e da alcuni fra i più importanti esponenti del regime (14).
4. L’idea di «uomo nuovo» e l’aspirazione a una «nuova umanità» sono ancor più peculiarmente descritte nel romanzo Singolare avventura di viaggio, il cui protagonista è Enrico Leoni, giovane e convintissimo fascista che anela, in realtà velleitariamente, alla rigenerazione sia personale, sia dell’intera nazione italiana. Egli considera Mussolini la forza demiurgica e spersonalizzatrice che assorbe in sé ogni travaglio storico: «La storia, forse, ha dei problemi terribili da risolvere; ma gl’individui no, non hanno nulla da fare! L’apparizione di un uomo di genio in una nazione significa, intanto, vacanza. L’uomo di genio sottrae problemi da tutte le parti, li prende per sé, lascia gli altri disoccupati. Vent’anni fa, i giovani dovevano risolvere molte questioni, di cui parecchie inutili. [...] Ora tutto s’è semplificato» (15).
Nei pensieri e nelle parole del protagonista, peraltro, affiora spesso la speranza di una società diversa, nella quale possano rifulgere le qualità di un’umanità rigenerata dalla fede fascista. Egli e i suoi amici vorrebbero una guerra che, come fu per la Prima Guerra mondiale, consenta la nascita di un nuovo tipo umano. Nell’attesa che si proponga un evento del genere, rivolge le sue velleità superomistiche al piacere dei sensi.
Tuttavia, il tentativo di Enrico di vivere il rapporto carnale con la cugina Anna secondo una morale superiore, fondata sulla forza e sulla volontà, finisce in una patetica contorsione, tra rimorsi e incertezze. Sarà il ricorso all’azione a ricondurlo a una condizione di rinnovato equilibrio interiore, che riacquisirà percorrendo a passo di marcia la distanza che separa Viterbo da Roma: «L’unico fatto incontestabile è questo: che ora, mentre cammina e torna all’azione, il nostro personaggio è veramente felice, e sorride» (16).
Emerge in questo modo la dimensione attivistica nella quale vive il personaggio, sicché valori quali la patria o l’amore rappresentano solamente delle occasioni che permettono il dispiegarsi dell’azione.
Anche in questo caso, appare chiara la caratterizzazione del fascismo di Brancati come religione politica. Lo attestano la visione dualistica dell’uomo e del mondo, l’attesa di una nuova era, la volontà di instaurare una società perfetta, il vagheggiamento di un «uomo nuovo» e di una nuova umanità (17). Ciò collima, del resto, con la definizione di «fascismo» riportata dall’Enciclopedia Italiana, nella voce firmata da Mussolini, ma redatta da Giovanni Gentile (1875-1944): «Il fascismo insomma non è soltanto datore di leggi e promotore di vita spirituale. Vuol rifare non le forme della vita umana, ma il contenuto, l’uomo, il carattere, la fede» (18).
Siffatta sintonia ideale con il fascismo, e con la filosofia gentiliana, costituisce il nucleo principale del primo tempo della vicenda letteraria e biografica di Brancati. Un nucleo, però, che già in Singolare avventura di viaggio mostra palesi contraddizioni e che sarà presto destinato a dissolversi.
5. Gli scricchiolii e le incrinature delle certezze fasciste, che in vario modo affiorano in Singolare avventura di viaggio, prendono consistenza negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione del romanzo, fino a tramutarsi in un atteggiamento di radicale disincanto nei confronti dell’ideologia fascista, del Duce e dei simboli più rappresentativi del regime. Tale ripudio, che non è improvviso, matura, molto probabilmente sollecitato anche da vicende personali, nel periodo 1933-1934, allorché lo scrittore siciliano risiede a Roma (19). Sono gli anni in cui si è ormai stabilizzato il compromesso fra il fascismo e la «vecchia» Italia, quella borghese, clericale e mediocre, e in cui si è affievolita la spinta del fascismo «rivoluzionario».
L’opera che meglio esprime lo svanire dell’incanto fascista è il romanzo Gli anni perduti, e rispetto a quelle precedenti presenta due temi del tutto nuovi: il venir meno della fede nella possibilità di trasformare il mondo con l’azione; la denunzia dell’attivismo come forma perversa di mistificazione del reale.
La storia si svolge a Natàca (ipogramma di Catania) e ha come protagonista un gruppo di giovani che vive nell’apatia, senza alcuna grande meta da perseguire. Fra loro, il più rappresentativo è Leonardo Barini, il quale ha trascorso alcuni anni a Roma, ma ha poi fatto ritorno nella propria città, in attesa di ritrovare un migliore equilibrio esistenziale. L’ambientazione del racconto, del resto, è quanto di meno fascista si possa immaginare: «[…] Fra gente che andava su e giù per ore intere sullo stesso marciapiede, facendo qualche volta un vago cenno d’impazienza, ma in realtà non aspettando nessuno, e gente che stava ferma per ore intere ad ascoltare una musica che non le piaceva affatto, i cani randagi, con la loro corsa diritta, con la loro aria di chi ha uno scopo e una meta (tanto che i cittadini si domandavano con un senso d’invidia: ma dove vanno, questi cani?) erano i soli che tenessero alto il prestigio dell’Occidente» (20).
L’ideale dell’azione, invece, è incarnato da un singolare personaggio, l’italo-americano professor Buscaino, il quale, giunto a Natàca e constatatane la piattezza fisica e morale, si impegna per la costruzione di un’altissima torre panoramica, che, attraendo un gran numero di visitatori, avrebbe dovuto rappresentare un cospicuo affare economico; ma soprattutto, innalzandosi sulla città, avrebbe dovuto sollecitare gli abitanti a grandi ideali.
Attraverso tale progetto, Buscaino seduce Leonardo e i suoi amici, per i quali la realizzazione dell’edificio diviene immediatamente, oltre che lo schermo dell’occupazione lavorativa che non hanno, la principale ragione di vita. D’altro canto, con la costruzione della torre il professore italo-americano si propone come il demiurgo pronto a plasmare a Natàca un nuovo tipo umano: «Un giorno di febbraio, Buscaino, passeggiando con un gruppo di amici per una via di campagna, e vedendo a destra e a manca i giardini di limoni con i frutti d’oro, si spinse tanto con la fantasia che esclamò: Cotesti non sono frutti, cotesti sono visi di bimbi appesi ai rami! Oh, nulla di strano che qui stia per nascere una nuova umanità di Natàca, dalla pelle d’oro e dagli occhi verdi: esseri felici che apprezzeranno l’opera di Buscaino e vedranno nella Torre Panoramica il primo segno della nuova storia di Natàca!» (21).
La realizzazione del progetto incontra notevoli ostacoli, ma nonostante trascorrano ben tredici anni dalla sua ideazione, quei giovani rimangono sempre fedeli a Buscaino. Lo considerano, infatti, l’artefice della propria salvezza: «Subito i tre amici guardarono Buscaino, che sonnecchiava in una poltrona. Eccolo l’uomo che li ha salvati, che li salverà sempre meglio!» (22).
Per Leonardo, poi, l’edificazione della torre è la giustificazione, in un ideale giudizio finale post mortem, degli anni vissuti a Natàca: «Erano passati tredici anni da quando Leonardo, Giovanni e Rodolfo giunsero a Natàca, dieci da quando vi giunse Buscaino, sette da quando furono gettate le fondamenta della torre [...]. Oh, certo, se in questi tredici anni non si fosse fatto nulla di concreto e di utile, quella parola che sembrava così strana e priva di senso: Quarant’anni! Io ho quarant’anni! [...] sarebbe diventata cattiva e fastidiosa. Ma non era così: perché bastava andare ai vetri del balcone e cancellarvi il velo dell’alito, per vedere lontano, sul dorso nero dei tetti, la torre panoramica [...], la solida torre! [...] nel giorno del giudizio, quando Dio domanderà: Che avete fatto?, essa verrà piano piano, e risponderà per loro: Hanno fatto me!» (23)
La conclusione del romanzo ha però un esito surreale. Ultimata la costruzione, si scopre che non sarebbe stato possibile ottenere il permesso di aprire la torre al pubblico e, di conseguenza, avviare la progettata attività commerciale. La notizia rivela, d’improvviso, ai protagonisti quale sia la realtà, sicché Leonardo Barini e i suoi amici, ormai quarantenni, prendono coscienza di come abbiano sprecato i propri anni, mentre il professor Buscaino si trasforma d’improvviso ai loro occhi in un grande impostore. Lo stesso Buscaino, del resto, si rende conto della portata del fallimento: «[...] Noi lavoriamo, noi ci affanniamo, mettiamo pietra su pietra, buttiamo sudore e sangue, alla fine crediamo di aver innalzato qualcosa d’imperituro e di utile, e sotto un fascio di registri si nasconde un foglietto giallo, cinque paroline, una legge inviolabile, qualcosa che, apparendo all’ultimo momento, ci dice che il nostro lavoro è stato un errore, che noi abbiamo lavorato in una direzione vietata e sbagliata» (24).
Per i personaggi che hanno partecipato all’impresa le conseguenze umane sono disastrose: Leonardo Barini abbandona definitivamente l’idea di trasferirsi a Roma per ottenere un impiego di prestigio e trascorre la sua vita nell’inazione; Lisa Careni, eterna innamorata, delusa da Leonardo, si lascia andare alle ebbrezze del vino; Rodolfo De Mei giunge addirittura a invidiare la condizione del fratello pazzo: «Oh, Dio, Dio, com’è penosa la ricerca di un nuovo se stesso! Egli invidiava perfino il fratello, così come lo vide in una sera di luna, nel giardinetto dell’ospedale nero, a lento trotto, con una mano sulla schiena a guisa di coda, alzare a destra il mento ed emettere un raglio. Almeno Enzo si sentiva e si credeva qualcuno» (25).
È, per l’appunto, il bilancio di un fallimento. Al posto dell’uomo «nuovo», ritroviamo un’umanità disastrata.
Riprendendo le considerazioni di Emilio Gentile, ricordo che «il mito dell’italiano nuovo occupò un ruolo centrale nella cultura, nella politica e negli obiettivi del regime. Dal successo della rivoluzione antropologica, i fascisti facevano dipendere il successo di tutto il loro esperimento totalitario di costruzione di un uomo nuovo e di una nuova civiltà» (26) sicché, come si vede, l’evoluzione della narrativa di Brancati testimonia l’insuccesso di tale esperimento.
6. La fine dell’illusione fascista non rappresenta comunque per Brancati la rinunzia alla ricerca di significato esistenziale. Quelle stesse istanze dalle quali scaturiva il fervore religioso del culto fascista, infatti, si ripresentano sotto altre forme.
In che direzione occorre ricercare il senso ultimo dell’esistenza umana? È il dubbio su cui si interroga Ermenegildo Fasanaro — forse il personaggio intellettualmente più problematico dei romanzi di Brancati (27) —, in un illuminante episodio de Il bell’Antonio. Passeggiando lungo le vie di Catania, in compagnia del nipote Antonio Magnano, egli disserta di filosofia: «Però sbottò d’un tratto Ermenegildo, io al fatto che lo spirito umano crea il mondo, non ci ho mai creduto!... Cioè, mi spiego meglio: quando leggo il nostro grande filosofo vivente, io piego la testa e ammetto di essere stato battuto. Non c’è che dire, ha ragione lui: al di fuori del pensiero umano non esiste realtà di sorta, noi non possiamo uscire fuori del nostro pensiero, anche questa frase che ho detto fuori del nostro pensiero non è che un nostro pensiero... Perdio, non trovo argomenti contro di lui, mi mordo le mani e i gomiti, ma devo ammettere che non ne trovo!... Però, sento qualcosa in fondo al petto, una protesta, un’aspirazione... come devo dire?... una pazzia, qualcosa che chiede giustizia contro questo modo di ragionare che non ti dà respiro, contro... come devo dire?... la prepotenza del nostro grande filosofo vivente«» (28).
Quello di Ermenegildo è un po’ il tentativo di confutare la filosofia idealistica — il riferimento di «grande filosofo vivente» sembrerebbe indicare Croce, ma si potrebbe pensare anche a Gentile —, di cui percepisce la non verità (29). In particolare, egli non accetta l’asserzione «lo spirito umano crea il mondo», senza però essere in grado di controbattere con adeguate argomentazioni. Riaffiorano nel suo monologo, sebbene carichi di più complesse problematicità, i dilemmi che angustiavano il giovanissimo Brancati e che, come si è visto, erano stati acquietati con l’adesione al fascismo; in particolare, la scissione fra pensiero e azione, il dualismo fra anima e corpo, gli interrogativi sul senso della vita umana, sul destino, sul significato della conoscenza. Ermenegildo non accetta la filosofia idealistica perché essa, pur proclamandosi in grado di rispondere a tali domande, non è in grado di «penetrare» veramente il mistero dell’esistenza: «[...] perché al nostro pensiero è dato tanto spago da permettergli di arrivare con un salto a sentir l’odore della verità, senza però poterne cogliere il frutto, e perché alla fine, ci viene concessa la facoltà di chiedere ‘perché’ e negata quella di ricevere una risposta definitiva» (30).
Ma il personaggio brancatiano rifiuta la finitezza della conoscenza, considerando superiore, piuttosto, l’atteggiamento di coloro i quali non accettano l’ignoranza dei fondamenti dell’esistenza umana e preferiscono il suicidio a un’esistenza inconsapevole: «Questa serenità, con cui diciamo di comprendere, e accettare di buona grazia, tutti i contrasti e assurdità della vita, non varrebbe per caso assai meno della disperazione con cui i grandi del passato gridavano di non comprenderli e tanto meno accettarli, e preferivano il suicidio a una vita di miseria e d’ignoranza, che a loro, grandi e generosi davvero, appariva in ogni caso disonorevole?» (31).
Le conclusioni alle quali perviene al termine del suo monologo sono perciò molto drastiche: «Ermenegildo [...] non poté fare a meno di mormorare lungo il faticoso tragitto: ...o divento comunista anch’io!......ovvero cattolico, cattolico tutto fede e devozione, casa e chiesa!...o lascio aperto il rubinetto del gas!» (32).
In realtà, nella triplice opzione si scorge chiaramente la presa di coscienza della intrinseca contraddittorietà della filosofia idealista. Essa si rivela insufficiente a comprendere il reale e consegna al personaggio tre vie d’uscita: il comunismo, il cattolicesimo o il suicidio. Ermenegildo, scegliendo il comunismo, che come per il fascismo incarna una concezione del mondo immanente, potrebbe continuare a coltivare la speranza di una palingenesi umana e di una società ideale che realizzi, nell’azione, un mondo nuovo (33); scegliendo la religione cattolica, invece, aderirebbe a una concezione trascendente del mondo, ma dovrebbe accettare il mistero e abbandonare l’ambizione a comprendere tutto; infine, la scelta del suicidio sancirebbe il rifiuto della realtà e, dunque, lo scacco della ragione.
Ermenegildo elegge per sé quest’ultima possibilità e si toglie la vita col gas, lasciando solo un bigliettino d’addio: «Quest’incubo della vita è stato potente e continuo e, pur tra le sue assurdità, ha saputo avere un’aria di coerenza e quasi di naturalezza» (34).
In queste parole, a voler giudicare l’atto da un punto di vista filosofico, si scorge il dissolversi delle sue idee in un orizzonte nichilistico.
7. I personaggi di Brancati, allorché sviluppano in profondità le proprie riflessioni, pervengono dunque a un radicale rifiuto della realtà di cui sono parte. In un passo del Diario Romano, del resto, lo stesso autore si esprime sull’argomento in termini non dissimili da quelli di Ermenegildo Fasanaro: «Perché la realtà deve essere proprio così? È una domanda probabilmente comica, come la protesta di chi non vuole subire che due per due dia quattro e sempre quattro, e aspira a una condizione superiore a quella che è sottoposta ai numeri. Ma è una domanda talvolta violenta, che sembra confondersi col bisogno doloroso e inappagato di ricordare una condizione dimenticata» (35).
È tuttavia in Paolo il caldo, il suo ultimo romanzo, che Brancati delinea la trama degli esiti che la ricerca di senso gli impone. Che sono sostanzialmente tre: l’ozio, il sesso, l’intelletto; e tutti conducono al nulla.
Dell’ozio si parla nell’episodio in cui Edmondo Castorini spiega al giovane nipote Paolo quale sia, secondo lui, la più felice condizione umana: «All’ozio, mio caro, all’ozio più completo. La cosa più bella della vita è non far nulla. E libertà significa poter vivere senza far nulla. Questa è la vera libertà [...] Comprendo che questo non è possibile per tutti. D’accordo. E allora quei pochi che siamo liberi godiamoci la nostra libertà» (36).
Del sesso, è paradigmatico rappresentante lo stesso Paolo, il quale lo esalta, conversando con il pittore Domenico Pinsuto, come massimo valore dell’esistenza: «Ma lei perché dedica la sua vita esclusivamente alle donne?Perché non c’è altra felicità a questo mondo! rispose Paolo. Arte, scienza, lavoro: tutte sciocchezze, mi creda. Politica, commercio: sciocchezze!... Entrare per la prima volta nell’intimità di una donna: ecco un momento sublime. Non ce n’è altri!» (37).
La ragione, invece, si incarna in Michele Castorini, che così rappresenta al figlio Paolo la propria condizione di uomo drammaticamente provato dal fatto di possederla, ma di non riuscire a vivere secondo i suoi dettami: «[...] la felicità non circola in nessuno di voi, è bene che te lo ricordi per l’avvenire. La felicità, in questa famiglia, avrei potuto averla soltanto io, perché la felicità è la ragione. Solo che il mio mal di testa fosse stato meno forte, solo che i nervi del mio stomaco avessero avuto qualche momento di tranquillità, vi avrei insegnato a ridere sul serio, a voi tutti che ridete così spesso, ma talmente male... E vi avrei insegnato anche a pensare, a meditare su voi stessi» (38).
Torna ancora una volta, in tutta la sua problematicità, il tema dell’inconciliabilità fra pensiero e azione. La conclusione della vicenda umana di questi personaggi, del resto, rivela in tutti e tre i casi un orizzonte nichilista. La morte di Edmondo ha luogo nel più completo disfacimento materiale: «Tutta la sensualità di quell’uomo, vuota della donna, era maestosamente occupata a sentire la morte. Le narici, che si erano allargate per ingrandire gli odori che fiutavano, erano adesso piene di quel segreto profumo di decomposizione che esalava dall’interno del corpo» (39); Paolo coglie momenti di serenità interiore nell’unione coniugale con Caterina, ma questa, a un certo punto, lo abbandona ed egli è preso da «fantastica gelosia» e sente «[…] l’ala della stupidità sfiorargli il cervello» (40); Michele si spara un colpo mortale allo stomaco, motivando così, in un momento di lucidità durante l’agonia, il suo gesto: «Io sono riuscito a intuire poche volte cosa sia la vita nella sua forma normale [...]. Mi mancava tutto: l’aria, la forza di camminare, la forza per digerire, e, soprattutto, la forza per pensare... Che cosa diventa, lo spirito umano, in un cervello anemico e intossicato... A quali degradazioni è sottoposto! [...] Ho sentito sempre la mia vita animale distaccata da me stesso... » (41).
I tre personaggi seguono, perciò, analoghe parabole esistenziali: ricerca della felicità, constatazione dell’impossibilità a conseguirla, follia oppure morte.
8. Un po’ tutti gli studiosi, prendendo in esame l’itinerario letterario — e umano — di Brancati, hanno distinto due tempi, tra loro scissi da una radicale cesura: quello giovanile del filo-fascismo e quello della maturità. Ma separando il Brancati fascista da quello antifascista, e considerando la sua prima produzione letteraria esclusivamente come il frutto di un errore morale, non si giunge alla piena comprensione di ciò che costituisce l’ultimo approdo della sua opera.
Per Brancati il fascismo, come si è avuto modo di porre in evidenza, è espressione del rifiuto del mondo esistente e della speranza — in vero velleitaria — di uno nuovo (42). Tale speranza si traduce però in uno scacco, la cui presa di coscienza lo induce sì a rivedere i convincimenti politici e il modo di rapportarsi all’opera letteraria, ma non ad abbandonare il radicale immanentismo della sua visione del mondo. Sicché i suoi aneliti restano pur sempre rivolti verso l’idea di una realtà nuova — ovviamente molto diversa dal mondo ideale prefigurato con il fascismo, ma anche da quello del suo tempo (43) —, che tuttavia si dimostra irragiungibile.
Vediamo così compiuto un esempio di quell’itinerario di «suicidio della rivoluzione» descritto dal filosofo Augusto Del Noce, per il quale la dissoluzione nichilista rappresenta l’esito ultimo, e necessario, del fascismo — e della filosofia idealistica —, inteso come religione politica (44).
Nella cultura del giovane Brancati come in quella del maturo, nel Brancati fascista come nell’antifascista, la non accettazione di una realtà oggettivamente data approda, dunque, a una visione del mondo del tutto negativa. Da questo punto di vista, il romanziere siciliano si dimostra una figura estremamente rappresentativa nel panorama della cultura italiana ed europea del Novecento, proprio perché rivela, attraverso la sua parabola intellettuale, come l’insostenibilità del vivere — per usare le parole del sociologo tedesco Max Weber (1864-1920) — in un mondo «disincantato» e «in un’epoca senza Dio e senza profeti» (45), dopo la sostituzione del sacro con la religione politica, si dissolva alla fine nella follia o, forse ancor più coerentemente, nella morte (46).