Centotrenta
uomini uccisi. Il primo omicidio è datato 7 agosto 1941, l’ultimo 4 febbraio 1951. In alcuni casi, rari, i killer sono stati perseguiti; ma su moltissimi altri casi regna
il buio, anche perché l’omertà, sembra incredibile, copre ancora le colpe a
tanti decenni di distanza. E quando non si tratta di omertà, c’è però una — non
meno riprovevole — indifferenza su cose frettolosamente accantonate, perché
ormai vecchie, passate. In molti casi all’omicidio si è aggiunto un ulteriore
oltraggio, impedendo addirittura che si tenessero pubbliche esequie per le
vittime, o anche propalando su di loro dicerie infamanti, quasi a giustificarne
l’uccisione. La mano omicida ha colpito in tutta Italia, dalla Val d’Aosta al
Friuli, arrivando fino alla Calabria. Tanti i sicari, pochi, come dicevamo
quelli puniti, uno solo il mandante. Conosciuto, ma impunito.
Le
vittime hanno una caratteristica che le accomuna: sono tutti sacerdoti,
secolari o religiosi, parroci o cappellani militari, o semplici preti senza
incarichi specifici, o cura d’anime. Molti, moltissimi di loro sono stati
uccisi due volte: la prima volta dagli assassini materiali, la seconda volta dall’oblio
e dalla negligenza di chi non può o non vuole ricordare.
Sembra
la trama di un racconto poliziesco nato dalla fantasia un po’ troppo sbrigliata
di qualche scrittore in vena di fornire emozioni «forti» ai lettori. E invece
quanto ho descritto è tutto, purtroppo, realmente accaduto e lo racconta
Roberto Beretta, giornalista di Avvenire e saggista.
Nella
semplicità del suo titolo, diretto, chiarissimo, Beretta affronta uno dei
capitoli più oscuri della storia nazionale nel periodo della Resistenza: la
strage dei sacerdoti, operata da partigiani comunisti. Si tratta della prima
opera che tratta in modo organico e approfondito una realtà, in verità
arcinota, ma della quale «non» si doveva parlare, perché poteva minare
l’immagine fin da subito oleografica della lotta di Liberazione, e soprattutto
l’immagine del partito comunista quale vera avanguardia della lotta medesima.
Beretta
tocca uno degli argomenti tabù, uno dei capitoli più tragici della
tragica situazione in cui visse il Paese, dilaniato di fatto da due guerre,
quella contro i tedeschi e quella civile scatenata dai comunisti. Questi ultimi
non combattevano solo contro tedeschi e fascisti, ma anche contro i compatrioti
antifascisti, se questi si opponevano alle loro pretese egemoniche e rivoluzionarie
o se, comunque, sempre a insindacabile giudizio comunista, potevano essere
considerati elementi sospetti. Porzus docet — potremmo dire — o, almeno,
dovrebbe farci imparare che il Partito Comunista ebbe la «sua» politica da
seguire e che i Gruppi di Azione Partigiana (Gap) e le Brigate «Garibaldi»
agirono il più delle volte con assoluto disprezzo della pur ufficialmente
accettata autorità del Cln.
I
preti. Perché ucciderli? La guerra ha una sua spietata logica, nella quale
rientra l’uccisione del nemico. Dal momento in cui si attua quella «sospensione
della moralità» che è la situazione di conflitto, l’uccisione del nemico
comporta però anche la difesa dell’amico, dell’alleato, e la fine delle
ostilità comporta anche la fine di quella «licenza di uccidere». La società
rientra nella normalità.
Perché
dunque uccidere i preti? E perché le uccisioni andarono ben oltre la fine della
guerra?
Roberto
Beretta si pone, e ci pone, appunto, queste domande.
Nel
primo capitolo, Gli epurati, leggiamo: «Erano colpevoli? E, se lo
erano, meritavano di morire come sono stati uccisi, per giustizia sommaria,
senza processo, talvolta “prelevati” e mai più ritrovati, tal altra seppelliti
senza alcun funerale, fatti fuori anche vari mesi dopo la guerra sulla base di
sospetti mai verificati, o anche di vendette personali fatte passare per motivi
politici, diffamati in vita e ancor più in morte, perché più l’accusa era
importante, più si sarebbe digerito il delitto? Non so, ciascuno giudichi. In
me (che la guerra non ho vissuto) ha finito per prevalere la pietà per queste
figure, tanto spesso innocenti o al massimo colpevoli quanto può esserlo
qualunque uomo messo alle strette dalle circostanze della vita. Ma proprio per
questo il viaggio vuol partire dagli “epurati”: ovvero dai sacerdoti uccisi per
una colpa tutto sommato facile da comprendere, una collusione più o meno spinta
col passato regime, che può lasciar capire (mai giustificare!) la loro
eliminazione nella concitazione e tra le passioni di un contesto di guerra.
Cominciamo dunque dai più “cattivi”, dai più “neri”» (p. 14).
Infatti
il libro è redatto come una sorta di «catalogo» delle vittime.
Nel
primo ci parla dei preti più compromessi con il fascismo, partendo proprio da
quel don Tullio Calcagno (1899-1945), prima sospeso a divinis, poi
addirittura scomunicato per la sua intensa attività politica di indiscutibile
fede fascista, andata ben oltre il consentito dalle norme ecclesiastiche. La
foto dei cadaveri di don Calcagno e dell’ex prefetto — medaglia d’oro, nonché
cieco di guerra — Carlo Borsani (1917-1945), appena fucilati in piazzale Susa a
Milano il 29 aprile 1945, dopo la condanna decretata da un tribunale del
popolo, appare in prima di copertina, con opportuna crudezza, perché vale più
di mille parole per introdurre al viaggio che Beretta propone di fare insieme a
lui.
Per
dieci capitoli, leggiamo episodi di cruda monotonia. Un nome, una data, una
località, e poi la descrizione dell’evento, più o meno dettagliata, a seconda
dei documenti esistenti, della memoria più o meno rimossa, della volontà, o
meno, di parenti e amici, di ricordare l’ucciso. Leggiamo le vicende dei
cappellani — due soli cappellani di milizia fascista, gli altri semplici
assistenti spirituali dell’esercito —, dei «sospettati», dei «padroni»
— preti ai quali si poteva imputare la colpa di essere possidenti —, dei «traditi»
— preti che aiutavano i partigiani, alcuni addirittura cappellani di formazioni
partigiane —; abbiamo i «dimenticati e gli insepolti», i «beatificati»,
fino ad arrivare ai preti «infoibati», uccisi nella terribile mattanza
che vide partigiani comunisti e truppe titine «lavorare» insieme, riempiendo le
cavità carsiche di migliaia di vittime, la cui colpa principale era
l’italianità e l’anticomunismo.
Abbiamo
parlato di episodi di «cruda monotonia» non certo perché il libro di Beretta
sia monotono. Piuttosto colpisce la ripetitività di determinati atti: il prete
che viene chiamato fuori casa con l’inganno — in genere, chiedendo l’assistenza
per un morente —; le intimidazioni e le minacce, nel più classico stile
malavitoso, contro chi può aver visto o sentito troppo; il divieto addirittura
di celebrare un funerale in forma pubblica; la diffamazione postuma della
vittima — con netta preferenza per le «questioni di donne» —, per rendere —
come dice Beretta stesso — più «digeribile» il delitto.
Il
tono volutamente dimesso con cui Beretta apre il suo lavoro potrebbe trarre in
inganno il lettore più disattento. «Erano colpevoli? Non so, ciascuno
giudichi», dice, come se volesse disfarsi del problema.
Ma
poi pone davanti al lettore i fatti, l’unica cosa che conti laddove si voglia
fare della storia e non dell’agiografia, di una parte o dell’altra. E i fatti
parlano: parlano di una crudeltà cieca, non giustificata da alcuna esigenza
militare, che trova nell’odio ideologico e nel fanatismo i suoi alimenti.
Un
altro fatto è di estremo interesse: leggendo nelle «schede» che chiudono il
libro la «Lista cronologica delle vittime» vediamo che le uccisioni
continuano ben oltre il 25 aprile 1945. Fino al dicembre di quell’anno la lista
è ancora lunga, così come è corposa anche la lista del 1946. Quattro uccisioni
sono registrate nel 1947. L’ultimo prete ucciso per «motivi politici» è don Ugo
Bardotti, pievano di Cevoli, nella diocesi di San Miniato in provincia di Pisa.
Verso le ore 22 di domenica 4 febbraio 1951 tre persone bussano alla canonica e
l’anziana zia del prete, che gli fa da perpetua, apre perché sente un cognome
conosciuto in zona. Poi tre colpi di pistola: don Bardotti cade, ultima vittima
di una malattia tremenda, l’odio, senza il quale, del resto, non possono
sussistere le ideologie che hanno devastato il secolo appena trascorso.
Beretta,
come si è visto, lascia parlare i fatti. Tuttavia il suo libro sarà di sicuro
tacciato di «revisionismo», parola che per certa sinistra suona come infamante
— ora che non è più di moda dare tout court del «fascista»
all’avversario —, ma che per le persone di buon senso rappresenta
l’atteggiamento che deve avere sempre lo storico, sempre pronto a riscrivere
ogni riga, laddove nuovi documenti, nuove testimonianze, possano arricchire la
conoscenza dei fatti. In questi ultimi anni si sono fatti passi avanti su
questa strada, e il libro di Beretta rappresenta una tappa fondamentale per
rileggere correttamente la nostra Storia patria. Egli stesso, nella conclusione
del libro, parlando della Resistenza, mette in guardia contro i pericoli del
mito e della falsificazione, che sono destinati comunque a crollare nel tempo,
trascinando nella loro rovina anche quanto di buono e positivo vi fu in quel
pur tragico periodo.
Roberto
Beretta, sempre con la forza dei fatti e riportando anche le ricerche di altri
studiosi — Norberto Bobbio (1909-2004), per citare il più illustre; e poi
Claudio Pavone, Elena Aga Rossi, e altri ancora — dimostra la falsità anche di
un altro assunto, fin qui ufficialmente cristallizzato come la «Verità»: le
uccisioni di preti, non potendo essere negate, vengono contrabbandate come
opera di pochi masnadieri, sconfessati dal Partito Comunista, che lealmente
collaborava con gli altri partiti democratici per la costruzione della nuova
Italia. Resta però da spiegare perché le formazioni comuniste furono le ultime
a riconsegnare le armi dopo la fine delle ostilità; resta da spiegare perché la Jugoslavia e la Cecoslovacchia, all’epoca paesi di stretta osservanza moscovita, furono
generoso rifugio di quei «pochi masnadieri». Restano da spiegare tante cose,
fra le quali il clima di terrore che si visse almeno fino al 1948 nel famoso «Triangolo
rosso» o «Triangolo della morte», fra Emilia e Romagna, in città e regioni dove
i comunisti avevano acquisito il controllo di prefetture e delle forze di
polizia. E il discorso si allarga fatalmente, oltre ai poveri preti uccisi —
che finalmente vengono restituiti alla memoria e, quindi, alla pietà —, per
spostarsi su migliaia di altre vittime, anch’esse spesso cadute dopo la fine
ufficiale del conflitto civile: quegli «sconosciuti 1945» (e oltre), di cui è
tornato a occuparsi recentemente e con grande successo di pubblico Giampaolo
Pansa. I «pochi masnadieri» in realtà non furono pochi, di certo per la massa
di «lavoro» che riuscirono a sbrigare e per essere «pochi» furono anche molto
ben organizzati.
Roberto Beretta, Storia dei preti uccisi dai partigiani, Piemme,
Casale Monferrato (Alessandria) 2005, pp. 320.