a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale
inserito il 30 ottobre 2009
Francesco Pappalardo
Nuove interpretazioni della storia del Mezzogiorno
Giuseppe Galasso è stato per circa quarant’anni, cioè dal 1966 al 2005, ordinario di Storia Medievale e Moderna nell’Università Federico II di Napoli — della cui Facoltà di Lettere e Filosofia è stato preside dal 1971 al 1979 —, è presidente della Società Nazionale di Storia Patria dal 1980 e socio nazionale dell’Accademia dei Lincei dal 1986. Parallelamente alla carriera accademica ha intrapreso quella politica: esponente del Partito Repubblicano Italiano, negli anni 1970 ha rivestito la carica di assessore all’Edilizia Scolastica della città partenopea, è stato presidente della Mostra Biennale del Cinema di Venezia dal 1979 al 1982, deputato dal 1983 al 1994 e sottosegretario di Stato dal 1983 al 1991, prima ai Beni Culturali, quindi alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e infine per gli Interventi Straordinari nel Mezzogiorno.
Come studioso si è occupato delle principali tematiche della storia d’Italia (1), con attenzione particolare alle vicende dei secoli XV e XVI (2) e ai problemi di Napoli (3) e del Mezzogiorno (4). Alle opere generali si sono affiancati numerosissimi interventi a seminari e convegni e su riviste e periodici, spesso raccolti in volume per ovviare all’inevitabile dispersione editoriale. I principali saggi di storia medioevale di Galasso figurano ora nell’opera Medioevo euro-mediterraneo e Mezzogiorno d’Italia da Giustiniano a Federico II, il cui filo conduttore è la convinzione che la storia del Mezzogiorno debba essere studiata non secondo le classiche periodizzazioni storiografiche, fondate sulla separazione delle epoche storiche, ma tenendo conto della sua unità intrinseca: «[...] il Mezzogiorno sembra, infatti, suggerire spontanea l’idea che la specializzazione da coltivare nel suo caso sia quella della storia meridionale stessa nel suo complesso» (p. VII), considerate la singolarità degli sviluppi economici e sociali di quella parte d’Italia, le sue caratteristiche culturali e religiosi e finanche la peculiarità della sua geografia.
Collocato al centro del Mar Mediterraneo, luogo d’incontro fra le tre civiltà presenti in quell’ambito nell’Alto Medioevo e stabilizzatesi in realtà territoriali più o meno lungamente definite — i temi e i ducati bizantini, i principati longobardi, l’emirato arabo in Sicilia —, il Mezzogiorno presenta un vivace particolarismo locale e vistosi elementi che lo differenziano dal resto dell’Europa Occidentale, come la diffusione della moneta aurea e della lingua greca, lo sviluppo di una forma originale di monachesimo — chiamato impropriamente basiliano, facendo confusione con la regola monastica del vescovo di cultura greca san Basilio († 379), adottata da monasteri di rito sia greco che latino —, la presenza di strutture burocratiche altrove scomparse e l’affermazione di un particolare regime delle terre e delle persone.
La fisionomia storica del Mezzogiorno nel periodo preso in considerazione dall’autore, cioè fra i secoli VI e XII, presenta dunque da un lato una sua particolare individualità nell’ambito mediterraneo e italiano dell’epoca e dall’altro lato una serie di dinamiche e di differenziazioni al suo interno tali da far parlare di un suo quadro «complessivo» (p. 4) piuttosto che unitario, dunque di un caleidoscopio ricco di storie, di voci, di realtà e di vicende differenti. Questa realtà plurale e differenziata, però, è protagonista, a metà del secolo XI, dell’imprevista unificazione ad opera dei normanni, che darà vita a un regno sette volte secolare, pur nella sua duplice articolazione siciliana e napoletana.
Secondo Galasso, inoltre, è quello il periodo in cui si pongono le basi del dualismo economico italiano, venendosi a determinare nei due o tre secoli dopo il Mille fra l’area italiana centro-settentrionale e quella meridionale una differenza di condizioni politiche, economico-sociali e perfino dal punto di vista degli svolgimenti della cultura e dell’arte. I rapporti tra le due parti d’Italia assumono, sotto il profilo economico, i tratti dello «scambio ineguale»: da un lato, un paese esportatore di manufatti e di capitali, con relativi servizi; dall’altro lato, un paese esportatore soprattutto di prodotti dell’agricoltura e della pastorizia, di alcune materie prime e di semilavorati. Questi rapporti diversificati si consolidano anche a causa delle relazioni finanziarie che si stabiliscono intorno al secolo XIII fra i sovrani del Regno e i capitalisti e i mercanti stranieri per assicurare le risorse finanziarie necessarie all’azione della monarchia. Toscani, genovesi, veneziani e lombardi invadono il mercato regnicolo e vi detengono per secoli un primato, e talora un monopolio, mercantile e finanziario. Ciò determina uno stato di subalternità del Mezzogiorno rispetto a un’Italia del Nord che era, peraltro, in quei secoli, la parte più avanzata e sviluppata dell’intera Europa. Il che non significa che la storia del Mezzogiorno mancasse di logiche e di sviluppi originali o, tanto meno, che la subalternità vada intesa come una condizione di passività storica: va rigettata, anzi, la «irrealistica e antistorica deprecazione della plurisecolare condizione subalterna del paese, attribuita a oppressioni e violenze straniere e indigene» (p. 18).
Galasso si sofferma dunque a lungo sul periodo normanno, che vede l’introduzione di due istituzioni fondamentali, l’organizzazione feudale e una monarchia unitaria, assicurando al Mezzogiorno una omogeneità politica e amministrativa di lunga durata. Se la centralità della questione feudale non va sottovalutata, per il suo rilevante spessore istituzionale e politico, economico e giuridico, non deve però diventare una «ossessione» (p. 46), come nella polemica sollevata dagli illuministi italiani e viziata dalle loro velleità riformatrici. Il modello storico del feudalesimo meridionale offre una variante originale e significativa degli analoghi modelli individuati nella Penisola e fuori di essa, sia per l’età medioevale che per l’età moderna. Sotto il profilo politico esso non giunge come frutto di un graduale sviluppo dell’organizzazione «statale» ma già maturo secondo le consuetudini franche della Normandia, che consentono ai nuovi arrivati di trovare un adeguato modo istituzionale per regolare i rapporti fra i partecipanti alla conquista e nello stesso tempo per trovare rispetto agli abitanti del regno un fondamento condiviso del potere, «[...] quale appunto potevano essere le solidarietà volontarie e private del regime feudale» (p. 239). Del resto, sotto il profilo della struttura dei rapporti sociali, gli ordinamenti del Mezzogiorno prenormanno possedevano una spiccata attitudine a una loro trasformazione nel senso feudale, grazie alla presenza di aristocrazie, patriziati, enti religiosi, ceti militari e mercantili il cui dominio non era arbitrario e si svolgeva mediante l’azione di istituzioni patronali di ogni genere. I normanni, dal canto loro, non assumono una veste «colonialista» ma si affermano spesso con trattati, compromessi e negoziazioni, che danno alla loro azione un carattere politico, più che etnico e militare.
Va rivista, inoltre, «[...] la convinzione che dove vi fosse dominio e predominio di una struttura feudale, non potesse aver luogo una fioritura di città e di vita cittadina» (p. 48). L’osservazione storica e gli studi sociologici hanno mostrato l’infondatezza di questa prospettiva: come in tutta la realtà europea, il Medioevo conosce mondi feudali costellati di realtà cittadine e non è accettabile la tesi di un’incompatibilità fra la struttura feudale e il mondo cittadino: «che sarebbe la storia di varii paesi europei se una tale incompatibilità sussistesse?» (p. 53). Analogamente la storia del Comune nel Mezzogiorno ha subito inizialmente e per un lungo periodo una sorta di pregiudizio sfavorevole che, dal confronto fra la storia del Comune nel Settentrione d’Italia e quella del Comune nel Meridione, ha tratto ragioni di grave inferiorità del secondo nel confronto del primo o lo ha considerato una sottospecie del generale fenomeno comunale italiano ed europeo. Invece, anche questa istituzione — legata all’amministrazione e alle libertà locali — si configura nel Mezzogiorno con caratteristiche e peculiarità proprie, legate alla prolungata presenza bizantina, a fronte peraltro di una debole presenza del Sacro Romano Impero, a singolari manifestazioni di autonomismo come quelle dei ducati campani e dei principati longobardi, a una vita sociale e culturale differente da quella del resto d’Italia, a un’unità monarchica affermatasi proprio mentre il Regno Italico diventava più evanescente.
Infine, sulla figura dell’imperatore Federico II di Svevia (1194-1250), re di Sicilia dal 1208 al 1250, Galasso respinge l’immagine di «rullo compressore proteso [...] a livellare la multiforme realtà del Mezzogiorno» (p. 427), nonché di antesignano di un’unificazione politica realizzata più di sei secoli dopo, ma non ne nega la spregiudicatezza operativa e l’azione autoritaria e accentratrice in direzione del rafforzamento del potere regio, anche a danno di quello ecclesiastico.
Apparentemente eccentrico rispetto agli altri saggi del libro — ma non rispetto agli studi di Galasso — è il saggio su La società campana nelle carte di Montevergine (pp. 283-306), relativo alla grande abbazia benedettina irpina, dove non mancano considerazioni di grande interesse sulla storia del Mezzogiorno tout court, su «la larghissima coincidenza o, addirittura, sovrapposizione della storia ecclesiastica e religiosa con la storia civile» (p. 284), sull’importanza delle fondazioni monastiche e dei loro archivi per la conoscenza della vita quotidiana dei rustici, dei piccoli proprietari, dei signori e dei castellani.
Sull’interpretazione della storia del Mezzogiorno, conclusivamente, Galasso si allontana dal filosofo Benedetto Croce (1866-1952), che con la sua Storia del Regno di Napoli ha influenzato per decenni il giudizio degli studiosi. Lo storico napoletano non condivide né la ripulsa del periodo normanno e svevo come parte costitutiva della storia nazionale del Mezzogiorno, ridotta dunque alla sola storia del Regno di Napoli, a partire dall’età angioina; né l’interpretazione di quella lunga vicenda storica come passiva accettazione di colonizzazioni straniere; e neppure la riduzione della storia napoletana a quella del ceto intellettuale settecentesco — ritenuto dal filosofo abruzzese l’unica forza attiva in senso nazionale e l’artefice di tutto quanto di grande e di nobile è stato compiuto nel regno —, che in realtà fino all’ultimo non riesce a farsi espressione della nazione e che, anzi, marcia contro di essa, come avviene in occasione della rivoluzione del 1799 e poi durante il periodo risorgimentale. Un’interpretazione, quella di Galasso, che si sforza di dare alla vicenda storica napoletana «[...] tutto lo spessore della sua effettiva complessità, poco suscettibile di semplificazioni [...] attenta egualmente al prologo (come lo definisce Croce) normanno-svevo e alle sopravvivenze della nazione napoletana, posteriori all’unificazione italiana [...] attenta infine alle permanenze, non meno che alle rotture e alle discontinuità, di questa storia nel tempo» (p. 29).
Note
(1) Cfr. Giuseppe Galasso, Potere e istituzioni nella storia d’Italia, Einaudi, Torino 1974; Idem, L’Italia come problema storiografico, Introduzione alla Storia d’Italia da lui diretta, UTET, Torino 1979; Idem, L’Italia una e diversa nel sistema degli Stati europei (1450-1750), in G. Galasso-Luigi Mascilli Migliorini, L’Italia moderna e l’unità nazionale, vol. XIX della Storia d’Italia, UTET, Torino 1998, pp. 3-492; e Idem, L’Italia s’è desta. Tradizione storica e identità nazionale dal Risorgimento alla Repubblica, Le Monnier, Firenze 2002. (2) Cfr. in particolare Idem, Dalla «libertà d’Italia» alle «preponderanze straniere», Editoriale Scientifica, Napoli 1997. (3) Cfr. Idem, Intervista sulla storia di Napoli, a cura di Percy Allum, Laterza, Bari 1978, e Idem, Napoli capitale. Identità politica e identità cittadina. Studi e ricerche 1266-1860, Electa, Napoli 1998, raccolta di studi sulla città partenopea dal Medioevo all’Unità. (4) Cfr. Idem, Alla periferia dell’Impero. Il Regno di Napoli nel periodo spagnolo (secoli XVI-XVII), Einaudi, Torino 1994; Idem, Storia del Regno di Napoli, 5 voll., Utet, Torino 2006-2007 (è l’edizione rivista e corretta del vol. XV, in cinque tomi, della Storia d’Italia, pubblicata come opera a sé); e Idem, L’altra Europa. Per un’antropologia storica del Mezzogiorno d’Italia, nuova edizione accresciuta, Guida, Napoli 2009, nelle quali ribadisce con forza la singolarità dell’esperienza storica del Mezzogiorno.
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