a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale
inserito il 26 luglio 2014
Federico Sesia
Crimini italiani in Iugoslavia. Alcune precisazioni necessarie
1. Una contestualizzazione mancante
Ultimamente una certa storiografia — Angelo Del Boca, Gianni Oliva, Giacomo Scotti, Alessandra Kersevan e Carlo Spartaco Capogreco, a voler citare solo alcuni fra i suoi esponenti — tende a occuparsi della problematica legata ai crimini di guerra commessi dagli italiani nel corso della prima metà del Secolo Breve, il Novecento, soffermandosi in particolare su ciò che concerne quelli avvenuti in Etiopia — utilizzo di gas tossici proibiti dalle convenzioni internazionali — e soprattutto in Iugoslavia — italianizzazione forzata delle province annesse di Lubiana e di Dalmazia; crimini contro la popolazione civile nei territori occupati militarmente dopo 1941 — durante la Seconda Guerra Mondiale.
Riferendomi a ciò che concerne i crimini commessi nei territori iugoslavi va detto che, per quanto rappresentino un’innegabile e triste realtà spesso poco conosciuta e che va a intaccare quel mito che dipinge gli italiani come un popolo imbelle e incapace di brutalità, essi non di rado subiscono una decontestualizzazione e talvolta anche una strumentalizzazione volta ad utilizzarli come contraltare degli eccidi delle foibe e dell’esodo degli italiani dall’Istria e dalla Dalmazia, fatti questi ultimi che vorrebbero essere sminuiti di fronte a ciò che avvenne precedentemente sotto la responsabilità dell’Italia. Di fronte a ciò credo quindi che vada fatta luce sui motivi che portarono all’emanazione di provvedimenti draconiani come la famigerata Circolare 3C del generale Mario Roatta (1887-1968), piuttosto che le misure repressive, talvolta brutali ed eccessive, prese dai soldati italiani di stanza in Iugoslavia.
2. Etnografia del Regno di Iugoslavia (1940)
All’indomani dell’armistizio del 17 aprile 1941, il Regno di Iugoslavia si trovò spartito fra le potenze che lo vinsero: ungheresi e bulgari videro un favorevole slittamento di confini con l’incorporazione di quei territori oggetto delle loro rivendicazioni — Prekmurje e parte della Vojvodina per l’Ungheria; la Macedonia per la Bulgaria —; italiani e tedeschi, oltre ad annettere porzioni dell’ormai ex regno — nel caso dell’Italia vanno ricordate la Provincia di Lubiana e il Governatorato di Dalmazia —, fissarono una linea empirica che tagliava in due il Paese dalla Provincia di Lubiana a nord, fino a quelle terre iugoslave unite al Regno d’Albania a sud, dividendo così le rispettive zone di occupazione militare. Nelle attuali Croazia e Bosnia-Erzegovina venne inoltre creato lo Stato Indipendente di Croazia, capitanato dal movimento filo-fascista degli ustasha (“insorti”) di Ante Pavelić (1889-1959). Gli ustasha si macchiarono di atrocità prevalentemente a danni di zingari, serbi ed ebrei, assassinando all’incirca mezzo milione di persone, mentre in Serbia lo Stato fantoccio fatto sorgere dai tedeschi fu affidato al generale Milan Nedić (1878-1946).
Per poter tracciare un quadro del teatro iugoslavo all’indomani dell’invasione e dell’occupazione delle forze dell’Asse vanno considerate anche le forti tensioni già precedentemente latenti nel Paese che, con lo smembramento del 1941, esplosero in tutta la loro brutalità: il fronte iugoslavo infatti divenne ben preso teatro di una feroce guerra civile a sfondo etnico e politico — i cui connotati in parte si ripresenteranno nelle Guerre Iugoslave del 1991-1995 — tra gli ustasha croati, i cetnici (partigiani monarchici) serbi di Dragoljub “Draža” Mihailović (1893-1946), i partigiani comunisti del croato Josip Broz (1892-1980) e gli eserciti di Roma e di Berlino, ricalcando ed esacerbando gli asti già da tempo latenti tra i vari gruppi etnici del Paese — serbi ortodossi, croati cattolici, bosniaci musulmani, e così via —, che si intrecciarono inoltre con violenti attriti di tipo politico.
La situazione fu fin da subito incandescente, e le truppe italiane si trovarono volenti o nolenti alle prese con essa, però con un ben diverso equipaggiamento, grado di preparazione e capacità di reazione rispetto ai loro alleati tedeschi. Saranno questi fattori, uniti all’efferatezza di alcune bande partigiane, a determinare il comportamento delle armate italiane di stanza in Iugoslavia, le repressioni e la linea dura adottate dai vertici militari. Infatti, per quanto spesso eccessive e quindi non giustificabili, le repressioni si spiegano con l’intento di proteggere le popolazioni loro sottoposte — o che volontariamente si erano affidate agli italiani per scampare a una sorte peggiore — e la vita dei loro stessi soldati dalle atrocità di una guerra civile, i cui picchi di brutalità nessun militare italiano si era mai trovato a dover fronteggiare nelle precedenti campagne, ferma restando la condanna degli eccessi e della politica annessionistica di alcune aree, quali la Provincia di Lubiana, che di italiano avevano ben poco.
3. Territori sotto il controllo partigiano nel settembre del 1941
Rispetto a quella effettuata dai tedeschi, l’occupazione condotta dal Regio Esercito fu decisamente più "morbida", non vi furono infatti episodi di sistematica pulizia etnica, l’italianizzazione condotta nelle zone annesse, per quanto odiosa e abietta, aveva presupposti linguistico-culturali e non razziali, mentre i tristi episodi di distruzioni di villaggi, giustizie sommarie e internamento di civili avvennero prevalentemente a causa della durezza della guerra e come reazione alla spietatezza dei partigiani iugoslavi, i quali, oltre a essere privi fino al 1942 di un qualsivoglia riconoscimento come combattenti regolari, non erano alieni alla tortura o all’immediata uccisione di quei soldati italiani che cadevano vivi nelle loro mani.
A tal riguardo si possono citare diversi episodi: nel 1941 in Montenegro una colonna della 18a Divisione di fanteria "Messina" venne coinvolta in uno scontro a fuoco con i partigiani, dal quale uscì sconfitta. In seguito alla riconquista dei territori catturati dal nemico si scoprì che settanta soldati italiani erano stati fatti a pezzi e infilati in canali di scolo delle acque. Nel 1942, sempre in Montenegro, un battaglione di alpini del 4º Gruppo "Valle" della 6ª Divisione "Alpi Graie" vide diversi feriti e prigionieri finire prigionieri dei titini, i quali li avevano torturati strappando loro denti, cuore e occhi. Nel corso dell’inverno del 1943, anno che vide fra gennaio e febbraio un’offensiva invernale, la 13ª Divisione di fanteria "Re" scoprì che i suoi feriti venivano uccisi a pugnalate dai partigiani, mentre i caduti vennero rinvenuti privati del loro vestiario e sfigurati al punto da rendere impossibile il loro riconoscimento.
Riguardo agli eventi del 1943 vi è una testimonianza del generale Paride Negri (1883-1954), comandante della 154a Divisione di fanteria "Murge", il quale dichiarò:
"Quando io, dopo qualche giorno, mi trovai sul posto, trovai vari nostri morti nudi con l’elmetto in testa e il sottogola abbassato, così combinati per macabro sfregio; tre altri cadaveri di soldati, nudi anch’essi, avevano un’orrenda spaccatura nell’ano, riempita di terriccio e sassi. Il tenente colonnello Metelka ebbe (secondo testimoni oculari) mozzate le mani e, così straziato, dovette fare una passeggiata dimostrativa in Dreznica avanti ai partigiani sghignazzanti: macabra scena troncata dalla morte dell’ufficiale sopravvenuta per dissanguamento totale"
(1).
Un altro episodio del genere, questa volta risalente al 1941, è riportato dal generale Petronilli:
"Il giorno 18 ottobre 1941, sulla strada Podgorica-Berane, nelle vicinanze di Bioce, venne attaccata una colonna di 35 autocarri, e distrutta; i conduttori, pressoché inermi vennero massacrati e coloro che scamparono alla morte vennero fatti prigionieri e adibiti ai trasporti giornalieri dei rifornimenti al seguito dei reparti ribelli. Scarso il vitto, affranti dalla stanchezza e dai patimenti essi vennero in parte uccisi con revolverate nella nuca, quando non erano più in condizioni di lavorare. Ciò venne testimoniato da alcuni dei prigionieri automobilisti che riuscirono ad evadere e raggiungere le nostre linee"
(2).
4. Gli eccidi
Nell’Archivio Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito (AUSSME) vi sono altre testimonianze di barbarie commesse dai partigiani iugoslavi a danno dei soldati italiani, come per esempio quella del sergente maggiore Olinto Luisi, il quale così descrisse degli avvenimenti del fronte iugoslavo datati 1942:
"Il 2 agosto 1942 in un attacco da parte di elementi partigiani ad una nostra autocolonna che trasportava internati civili a Fiume, venne ucciso il tenente cappellano Don Pettenghi Giovanni di Pavia, il quale, in adempimento del suo ministero, si recava ad un presidio militare del 311° Reggimento di Fanteria. Il cappellano presentava parecchi colpi di pugnale nel petto e un colpo di arma da fuoco alla tempia, nonostante avesse ben visibile il segno della croce rossa sul petto della giacca. Il 26 agosto nei pressi di Cerquinizza (Sussak) vennero uccisi alcuni militari appartenenti al 5° Raggruppamento Guardia della Frontiera. Tutti i militari vennero rinvenuti nudi ed in parte bruciati. Per rappresaglia vennero fucilati sul luogo alcuni partigiani, contemporaneamente rastrellati da una compagnia di arditi che si trovava a passare sul luogo a distanza di una decina di minuti" (3).
Sempre nella documentazione dell’AUSSME si possono rinvenire dei testi riguardanti le vicissitudini di due dei più importanti generali impiegati nella gestione dei territori iugoslavi, Mario Roatta, comandante della II Armata Italiana di stanza in Iugoslavia, e Alessandro Pirzio Biroli (1877-1962), governatore italiano del Montenegro.
La prima, riferendosi a ciò che concerne Roatta, riporta che;
"In maggio 1942 nella zona di Lastva (Trebinje), formazioni alle dipendenze di certo Sava Kovacevic martoriarono e seviziarono i militari italiani della colonna del tenente colonnello Raffaelli. Principale autrice di tali scempi risultò essere stata certa Vukusova Sakotic, già maestra elementare a Lastva. Essa, dopo essere stata catturata, fu accusata da tale Petrovic, di Viluse, che produsse una documentazione fotografica di evirazioni e dei crimini compiuti dalla Sakotic su elementi italiani e cetnici. La Sakotic confessò: nella zona di Mosko, nell’estate del 1942, furono recuperate salme di militari del 4° Bersaglieri della scorta del generale Amico, i cui resti (crani fracassati, membra mutilate, ecc.) dimostravano che essi erano stati vittime di sevizie. Dette salme riposano ora nel cimitero di Bileca e portano la scritta "Soldati ignoti" avendo i partigiani asportato con il vestiario anche ogni oggetto che potesse farli identificare. Sempre in Erzegovina e in detta estate 1942, 16 soldati italiani furono evirati da una giovane donna, studentessa di medicina, sorella di un capo locale; nel villaggio di Zcork (zona Liubromir-Stlad) a 3 chilometri circa dal paese; il 13 settembre 1942, furono recuperate 23 salme di camicie nere impalate. Attese al recupero delle salme il tenente Scortacagna Luigi, il cappellano della 90° Legione e un gruppo di cetnici di Bileca. Il 19 ottobre dello scorso anno, lo stesso ufficiale rinviene a Prozor le salme di un ufficiale e due soldati italiani pure impalati. Alla riesumazione erano presenti anche il tenente medico dottor Carugo del 259° Fanteria e un altro ufficiale a ciò delegato dal generale Chersi. Si noti bene che i fatti citati non sono avvenuti all’inizio, ma nell’estate e autunno 1942, ossia quando le formazioni ribelli avevano già assunto un’organizzazione quasi regolare.
[…] Nel febbraio 1943, sulla piazza di Jablanica (Erzegovina) una delle formazioni partigiane ha fucilato 21 ufficiali della divisione "Murge" catturati poco prima in combattimento. Il colonnello Molteni è stato ucciso, in detta piazza, con un colpo di pistola dal capo della formazione. E poiché non si trovava un ufficiale della sussistenza, che risultava dalla lista del presidio caduta in mano ai partigiani, questi annunciarono che avrebbero fucilato al suo posto 20 soldati. L’ufficiale che si era nascosto, avendolo saputo, si presentò senz’altro, ma malgrado questo suo esemplare contegno, venne anch’esso fucilato. Le salme del colonnello Molteni e di altri ufficiali furono recuperate dopo la rioccupazione di Jablanica dal cappellano della 259° Fanteria, padre Giuseppe de Canelli, che le rinvenne; quella del colonnello Molteni squartata, sepolta in una fossa comune con alcuni soldati e i quadrupedi morti del presidio" (4).
La seconda documentazione, riguardante il generale Pirzio Biroli, riporta:
"è notorio che le formazioni ribelli non provvedano non solo al provvedimento dei nostri prigionieri, ma ad essi toglievano vestiario e calzature obbligandoli a marciare e vivere sulle pietraie montenegrine spesso costretti a portare carichi; insomma esponevano gli italiani catturati in combattimento alle più tremende e indicibili sofferenze, aggravate dall’inclemenza del clima, così che frequenti furono i casi di morte di essi per inedia e abbandono. Venne perfino acconsentito alla richiesta nemica per l’invio di coperte e periodico di viveri pei prigionieri italiani, date le loro disgraziate condizioni di assistenza. Purtroppo avveniva spesso che sugli invii i partigiani facessero man bassa, lasciando i nostri soldati in condizioni sempre miserevoli, senza alcun senso di pietà e di compassione per tanto martirio. Quasi che questi sistemi barbari non bastassero, bene spesso i prigionieri addirittura soppressi, fucilandoli o pugnalandoli e gettandone le salme nelle profonde fosse carsiche per cancellare ogni traccia dei loro misfatti. […] Ricordarsi il caso di ben 136 nostri prigionieri compresi 10 ufficiali ed alcuni sottoufficiali (in parte catturati dai partigiani in Croazia al VI Corpo d’Armata), che spogliati e costretti a marciare a piedi scalzi per parecchi giorni vennero prima proposti per uno scambio di altrettanti comunisti e poi, mancando alla parola data e accettata dal Governatore, trasferiti sulle montagne dei Piperi, a nord di Podgorica, e barbaramente trucidati e gettati nella foiba di Radovec presso Gostilje, profonda oltre 75 metri. Vennero allora fucilati a Podgorica per rappresaglia dinanzi al presidio italiano cinquanta ribelli catturati con le armi in mano. Non fu possibile recuperare alcun corpo degli infelici di Radovec nonostante ogni sforzo, al punto che per evitare l’esaltazione dei cadaveri intanati in fondo alla voragine, dovette essere murato lo sbocco di apertura, sulla quale fu posta una lapide ricordo con la data dell’eccidio" (5).
Anche una documentazione del maggiore Roberto Zorzi, riportata dall’AUSSME, contiene la descrizione di diverse atrocità:
"Marzo 1942 — pattuglia Guardia alla Frontiera comandata dal sottotenente Ambrosio di sorveglianza alla linea ferroviaria del tratto Rudopolje-Javornik assalita e sopraffatta; i feriti venivano denudati e sgozzati. Maggio 1942 — tenente Gora del mio stesso reggimento: viaggiava per servizio nel tratto di ferrovia Perusio-Vrhovine. Il treno, in seguito ad azione partigiana, deviava rovesciandosi ed il tenente Gora rimasto impigliato con le gambe nei rottami veniva barbaramente trucidato e sgozzato. Settembre 1942 — Combattimento di Perjasica: un centinaio circa di feriti alle gambe e alle braccia venivano dalle donne e dai ragazzi, denudati, seviziati, privati degli occhi, evirati e sgozzati. In un ferito alle gambe contai 31 pugnalate alla testa. Maggio 1943 — presidio di Brlog: sopraffatto dopo 3 giorni di lotta, i feriti venivano evirati e lasciati bruciare tra le case date alle fiamme dai partigiani. Un gruppo di alpini furono trovati sulla strada denudati, seviziati, privati degli occhi ed evirati. 23 giugno 1943 — Sella di Prokike: un gruppo di partigiani infiltratosi nelle nostre linee sgozzava e denudava 5 feriti già in barella. Quanto sopra è stato personalmente da me controllato, ma mille episodi del genere sono avvenuti nella campagna iugoslava" (6).
Le violenze contro i soldati italiani crebbero con il concludersi del 1941, e ciò fu dovuto in parte all’aggressione italo-tedesca della Russia, Paese molto ben considerato da numerosi iugoslavi. A ogni modo i partigiani, come è dimostrato dalle testimonianze riportate sopra, non erano affatto alieni da atti di atrocità (evirazioni, mutilazioni, ecc.) ai danni di quei militari che cadevano vivi nelle loro mani, e fu in seguito a ciò, come ho già accennato precedentemente, che vennero prese misure particolarmente dure e repressive, di cui parlerò approfonditamente in seguito.
A riprova del clima generalizzato di violenza che regnava nel fronte iugoslavo si può citare un efferato episodio avvenuto dopo l’8 settembre 1943: l’eccidio di Malga Bala — nei pressi di Tarvisio, ora in territorio sloveno —, consumatosi il 25 marzo del 1944 e le cui vittime furono dodici carabinieri italiani (7) dei corpi aderenti alla Repubblica Sociale Italiana — lo Stato filo-tedesco presieduto da Benito Mussolini (1883-1945). Questi sventurati vennero prelevati dai partigiani iugoslavi il 23 marzo dalla loro caserma e portati a marce forzate — durante le quali dovettero portare il materiale bellico sottratto dalla caserma — fino all’altopiano di Malga Bala, dove giunsero il 25. La sera prima era stato dato loro un minestrone contenente sale nero e soda caustica, sostanze che hanno un forte effetto purgante e vengono solitamente somministrati al bestiame. Il massacro avvenne nel casolare presente sul pianoro: il vicebrigadiere Perpignano fu appeso per i piedi con un uncino infilatogli nel calcagno e obbligato in quella posizione ad assistere alla fine dei suoi commilitoni, i quali subirono l’"incaprettamento" con il filo di ferro che ad alcuni era legato anche ai genitali in modo da aumentare le sofferenze provocate dai colpi di piccone, ad altri invece vennero amputati i testicoli e infilati in bocca, a certi venne distrutto il cuore a picconate — il carabiniere Amenici si trovò la foto dei figli infilata nel petto —, alcuni subirono la distruzione dei bulbi oculari, e una volta terminata la strage Perpignano venne finito a calci in testa. I cadaveri dei dodici militi massacrati in questo modo vennero rinvenuti tempo dopo da una pattuglia tedesca, e le salme furono sepolte in località Manolz nei pressi di Tarvisio. Fra le vittime figurano anche i carabinieri Domenico Dal Vecchio, 20 anni di età, Lindo Bertogli, 23 anni di età, mentre il vicebrigadiere Perpignano aveva 22 anni. Nel 2009 sarà conferita a ciascuno di questi carabinieri una Medaglia d’Oro al Merito Civile.
Oltre a questo terribile episodio non va neppure dimenticato il dramma di quelle migliaia di italiani uccisi dai partigiani di Tito tra il 1943 ed il 1945 — ricordati in genere come "i massacri delle foibe" — e quello di approssimativamente altri 300mila connazionali costretti a lasciare le loro case da quella che diventò dopo la guerra la costa adriatica della Repubblica Socialista di Iugoslavia.
5. La Circolare 3C al di là delle citazioni
Emanata nel marzo del 1942 dal generale Mario Roatta, comandante della II Armata Italiana di stanza in Iugoslavia, per far fronte alla lotta partigiana, la Circolare 3C, relativa al "trattamento da usare verso i ribelli e le popolazioni che li favoriscono", è stata spesso utilizzata come prova delle nefandezze commesse dalle truppe italiane di stanza in Iugoslavia. Da tale documento vengono talvolta estratte — e conseguentemente estrapolate dal loro contesto — delle affermazioni di particolare impatto, quali per esempio "Il trattamento da fare ai partigiani non deve essere sintetizzato dalla formula: "dente per dente" ma bensì da quella "testa per dente"", piuttosto che "Si sappia bene che eccessi di reazione, compiuti in buona fede, non verranno mai perseguiti", non riportando però quanto nella medesima circolare Roatta riteneva opportuno venisse precisato, ossia che
"Nel trattamento da usare verso le popolazioni, gli edifici, villaggi e beni, e verso i partigiani, è assolutamente necessario di attenersi alle norme permanenti o contingenti in vigore. — Inasprimenti alle medesime, praticati senza un’assoluta necessità (atti di ostilità armata — tentativi di fuga), sarebbero indegni delle nostre tradizioni di umanità e di giustizia, e costituirebbero altresì — nei riflessi delle popolazioni — un’arma a "doppio taglio"
e, precedentemente all’affermazione riportata poc’anzi, che
"Alla distruzione di interi villaggi si procede solo nel caso che l’intera popolazione o la massima parte di essa, abbia combattuto materialmente contro le nostre truppe, dall’interno dei villaggi stessi, e durante le operazioni in quel dato momento in atto"
e che
"Il saccheggio delle abitazioni, comprese quelle da distruggere, deve essere impedito con misure preventive e, se occorre, con repressioni draconiane".
Inoltre la severità e la durezza previste dalla circolare per i partigiani — o per i presunti tali — e per coloro che li sostenevano non erano da applicarsi universalmente: infatti nell’Allegato "B" del 22 aprile 1942 dal titolo Trattamento da usare verso i ribelli si trova scritto che
"— I ribelli, colti colle armi alla mano, e gli individui di cui al comma a) del n. 1 della Ia appendice alla circolare 3C, saranno immediatamente fucilati sul posto.Faranno eccezione:— i feriti— i maschi validi di età inferiore ai 18 anni— le donneche saranno deferiti (i primi una volta guariti), ai tribunali di guerra competenti.
[…]
Il contenuto di questo allegato non sarà incluso nella circolare n. 3 C, ma comunicato per iscritto ai comandi di divisione (od ente corrispondente), e da questi ai comandi in sottordine solo verbalmente".
Oltre a ciò, Roatta, una volta venuto a conoscenza di degli episodi di ritorsione a danni di villaggi, emanò nell’aprile del 1942 — ossia un mese dopo l’uscita della 3C — un’appendice al documento, nella quale si trova scritto:
"[…] allo stato attuale delle cose è sancita la distruzione di abitazioni solo nel primo caso di cui sopra, ed a quattro condizioni:
— località in situazione anormale;
— sabotaggio o sabotaggi avvenuti in prossimità delle abitazioni di cui trattasi;
— trascorso lasso di 48 ore;
— mancata emersione dei responsabili.
III. — Orbene, in questi ultimi tempi è accaduto che, in seguito a semplici scaramucce, o durante rastrellamenti compiuti senza colpo ferire, interi villaggi sono stati distrutti.
[…]
IV. — Non intendo esaminare caso per caso, non intendo "fare il processo" al passato, e non ho neppure l’intenzione di legare le mani ai comandanti dipendenti, nel senso di vietare senz’altro la distruzione di abitazioni; desidero unicamente attirare l’attenzione sul pericolo ("arma a doppio taglio") annesso a distruzioni indesiderate ed inutili.
— Le popolazioni delle località non protette materialmente dai nostri presidi (che costituiscono la maggioranza), e che sono disarmate, quando premute dai ribelli sono costrette — volenti o nolenti — ad ospitarli, a vettovagliarli, e pertanto — a prescindere anche da qualsiasi altro atteggiamento a favorirli.
— Quando le nostre truppe si avvicinano, operazioni durante, a dette località, i ribelli costringono la popolazione ad abbandonarle, senza peraltro distruggerle.
— Se noi, penetrati senza ostacoli locali nei villaggi, li diamo alle fiamme, compiamo non solo un eccesso, non compiuto dai ribelli, ma favoriamo la propaganda di questi ultimi.
Nel senso che la popolazione, anziché tornare alle proprie case — ormai inesistenti — rimarrà conglobata nelle formazioni ribelli, e si spargerà la convinzione che le truppe italiane, nonché la pacificazione e la giustizia, portino la devastazione. Senza contare che, malgrado qualsiasi misura in contrario, si verificano saccheggi individuali, non certo fatti per aumentare il nostro prestigio ed attirarci le popolazioni.
V. — Ciò posto determino — nell’allegato A — quali siano le circostanze in cui è consentita la distruzione dei singoli edifizi, e di interi villaggi.
— Il contenuto di detto allegato formerò oggetto della "1° appendice" alla circolare 3C che verrà stampata e distribuita per essere materialmente in essa inserita.
— I comandi in indirizzo ne diano però senz’altro conoscenza a quelli dipendenti".
Bisogna inoltre avere ben chiaro che le misure prese, per quanto drastiche, erano avulse da scopi quali la pulizia etnica dell’elemento slavo, ma volte solo alla repressione della guerriglia partigiana, come è d’altronde dimostrabile attraverso una lettura completa della Circolare 3C; essa infatti si presenta come un insieme di una serie di provvedimenti straordinari uniti a indicazioni, rivolte ai soldati italiani, di tipo tecnico e pratico.
È raro poi che, oltre alle colpe, vengano ricordati anche gli oggettivi meriti che Roatta ebbe in Iugoslavia, quali per esempio il suo importante ruolo nel salvataggio di numerosi ebrei iugoslavi dalla deportazione, quando si rifiutò, con sotterfugi e tergiversazioni, di consegnarli ai tedeschi, nonché la sua difesa delle comunità serbo-ortodosse dagli ustasha. Gli stessi archivi tedeschi affermano infatti che diversi massacri furono evitati grazie alla presenza delle truppe della II Armata Italiana, affermazioni confermate da un documento dell’AUSSME che riporta che
"È dimostrato da una larga documentazione che le rappresaglie più feroci e spietate, gli assassini più atroci, le barbare distruzioni di interi villaggi e di edifici di ogni specie, che ora vengono attribuiti agli italiani, furono invece commessi dai gruppi etnici e religioni in lotta fra di loro. Le nostre Autorità di occupazione ebbero anzi ad intervenire per porre un freno a tali eccessi e per tutelare, come si è accennato, la vita dei militari italiani e della popolazione per assicurarle una vita pacifica" (8).
6. Non giustificare, ma contestualizzare
Con tutto ciò non si possono certo negare o giustificare le oggettive responsabilità degl’italiani nei confronti dei crimini commessi nella loro zona di occupazione della Iugoslavia e nelle aree annesse. La brutalità partigiana non rende infatti giustificabili né gli eccidi — come quello, tristemente noto, avvenuto a Podhum — nei pressi di Fiume, ora in Croazia — nel 1942, dove una novantina di civili vennero fucilati come rappresaglia per l’assassinio di due maestri italiani del paese —, né le deportazioni di migliaia di persone in campi come quelli dell’isola di Rab in Croazia o di Gonars (Udine), né tantomeno la politica di italianizzazione forzata messa in atto nella Provincia di Lubiana e nel Governatorato di Dalmazia. Bisogna tuttavia semplicemente restituire tali fatti al loro ben preciso contesto storico. Insomma né negare, né giustificare, ma contestualizzare la durezza dell’occupazione e le misure repressive messe in atto dalle forze armate italiane in uno scenario di guerra civile dai connotati ideologici, etnici e nazionalistici che portò il fronte iugoslavo a essere probabilmente uno dei più intrisi di violenza di tutta la Seconda Guerra Mondiale. Le truppe italiane, meno armate e addestrate a gestire una simile situazione rispetto ai tedeschi, non poterono fare a meno di adeguarsi al modus operandi di quel conflitto per non venirne inevitabilmente travolte.
Federico Sesia
Bibliografia e sitografia
— Federica Saini Fasanotti, La gioia negata. Crimini contro gli italiani 1940-1946, Ares, Milano 2006.
(1) Cit. in Federica Saini Fasanotti, La gioia violata. Crimini contro gli italiani 1940-1946, prefazione di Sandro Fontana (1936-2013), Ares, Milano 2006, p. 58.
(2) Cit. ibidem.
(3) Cit. ibid., pp. 173-174.
(4) Cit. ibid., pp. 174-175.
(5) Cit. ibid., pp. 175-176.
(6) Cit. ibid., pp. 176-177.
(7) I loro nomi: vice-Brigadiere Perpignano Dino (1921); carabinieri: Dal Vecchio Domenico (1924); Ferro Antonio (1923); Amenici Primo (1905); Bertogli Lindo (1921); Colsi Rodolfo (1920); Ferretti Fernando (1920); Franzan Attilio (1913); Ruggero Pasquale (1924); Zilio Adelmino (1921); carabinieri ausiliari: Castellano Michele (1910); Tognazzo Pietro (1912); cfr. la pagina <http:// www.carabinieri.it/ Internet/ Arma/ Curiosita /Non+tutti+sanno+che/ M/ 4+M.htm>, consultata il 7-7-2014.
(8) Cit. in F. Saini Fasanotti, op. cit., p. 179.
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trad. e cura di Paolo Mazzeranghi
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prefazione di Massimo Gandolfini,
Sugarco Edizioni, Milano 2017,
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invito alla lettura di don Luigi Negri,
prefazione di Marco Invernizzi,
a cura dell'Istituto Storico dell'Insorgenza e per l'Identità Nazionale,
3a ristampa,
D'Ettoris,
Crotone 2010,
224 pp., con ill., € 18,00.
ROBERTO MARCHESINI, Il paese più straziato. Disturbi psichici dei soldati italiani della Prima Guerra Mondiale,
prefazione di Oscar Sanguinetti,
presentazione di Ermanno Pavesi,
D'Ettoris,
Crotone 2011,
152 pp., € 15,90.