«La posterità non saprà mai nemmeno che tu sei esistito. Tu sarai completamente cancellato dal corso della storia. Noi ti trasformeremo in gas e ti spargeremo nella strato-sfera. Non rimarrà nulla, di te. Non il tuo nome su alcun registro, non il ricordo in alcun cervello umano. Sarai annullato nel passato, così come sarai annullato nel futuro. Tu non sarai mai esistito… è intollerabile, per noi, che anche un solo pensiero partecipe dell’errore possa esistere in qualche parte del mondo, pur se nascosto e innocuo».
Queste frasi atroci vengono rivolte dall’inquisitore O’Brien al ribelle Winston, che si era illuso di poter costruire la propria esistenza liberamente, al di fuori delle ferree regole imposte dal governo del Partito unico, incarnato dalla figura del Gran Fratello. Siamo nell’atmosfera cupa e ossessiva di
1984 di George Orwell (1903-1950), l’ultimo e forse il più grande romanzo dello scrittore inglese, che immagina una società totalitaria, dominata da un anonimo partito unico e in cui ogni libertà, ogni individualità è annullata, al punto da imporre lo stravolgimento della realtà stessa, del presente e del passato, purché funzionale agli scopi del partito, che incarna la coscienza suprema della società.
Secondo questa logica — non poi tanto «romanzesca» — l’eretico, l’uomo «fuori dal coro», va cancellato nel senso più assoluto del termine. Non si tratta di ucciderlo, o di sottoporlo a un pubblico processo, facendo magari di lui un martire: si tratta di annullarlo. Non deve esistere, non deve mai essere esistito. E chi non è mai esistito, non può nemmeno lasciare memoria di sé ai posteri.
Questa atmosfera e le terribili parole di O’Brien mi sono riaffiorate alla mente leggendo il volume
Il banchiere della Resistenza. Alfredo Pizzoni, il protagonista cancellato della guerra di liberazione, che Tommaso Piffer, un pubblicista e storico indipendente milanese, ha dedicato alla vita di un personaggio-chiave della lotta di liberazione. Secondo questi canoni, cioè come un «eretico» dei nostri tempi, pare infatti sia stato trattato colui che fino al 27 aprile 1945 fu presidente del CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) e che di fatto, fra il 1943 e il 1945, grazie alle sue relazioni, alle sue capacità e a un’instancabile ed eroica attività, rese possibile, la presenza nell’Italia del nord di un movimento di resistenza contro i tedeschi e i «repubblichini», ma che poi è letteralmente scomparso dai libri di storia, dai libri delle onorificenze italiane, dalle celebrazioni, dalle commemorazioni, dai memoriali e, in generale, dal fiume di pubblicistica prodotta sulla lotta partigiana nel dopoguerra.
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Pizzoni nasce il 20 gennaio del 1894 a Cremona, figlio di Paolo, ufficiale di artiglieria — che poi avrebbe raggiunto i gradi di generale — e di Emma Fanelli, donna di carattere, colta, proveniente da una famiglia dell’alta borghesia napoletana.
Il lavoro di Piffer intende sostanzialmente narrare la vita, ancora sconosciuta ai più, di questo
leader del movimento di liberazione, Alfredo Pizzoni, traguar-dandola attraverso la trama degli eventi e dei problemi della sua epoca e spiegandoci, fra le altre cose, come un uomo tranquillo, di professione dirigente di banca, dalla tranquilla «posizione» borghese, possa decidere a un certo punto di mettere a rischio la propria vita, spinto solo dagli ideali che il padre gli ha inculcato. Raccontandoci, inoltre, come quest’uomo possa dare tutto sé stesso alla patria, operare bene e disinteressa-tamente e, alla fine, una volta conseguito il successo, possa essere «messo alla porta» da chi aveva vissuto lo stesso frangente non sempre in maniera altrettanto limpida. E poi, ancora, possa decidere da solo, sempre in base ai concetti di dovere disinteressato e di amor patrio, di rimanere, senza protestare, in quell’ombra in cui è stato immeritatamente cacciato.
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Chi era dunque questo «Carneade» della Resistenza? Il libro dedica un primo lungo capitolo (
L’educazione di un patriota) alla famiglia di origine di Pizzoni, alle sue esperienze giovanili, ai valori morali trasmessigli dal padre. Quest’ultimo seppe infondere in maniera unica nel figlio il senso del dovere, insieme all’amore per la patria e per la famiglia, intesi come valori sui quali modulare ogni scelta quotidiana, preoccupandosi innanzitutto del bene comune e delle persone di cui si ha la responsabilità. Queste annotazioni sono essenziali perché consentono di capire in quale clima morale e culturale si formò Pizzoni, e di leggere quindi meglio le sue scelte, che apparirebbero di sicuro come singolari e inusuali, soprattutto se rapportate a quanto ci mostra la politica ai giorni nostri.
Il giovane Pizzoni, che negli anni dell’infanzia e della fanciullezza aveva vissuto in diverse città (Cremona, Taranto, a Pesaro), seguendo gli spostamenti di servizio del padre, dopo un tentativo infruttuoso di entrare all’accademia militare, nel 1911 parte per l’Inghilterra, dove si tratterrà a studiare fino al 1914. Particolarmente versato nelle lingue — aveva già imparato il francese e il tedesco —, in Inghilterra apprenderà l’inglese e lo spagnolo. Egli è probabilmente più portato per le materie umanistiche e non prenderà a Londra la laurea in ingegneria, come era nei progetti paterni, ma un titolo di
Bachelor of Arts alla celebre London School of Economics. Il lungo soggiorno inglese gli servirà per formarsi una mentalità aperta e per conoscere a fondo la mentalità e gli ambienti economici anglo-sassoni.
Nel 1915, caso più unico che raro, la famiglia Pizzoni al completo partecipò alla Grande Guerra: il padre Paolo, come colonnello e, dal 1916, generale di artiglieria, la madre Emma, arruolatasi come crocerossina e, infine, il giovane Alfredo, col grado di sottotenente dei bersaglieri. Tutti e tre tornarono a casa decorati al valore, ma per Alfredo vi fu in più l’esperienza delle prigioni austro-ungariche e di un infruttuoso tentativo di fuga.
Dopo la guerra, Pizzoni, entusiasta ammiratore di Gabriele d’Annunzio (1863-1938), fu tra i legionari di Fiume, suscitando per questo la disapprovazione del padre. Finalmente, il 10 luglio 1920 l’inquieto giovanotto si laurea in giurisprudenza — si era iscritto all’Università di Pavia nel 1915 — e il 20 agosto dello stesso anno viene assunto a Milano dal Credito Italiano, la banca in cui lavorerà tutta la vita, fino a divenirne presidente. Nel capoluogo lombardo, ultima destinazione di servizio del padre, si erano trasferiti anche i genitori. L’8 novembre del 1922 si sposa con Barbara Longa, dalla quale avrà cinque figli.
Finalmente la vita di Alfredo Pizzoni sembra avviata sui binari di una tranquilla esistenza borghese; in banca il giovane, colto, poliglotta, di idee aperte, vivace, sportivo, è molto apprezzato. Gran lavoratore, Pizzoni percorrerà rapidamente i gradini della carriera. Ma sono tempi in cui si può rifugiare nella tranquillità solo chi — e sono molti, e presto diverranno la maggioranza — non vuole vedere, né vuole capire cosa stia succedendo nel paese.
Mentre il fascismo si afferma, ancor prima del delitto Matteotti e del discorso alla camera del 3 gennaio 1925, con cui Benito Mussolini darà realmente inizio alla dittatura, Pizzoni aderisce all’associazione Italia Libera, costituita, fra gli altri, da Randolfo Pacciardi (1899-1991) e da Ricciotti Garibaldi (1847-1924). L’associazione è un’unione di ex combattenti che non accettano la pretesa fascista di rappresentare «l’Italia di Vittorio Veneto». Italia Libera chiede lo scioglimento della milizia fascista, ormai integrata fra i corpi armati dello Stato, denuncia le intimidazioni fasciste durante le elezioni, chiede il ripristino delle libertà democratiche, che avevano contraddistinto il Regno d’Italia, nato dal Risorgimento. L’associazione non è un partito, né vuole divenirlo; anzi, dichiara che si auto-scioglierà quando la sua funzione sarà esaurita: sarà una delle prime libere associazioni che verranno soppresse dal regime.
L’adesione di Pizzoni a Italia Libera derivava — come egli stesso scriverà nelle sue memorie —, non da posizioni ideologizzate, ma dal generico
«bisogno di fare qualcosa» contro il fascismo. Il soggiorno londinese aveva lasciato in Alfredo Pizzoni una indelebile ammirazione per quella società che gli pareva più aperta, democratica e libera: l’esatto contrario di ciò che il fascismo, a suo parere, si apprestava a creare in Italia. L’educazione paterna aveva forgiato il giovane ai severi ideali del dovere e del patriottismo: a quell’amor di patria, che si rifaceva ai valori del Risorgimento, all’Italia nata dalle guerre per l’unità nazionale. Con questa impronta, l’avversione al fascismo da parte di Pizzoni diveniva quasi inevitabile, anche se questa scelta, in una società che mostrava una stupefacente capacità di omologazione, resterà per anni quella di una parte minoritaria della popolazione.
Sempre spinto dal suo bisogno di fare qualcosa per il bene del paese, Pizzoni si avvicina anche al gruppo di Giustizia e Libertà (GL), che a Milano contava un nucleo clandestino già negli anni 1930. Non saranno certo le idee socialisteggianti di GL ad attirarlo, quanto l’attivismo di questo gruppo, che infatti verrà ben presto scoperto dalla polizia. Anche Alfredo Pizzoni cade nel mirino. Non può essere accusato di palese attività antifascista; tuttavia in più occasioni ha manifestato le sue opinioni sul regime, non è iscritto al Partito; è un centrifugo, privo di riferimenti politici chiari, ma di sicuro non un fascista. Iniziano così pressioni da parte governativa — pare per iniziativa dello stesso Arnaldo Mussolini (1885-1931), il fratello del Duce — sulla direzione del Credito Italiano per allontanare Pizzoni. La banca resiste finché può, non volendo perdere uno dei suoi migliori elementi. Ma alla fine deve cedere e Pizzoni subirà l’umiliazione del licenziamento, peraltro poi rimediato con la riassunzione su una sede secondaria, a Biella, dove si trasferisce con la famiglia. È deluso e amareggiato, e la sensazione che sia meglio abbandonare qualsiasi «fronda» ed entrare nella gran massa dei consenzienti, anche per evitare disagi alla famiglia, si fa sempre più viva in lui. Il 31 luglio del 1933 si deciderà a prendere la tessera del partito, cedendo alle pressioni della moglie. L’apparente manifestazione di ortodossia gli consentirà il ritorno a Milano, grazie anche ai buoni uffici del maresciallo Emilio de Bono (1866-1944), compagno di accademia e vecchio amico del padre. Nel 1936 la banca lo trasferisce a Venezia; ma questa volta è un trasferimento su promozione, per un ulteriore avanzamento di carriera. E un’altra promozione lo porterà a Genova, poi di nuovo a Milano, nella storica sede di piazza Cordusio.
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I venti di guerra nel frattempo si fanno sempre più forti e ancora una volta Alfredo Pizzoni dimostrerà di non far parte della massa. Pur convinto che l’Italia con la decisione di Mussolini del 10 giugno 1940 di scendere in campo a fianco della Germania sia avviata al disastro —
«gli inglesi non cederanno mai», dirà —, Pizzoni decide di rinunciare al diritto che aveva, data la sua posizione di lavoro, all’esonero dal richiamo alle armi. È convinto, come scriverà nel suo diario, che il primo dovere sia verso la patria, anche se è certo della sconfitta. Egli coltiva inoltre un disegno — che è più un’illusione che altro, come non tarderà a verificare — d’importanza capitale per comprendere le sue scelte: sicuro che solo l’esercito potrà restare il punto di riferimento, quando tutte le strutture dello Stato saranno andate in pezzi dopo l’inevitabile sconfitta militare, egli vuole di nuovo indossare la divisa da ufficiale per trovarsi al posto giusto quando la salvezza dell’Italia lo richiederà e le forze armate saranno chiamate a prendere in mano le redini del paese.
Si tratta di una scelta avversata duramente dalla famiglia e questo contribuirà a fargli vivere anni di amarezze, accompagnate da continue disillusioni. Anche se niente lo fermerà dal percorrere la strada, che la coscienza gli sembrava imporre, tuttavia, passo dopo passo, dovrà accorgersi che la realtà è ben diversa da quella che lui sognava, sempre mosso da quegli ideali, cui il padre lo aveva così efficacemente plasmato. La sua esperienza militare durerà poco, perché il tragico affondamento del piroscafo che lo stava portando nel gennaio del 1942 in Cirenaica con il suo battaglione, colpita dai siluri inglesi, gli varrà il congedo per motivi di salute. Tuttavia, il suo comportamento calmo e deciso in quel frangente, gli consentì di salvare gran parte dei suoi uomini e per questo riceverà una medaglia di bronzo al valore.
Il seppur breve rientro nei ranghi militari, se non gli ha permesso di compiere gesta belliche, gli ha consentito senz’altro di toccare con mano non solo l’impreparazione dell’esercito, ma soprattutto la diffusa incapacità e superficialità degli ufficiali cresciuti nel ventennio, spesso più per meriti politici, che per valore militare.
Dopo ancora un anno di lavoro in banca, assisterà al secondo atto della tragedia italiana. Il 25 luglio 1943 Mussolini perde il potere e inizia l’ambiguo governo badogliano; l’8 settembre la comunicazione dell’armistizio unilaterale scatena la reazione tedesca. Inizia il periodo dell’occupazione e della guerra civile, la pagina più nera della storia italiana.
Alfredo Pizzoni è sempre rimasto un isolato, non si è legato a nessuno dei partiti politici, che sono rinati dopo la caduta del fascismo. Tuttavia quel desiderio di fare qualcosa per il paese, che già lo aveva spinto alle prime, limitate, attività anti-fasciste all’inizio del ventennio, ora lo induce a prendere contatto con gli ambienti anti-fascisti: in primis con l’avvocato Giustino Arpesani, che aveva prestato servizio in guerra sotto il comando di suo padre, e che ora rappresentava la personalità più in vista del partito liberale, quello che Pizzoni sentiva comunque più vicino a lui, alla sua formazione e alla tradizione della sua famiglia. Nello studio di Arpesani e poi in quello di un altro avvocato, il socialista Roberto Veratti (1902-1943), iniziano le riunioni di quel «comitato interpartitico» che diverrà poi, sull’esempio di quello di Roma, il Comitato di Liberazione Nazionale e infine il CLNAI, ossia il Comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia, l’Italia occupata dai tedeschi. Seppur parzialmente deluso dalle prime riunioni, dove gli pare che si faccia troppa teoria e non si progettino invece azioni concrete per l’avvenire dell’Italia, Pizzoni si rende però conto che dagli ambienti dei risorti partiti politici, a guerra finita, verranno i futuri dirigenti del paese. Per il carattere volitivo e le ampie vedute, nonostante un temperamento da persona abituata a comandare e lievemente egocentrico, che non gli agevola i rapporti con i «politici», emerge ben presto come leader del gruppo. E inizia anche a conoscere quello che sarà il problema centrale della Resistenza: la convivenza delle cosiddette «due anime», inconciliabili fra loro, anche se provvisoriamente unite dallo stato di necessità della lotta contro i tedeschi e contro la Repubblica Sociale fascista. Nel 1943-1945 si delineano in effetti due posizioni: i partiti di sinistra — azionisti, comunisti e socialisti — intendevano la lotta di liberazione come guerra rivoluzionaria, per imporre al paese un nuovo ordine, che ripudiasse tanto il fascismo, quanto il vecchio Stato liberale, fondandone uno nuovo di tipo più o meno collettivistico. Dall’altra parte i partiti moderati, Democrazia Cristiana e Partito Liberale, puntavano innanzitutto al ripristino delle libertà costituzionali e a libere elezioni al termine del conflitto, per determinare un futuro dell’Italia più conforme alle tradizioni nazionali e meno condizionato dall’esperienza della lotta anti-fascista. Tutti i partiti presenti nel CLN, giova ricordarlo, erano allora accomunati da un elemento di non scarsa importanza: l’assoluta mancanza di legittimazione e di rappresentatività, data l’impossibilità di tenere regolari elezioni.
Si è spesso parlato, anche in tanti testi scolastici — una interessante documentazione in tal senso è fornita da Ugo Finetti nel suo libro La resistenza cancellata (Ares, Milano 2003) —, di «Resistenza tradita», dando per scontato che la finalità della guerra di liberazione fosse comunque quella di imporre una svolta a sinistra del paese. Curiosamente questo mito venne alimentato proprio da coloro, socialisti e comunisti — gli azionisti sparirono rapidamente come partito politico —, che si presentavano e si presenteranno come paladini della democrazia. Sta di fatto però che allora le medesime forze tentarono, paradossalmente, di preparare una ricetta politica già prefabbricata da servire agli italiani, senza quel passaggio che in democrazia è indispensabile, ossia le libere elezioni. Forse perché presentivano che, come dimostrerà lo storico 18 aprile 1948, la stragrande maggioranza degli italiani era su posizioni moderate e anti-comuniste?
Sarà merito di Pizzoni, proprio grazie alla sua posizione di «non politico», di riuscire a far convivere all’interno del CLNAI questi orientamenti, non solo diversi, ma in contrasto deciso e fondamentalmente insanabile.
Egli, tuttavia, fu soprattutto colui che seppe risolvere il primo e più pressante problema della Resistenza, ossia reperire gl’ingenti fondi necessari per condurre la lotta armata. E lo fece sapendosi guadagnare per la sua apoliticità, per la sua comprensione della mentalità anglo-sassone, nonché per le sue doti di organizzatore, la stima e la fiducia degli Alleati, in genere diffidenti e poco ben disposti verso l’ex nemico italiano. Fu grazie a Pizzoni se i finanziamenti, depositati in Svizzera dagli Alleati, attraverso tortuosi giri bancari ideati da Pizzoni, iniziarono ad affluire copiosi, anche se non sempre sufficienti, alle varie formazioni partigiane. Ma Pizzoni ottenne finanziamenti per la lotta di liberazione non solo dagli Alleati: sfruttando le sue relazioni, egli seppe far sborsare ingenti somme anche a gruppi industriali italiani, come le acciaierie Falck, la Borletti, la Lepetit, per non citarne che alcuni.
Purtroppo, terminata questa vitale opera di unificazione e di sostegno, nel 1945 il leader moderato fu estromesso: egli risultava infatti un personaggio troppo ingombrante, troppo super partes, troppo legato agli Alleati. Un uomo come Pizzoni, al momento in cui il Comitato si candidava a trasformarsi nella piattaforma, da cui far nascere il governo dell’Italia liberata, minacciava di mettere in forse il mito resistenziale, che già si veniva elaborando e che si voleva ipotecasse la ricostruzione dell’Italia. Pizzoni poteva infatti essere una potenziale alternativa a questo disegno e rivelarsi un elemento aggregante delle forze moderate, che, con l’appoggio degli Alleati, avrebbe potuto avviare il paese su binari non ideologici, ma decisamente filo-occidentali e «nazionali».
Non solo. Pizzoni rappresentava anche la contraddizione vivente di un altro mito, corollario del primo: quello della Resistenza come lotta di classe del proletariato. Una lotta «proletaria», che avesse al vertice un banchiere, per di più «non politico» e che comunque esprimeva ideali di tipo borghese, rischiava di far crollare tale mito ancor prima di crearlo.
Fu così che il 27 aprile 1945, a liberazione avvenuta, la riunione del CLNAI, l’ultima presieduta da Pizzoni, fu dedicata a una relazione dell’importante missione di Pizzoni stesso a Roma per contatti con gli Alleati e con il governo del Re. Il CLNAI si era già riunito in sua assenza e, soprattutto per iniziativa del socialista Sandro Pertini (1896-1990) — per cui Pizzoni non simpatizzerà mai e che definirà nelle sue memorie un «piccolo tribuno da comizio» —, aveva deliberato la sua rimozione e la nomina alla presidenza un politico. I partiti moderati, già preoccupati di non incrinare i rapporti con le sinistre per una futura collaborazione di governo, avevano fatto poco o nulla per sostenere Pizzoni. Presidente del CLNAI al momento della Liberazione divenne così il socialista Rodolfo Morandi (1902-1955), del tutto «organico» ai partiti.
Pizzoni tornò quindi nell’ombra e riprese il suo lavoro di sempre al Credito Italiano. Solo dagli amici inglesi e americani ebbe qualche riconoscimento morale e onorifico.
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Pizzoni morì, colpito da un tumore alla gola, il 3 gennaio 1958, a soli 63 anni.
Aveva dato disposizione che le sue memorie non fossero pubblicate prima di 25 anni dalla sua morte, per non rinfocolare rivalità che riteneva non avrebbero giovato al paese. Anche per questo su di lui cadde il silenzio.
I figli tuttavia riuscirono nel 1993 a far stampare il diario che il padre aveva tenuto proprio negli anni in cui guidò il CLNAI, in una edizione (Einaudi) di sole tremila copie, sponsorizzata dal Credito Italiano. Tremila copie peraltro mai giunte nelle librerie, ma distribuite esclusivamente a un ristretto pubblico, tutto interno alla banca. Una ristampa, con tiratura ignota — si trattava sempre di un volume ad alto costo —, fu fatta due anni dopo dall’editrice il Mulino di Bologna.
La cosa più significativa è che il primo volume si presentava corredato da una importantissima prefazione di Renzo De Felice (1929-1996), nella quale lo storico reatino sollevava per la prima volta in sede storiografica il «caso» Pizzoni e lo associava alla tesi, già ampiamente sviluppata altrove, del carattere sostanzialmente ideologico della scelta resistenziale dei partiti anti-fascisti.
Ancor oggi, nella sterminata pubblicistica sulla Resistenza — enciclopedie, saggi, biografie, memorie, siti — Alfredo Pizzoni, nonostante il suo ruolo-chiave, praticamente non esiste. Piffer non esita a questo riguardo a parlare di autentica e sistematica «
damnatio memoriae».
Eppure, il 30 marzo 1985 lord Patrick Gibson, presidente del
Financial Times di Londra, ex ufficiale della n.1
Special Force inglese, aveva indirizzato a Pietro Ostellino, all’epoca direttore del
Corriere della Sera, una lettera in cui si doleva del fatto che il nome illustre di Alfredo Pizzoni non fosse mai stato ricordato nelle innumerevoli celebrazioni della Resistenza. La lettera così si concludeva:
«Alfredo Pizzoni fu senza dubbio il negoziatore principale per conto della Resistenza italiana con l’Alto comando alleato, per tutti gli aiuti militari e finanziari ai partigiani. La posizione speciale che Pizzoni aveva a quel tempo — ossia il fatto che egli fosse indipendente da ogni partito politico — gli conferiva un’autorità particolare — unica direi — che ispirava sia stima nei suoi collaboratori italiani, sia fiducia negli interlocutori alleati coni quali condusse i negoziati. Questa sua indipendenza dai partiti politici è, forse — triste a dirsi — la causa principale del fatto che egli sia stato praticamente dimenticato». Il
Corriere non aveva però ritenuto di pubblicare la lettera.
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Il libro di Piffer — che si avvale anche di altre memorie e documenti, messi a sua disposizione dalla famiglia Pizzoni —, con la sua ampia ed esauriente esposizione, viene a colmare un lacuna informativa del tutto sconcertante, sia per la sua entità, sia per il fatto che sussiste ancora intatta a sessant’anni dai fatti. Così pure, illuminando un personaggio centrale finora, pregiudizialmente o meno, trascurato, rimette in discussione la
vulgata interpretativa — più o meno spinta — relativa alla vicenda resistenziale. Piffer ci dà un esempio, dei migliori, di quello che può essere un sano atteggiamento revisionistico: non lo sforzo di costruire una mitologia uguale e contraria a quella in vigore, bensì quello di riprendere senza occhiali ideologici pagine controverse della storia patria, ricollocando nella giusta luce, attraverso ricerche rigorose, fatti e personaggi, che magari per la storiografia ufficiale hanno fatto la fine del povero Winston orwelliano, cui si diceva:
«non rimarrà nulla di te».
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Tommaso Piffer, Il banchiere della Resistenza. Alfredo Pizzoni, il protagonista cancellato della guerra di liberazione, Mondadori, Milano, 2005, pp. 305, con ill. in b/n.