I
l secolo diciottesimo a
Genova si può far cominciare qualche anno prima del millesettecento, per una
infinità di ragioni, la prima delle quali è senz’altro rappresentata dall’artiglieria
di re Luigi XIV (1638-1715).
L’artiglieria da marina di
Luigi XIV, detto familiarmente negli ambienti della reggia di Versailles il Re
Sole, gioca infatti un ruolo importante nell’ingresso della Repubblica nel
mondo dei nei e delle crinoline. E lo gioca per il semplice motivo che con le
sue palle di piombo, con le sue sventagliate di colubrine, con qualche edificio
abbattuto e con qualche altro sventrato, rimarca con forza che anche la Liguria, anche Genova, d’ora innanzi, è chiamata a esistere — se esistere vuole — nell’orbita
del mondo e della cultura francese.
È vero, come fa notare
orgogliosamente lo storico Federico Donaver, che dopo e nonostante il
bombardamento marittimo del 17-22 maggio 1683, Genova fu l’unico Stato che non
s’inchinò a domandare a grazia al monarca francese, dimostrando così che i
liberi abitanti di una debole città avevano più decoro e più coraggio che non l’Imperatore
e i re, ma è anche vero che da quel momento comincia per la Repubblica una progressiva presa di distanze dal mondo spagnolesco del secolo decimo settimo.
Quel secolo decimo settimo,
che abbiamo imparato a conoscere come il «siglo de los genoveses», era
ormai irreparabilmente togato e noioso rispetto alla nuova aria che giungeva
dalla Francia dei Lumi. Via dunque i parrucconi folti di boccoli, via gli abiti
scuri e le ampie gorgiere, che avevano costituito per tutto il Seicento una
sorta di divisa per il patriziato ligure, e via soprattutto quelle leggi suntuarie,
che ponevano un limite allo sfarzo, esibito sotto gli occhi del popolo muto e
bue.
La nuova moda, che il refolo
d’aria francese introduceva a Genova, agitava le crinoline delle dame e le
parrucche incipriate dei cavalieri. Birichinamente si divertiva a sfogliare le
pagine dei libri di François Arouet «Voltaire» (1694-1778) e di Charles de Montesquieu
(1689-1775) e spingeva i borghesi, ad imitazione dei nobili, a cingersi di uno
spadino, di cui mai e poi mai avrebbero fatto uso.
Ambasciatori del nuovo
ordine di cose giunsero in città e in città sostarono per qualche tempo non
pochi gentiluomini, di cui le cronache riportano vita e miracoli. Tra i primi,
vi fece tappa Giacomo Casanova (1725-1798), che ebbe anche in riva al Tirreno
amori non diversi da quelli che aveva avuto sulle coste dell’Adriatico. Poi
l’altro avventuriero, Giuseppe Balsamo, conte di Cagliostro (1743-1795), che — narrano
le cronache — fu al centro di uno dei tanti intrighi della sua esistenza.
Infine, addirittura lui, Jean Jacques Rousseau (1712-1778), sbarcato da un
battello in odore di contagio e dunque ospitato — si fa per dire — sotto le volte
del lazzaretto. In compagnia di molte pulci, alle quali cercò di spiegare — sembra,
senza riuscirci — come la vita alla stato di natura, libera e solitaria, sia
assai preferibile rispetto a quella parassitaria, sopra la cute umana.
Last but not least, scese a Genova addirittura un mandarino cinese. Si
chiamava Sin-ho-ei, nome che doveva aver inventato dopo una crisi di singhiozzo.
Non si trattava, infatti, di un suddito del Celeste Impero ma, come al solito,
di un suddito d’oltralpe, certo Ange Goudar (1708-1791?), che, sfruttando la
moda esotica, inaugurata da Montesquieu con le sue Lettere persiane, pensava
di conquistarsi la celebrità con una analoga serie di lettere genovesi.
In effetti, quanto cercava
ottenne. L’epistolario di Sin-ho-ei, fatto recapitare all’altro non meno
celebre mandarino Sciam-pi-pi e poi puntualmente dato alle stampe, forniva
della Genova settecentesca un quadro quanto mai poco rassicurante. Vi si
affermava, infatti, che la Repubblica era in effetti soltanto una città a cui
il nome di repubblica era stato dato piuttosto abusivamente. E che per quanto
la sua divisa araldica fosse «Libertas», l’unica libertà che vi
si conoscesse era quella «[…] di due o trecento cittadini che hanno
in effetti la libertà di tiranneggiare tutti gli altri».
Era in fondo, espresso in
forma libellistica, come si usava in quei tempi di libellisti, il ritratto
della vecchia Repubblica aristocratica, in fase avanzata di decadenza. Un
ritratto impietoso e non sempre veritiero. Che nascondeva, sotto alcuni
lineamenti deformati parodisticamente, molti tratti nobili e venerabili, che la
nuova generazione, nutrita di razionalismo illuministico, si credeva in dovere
di disprezzare soltanto perché antichi.
In effetti, la città, che
allora contava intorno ai centomila abitanti e che con l’acquisto di Finale
aveva esteso la propria signoria su tutta la Liguria, da Ventimiglia a La Spezia, attraversava quella fase di torpore, in cui la Rivoluzione del 1789 colse molti Stati dell’antico regime.
Governata ancora secondo la
costituzione promulgata da Andrea D’Oria (1466-1560) nel 1528 — un Maggior
Consiglio di quattrocento membri, sorteggiati ogni anno dal Libro d’Oro della
nobiltà e un Consiglio Minore di cento, estratti a sorte dal Maggiore —, la Repubblica, con il trascorrere dei secoli, aveva sempre più assunto i lineamenti di una
oligarchia, sui quali s’ingrifasse il naso aquilino del potere monarchico.
Il monarca era, nel nostro
caso, il doge biennale, una sorta di ape regina perennemente chiusa nella
propria cella. Geloso custode di un potere che, come quello dei tribuni della
plebe di Roma antica, più che disporre, provvedeva a impedire che chiunque si
prendesse l’arbitrio di disporre.
Un potere dunque d’interdizione,
che avrebbe rallentato non poco l’azione dell’esecutivo, in un secolo in cui di
decisioni rapide ed energiche — dalla ribellione della Corsica all’invasione
delle armate giacobine francesi — ci sarebbe stato bisogno assoluto.
Quanto alla nobiltà, che
costituiva la struttura portante dell’intero edificio sociale, occorre dire che
quanto più essa era ormai priva del nerbo d’un tempo tanto maggiormente era
avvertita dal popolo minuto come l’incarnazione stessa dello Stato. È vero che
i patrizi si segnalavano, almeno per la gran parte, come dediti soprattutto
alla frequentazione dei salotti galanti e al nuovo gioco, importato
naturalmente da Parigi, del «biribis». Ciononostante la devozione
della gente minuta — artigiani, «bisagnine» [le contadine che portavano le erbe
ai mercati, ndr], piccoli commercianti, operai — stava tutta dalla sua
parte. Emarginando, in una sorta di limbo di indifferenza o magari di sospetto,
quella nascente borghesia, che, seppure con qualche difficoltà, stava
affermandosi anche a Genova.
La borghesia dei medici,
degli avvocati, degli speziali, puntualmente iscritti a qualche loggia
massonica o comunque di ispirazione illuministica e tendenzialmente anti-cattolica.
All’interno della quale venivano portati a piena maturazione quei bacilli
giansenistici, che sin dal diciassettesimo secolo erano presenti nella società
genovese e di cui alcuni sacerdoti delle Scuole Pie si erano fatti e si facevano
portatori.
Ma qual era il collante che
saldava insieme popolo e aristocrazia, come poi si sarebbe visto nel corso
delle giornate del «Viva Maria» nel 1797, quando la gente di Valpolcevera e di Fontanabuona
sarebbe insorta, in difesa della sua fede e della sua tradizione civile,
proprio contro coloro che venivano a predicarle in casa una uguaglianza e una
libertà che non soltanto non aveva mai conosciuto, ma neppure mai sentito
nominare?
Gli storici laureati, i
professori universitari, i depositari della vulgata democratica e progressista,
che sono soliti squadrare con tanto di cipiglio ogni rigurgito di quella che
essi definiscono interpretazione revisionistica del passato, finiscono, in
mancanza di più convincenti argomenti, per servirsi di una sola e invariabile
etichetta. Quella cioè del «paternalismo» della classe dirigente genovese.
Una classe così
disperatamente aggrappata ai propri privilegi ma, al tempo stesso, terrorizzata
a tal punto da ogni possibile moto popolare, che quei privilegi potesse mettere
in discussione, da finir di trattare bene o in ogni modo con umanità quelle
masse, che intendeva ammansire. O comunque distrarre da pretese più radicali e
sovvertitrici.
Questo, dunque, sarebbe il
preteso paternalismo di un patriziato e di un governo, che, comunque stessero
le cose, era amato da coloro che da quel governo erano amministrati. Ed era
amato perché da secoli una tradizione di opere di carità e di misericordia
corporale alleviava le condizioni dei più deboli e dei più infelici.
Genova, per esempio — come
scrive Giulio Giacchero — nella sua Storia Economica del Settecento genovese
(Apuania, Genova 1951) — possedeva un’organizzazione
ospedaliera e assistenziale che, rapportata alla popolazione cittadina, non
aveva confronti in Europa e una struttura corporativa e annonaria tale da
assicurare al popolo minuto un umile ma sicuro tenore di vita.
L’ospedale di Pammatone e l’Ospedaletto,
fondato nel Cinquecento da Ettore Vernazza (1470-1524), assicuravano a quasi
duemila degenti condizioni di conforto e di igiene del tutto accettabili. L’Albergo
dei Poveri, frutto del genio caritativo di Emanuele Brignole (1617-1678), provvedeva
di un letto e di un piatto di minestra a quell’esercito di mendicanti e di
senza stabile occupazione, che ancora verso la metà del Settecento si aggirava
per le vie della città. Quanto alle imposte, sempre indirette e che non
gravavano sui generi di prima necessità, consentivano una vita modesta ma non
grama alla povera gente del centro storico. Le cui abitazioni crescevano — come
incrostazioni calcaree fra i nobili panneggiamenti d’un gruppo marmoreo — ai
margini della nuova urbanistica settecentesca.
E già, perché è proprio in
questo secolo di decadenza politica ed economica che la Repubblica imprime sul volto di Genova quell’espressione di superba bellezza, che tutti i
viaggiatori — dal presidente del Parlamento di Digione Charles De Brosses (1709-1777)
al poeta Vittorio Alfieri (1749-1803) — non potranno non rimarcare. Il ponte di
Carignano, l’abbellimento della Loggia dei Mercanti, i primi lavori di piazza
Acquaverde, l’ampliamento di Pammatone e, soprattutto, la Via Nuovissima, che mette in comunicazione Balbi con la Strada Nuova, conferiscono alla città i nobili connotati della capitale. Innanzi a cui il
mare, come un cicisbeo, piega il ginocchio in atto d’ossequio.
Per queste strada, nel cuore
di queste piazze, sotto i portici di queste logge, si svolge una vita intesa e
salottiera. Fatta di visite, di frequentazioni squisite, di carrozze, di
lacchè, di biglietti segreti, di alcove misteriose, di boudoir
impudichi. I «giovin signori» di pariniana memoria vivono il loro tramonto più
splendido, sotto gli occhi del buon popolo di creuze [mulattiere, ndr]
e di carruggi [stradine cittadine, ndr]. La cui vita è assai
meno grama — come ho detto — rispetto a quella che sapranno dispensare prima la
conquista napoleonica e poi l’unità d’Italia.
Ma facciamo conoscenza con
questo popolano, che sinora abbiamo conosciuto solo per sentito dire. Un
operaio adulto, un proletario, nel senso moderno del termine — come ci informa
ancora Giacchero — lavora per il fisco una giornata ogni nove. Condizione
certamente «non vessatoria» ma neppure così gratificante come si potrebbe
pensare, se teniamo conto che pesa sul salario mensile il fitto di un «mezzano».
Un appartamentino umido e freddo, ubicato per lo più nell’area circumportuale
della città, in cui vivono tre o al massimo quattro persone, che si riuniscono
un paio di volte al giorno intorno a un desco modesto ma abbastanza nutriente.
La gente ligure predilige minestroni e pastasciutte, a cui alterna insalate,
qualche bicchiere di vino e talvolta un po’ di formaggio.
Nella carne ci si imbatte
raramente; in compenso non mancano, nei giorni di festa grande, ravioli, cima, frixeu
[frittelle, ndr] al baccalà e torta pasqualina. Quanto al pesce, è
ovviamente di casa anche sulle tavole più povere.
Al mattino ci si leva presto
per andare al lavoro. Il nostro operaio veste con estrema semplicità abiti di
canapa mista a lana, per lo più tessuti in casa. Alle donne, invece, a sentire
De Brosses, spetta una qualche pretesa di civetteria. Soprattutto nelle grandi
occasioni, per esempio, durante quella della processione delle Casacce [le
confraternite, o «casate», ndr], durante la Settimana Santa, in cui anche il povero più povero non lo è al punto da non addobbare finestre
e balconi con tovaglie o coperte ricamate.
Le belle genovesi si
inginocchiano devotamente al passaggio dei pesanti Cristi, che ondeggiano
contro l’azzurro del cielo. Mentre coloro che li reggono, i cristesanti,
compiono prodigi di forza e di destrezza, per guidarne verticalmente l’incedere.
Ma fra coloro che la processione ha richiamato ai margini della strada non vi
sono soltanto gli uomini e le donne del popolo minuto.
Se penetriamo con lo sguardo
in mezzo a questa tavolozza così densa di colori, non ci sfuggirà il nero dell’abito,
come si diceva a Genova, «alla spagnuola», di qualche signore di mezza età o l’azzurro
e oro di certe dame, tutte nastri e crinoline, che seguite dal proprio cavalier
servente, si dirigono, verso un posto privilegiato. Dove poter seguire, da
dietro l’occhialetto, lo snodarsi della processione.
Il fatto è che Genova,
nonostante l’influenza sempre più tangibile della Francia, nonostante l’illuminismo
trionfante, nonostante quel sorriso scettico che va tanto di moda fra chi ha appena
imparato a leggere qualche romanzo o ad arrotare la erre, rimane sempre e
comunque la città della Vergine Santissima. La città delle mille edicole
mariane. La città che conta, all’interno della sua cerchia urbana, la bellezza
di 244 monasteri.
Ovunque il forestiero volga
il passo, nei vicoli del centro storico o nelle estreme propaggini della
periferia, dove la campagna sembra ancora minacciare l’insediamento umano, è
inevitabile che gli si faccia incontro qualche sacerdote, qualche frate,
qualche suora di vita attiva. Fra le prime cui il genio inesauribile della Chiesa
ha dato vita per alleviare le pene di coloro che soffrono.
Voglio ora tratteggiare, sia
pure per sommi capi, il non sempre idilliaco rapporto che vige tra potere
religioso e potere civile, fra doge e Serenissimi da una parte e arcivescovo e
capitolo dall’altra. Perché, se Genova è — e lo ripetiamo ancora una volta — la
città di Maria Santissima, ciò non toglie che partecipi anch’essa, come molte
altre capitali dell’Italia e della stessa Europa, di quel giurisdizionalismo,
che sarà magari malattia «da sacrestani», ma è malattia comunque noiosa e
spesso cronica. Che un principe trasmette al proprio discendente e un doge al
doge che lo segue.
Il senato della Repubblica,
dunque, sorveglia Santa Madre Chiesa. Cerca di limitarne i privilegi e quando
non riesce a limitarli, si dedica, anima e corpo, ad azzuffarsi con lei in
questioni, diremmo noi, di lana caprina, di onori e precedenze. Dimostrando
così al colto e all’inclita che doge e Serenissimi, nel corso di questo
Settecento, tutto cipria ed inchini, un gran da fare probabilmente non dovevano
averlo. A parte, s’intende, incipriarsi e inchinarsi reciprocamente.
Incominciamo dal «berrettino»
o «calottino», insomma quello zucchetto che i sacerdoti di una volta
indossavano anche in chiesa. Toglierselo e tenerselo avvitato al cocuzzolo in
presenza dei senatori? Qualcuno dirà: una sciocchezza. Ma se una sciocchezza
simile si mette in conto a un’altra sciocchezza come quella del baldacchino
dogale — dove collocarlo, all’interno di San Lorenzo: accanto, ai piedi, di
lato all’altare? — la cosa comincia ad acquisire le dimensioni dell’affare di Stato.
E se poi a tutto questo si aggiunge la storia dei canonici, che, per non aver
voluto, nel corso della benedizione della città del 1731, inchinarsi dinanzi
agli Anziani, furono lasciati fuori porta fino a notte fonda, ebbene, qui si
sfiora la lotta per le investiture. Uno scontro fra Stato e Chiesa di
proporzioni epocali.
E meno male che l’arcivescovo
Giuseppe Maria Saporiti — in carica dal 1746 al 1767 —, uomo tutto d’un pezzo
ma non privo di savoir faire settecentesco, sapeva, in queste circostanze,
allentare e tirare a tempo opportuno le briglie del cavallo di San Giorgio.
Altrimenti le imprevedibili sgroppate dell’animale avrebbero mandato a gambe
all’aria questo microcosmo ancien régime, che viveva preoccupato
soltanto delle proprie zuffe da cortile. Incurante se il macrocosmo intorno a
lui avesse intenzione di crollare o meno.
Di un fatto comunque i
catoni dei crimini commessi del dispotismo della curia romana possono
alleggerirsi le coscienze. Se a Genova l’Inquisizione fu sempre all’acqua di
rose, nel Settecento poi alle rose ci possiamo aggiungere le violette
primaverili. Tanto è vero che — secondo testimonianza almeno dell’astronomo
francese Joseph Jérôme Lefrançais de Lalande (1732-1807) — sembra che, nella prima
metà del secolo, un solo prigioniero fosse ospitato nel convento di San
Domenico. Proprio dove oggi si trova il teatro Carlo Felice.
Perché vi fosse ospitato non
lo sappiamo, ma sappiamo invece con sicurezza che il Sant’Uffizio operava poco
e a fatica, contrastato e ostacolato com’era dal Serenissimo Senato della
Repubblica. A cui pareva cosa poco simpatica che i preti di Roma venissero a
ficcare il naso nelle cose di «Zena».
Si sa comunque di berretti
gialli, imposti ai componenti della comunità israelitica cittadina, di qualche
libro di provenienza massonica bruciato dal boia sulla pubblica piazza e di un
prete, meglio, di un abate, certo Bartolomeo Maggiolo di famiglia polceverasca
— di Murta, per la precisione — che fu al centro, verso il 1779, di un caso di presunta
possessione demoniaca.
Il suo «possessore», che con
voce tonante si faceva chiamare Asmodeo, era in grado di costringere la propria
vittima a parlare i più diversi idiomi, specialmente se si trattava di lingue
dimenticate o mai conosciute e a emettere vaticini, che ai più parevano senza
senso.
Si mosse l’Inquisizione, si
mosse l’arcivescovo Giovanni Lercari — in carica dal 1767 al 1802 —, si mossero
celebri esorcisti anche da extra moenia. Niente da fare: Asmodeo faceva
resistenza. Solo l’8 settembre, giorno della Natività di Maria, dopo lunga
contesa, lo spirito della tenebre si dichiarò sconfitto.
Molti anni dopo, patrizi e
sacerdoti, che la bufera rivoluzionaria aveva condotto esuli lontano dalla
patria, si sarebbero ricordati dell’abate Maggiolo, soprattutto per quelle
oscure profezie che nessuno, sul momento, aveva saputo interpretare. Quando
Asmodeo brontolava di «libertà comune» o dei lamenti di «Genova
gallicizzata», c’era stato qualcuno che aveva ironizzato su quel bravo
diavolo che doveva aver ingollato un bicchiere di vino di Gavi di troppo.
Si trattava invece dell’epilogo
sulfureo di un secolo che si era aperto con l’odor di salnitro degli obici. Cui
graziosamente il Re Sole aveva ordinato di vomitare le proprie fiamme su
Genova.