1. Un incontro
Lo conobbi a metà di quegli anni 1970, che per Genova rappresentarono, più che l’inizio, il dilatarsi e il cronicizzarsi di quel lungo calvario, che la città viveva ormai da oltre un decennio. Crisi economica, crisi sociale, la lotta armata delle Brigate Rosse comuniste a insanguinare le strade e a rendere forzatamente casalinghe le serate dei genovesi. Occupazioni di facoltà universitarie, «sei» politici, progetti di sovversione, descritti e illustrati dall’alto delle cattedre universitarie.
Eppure, in mezzo a tutto questo, Giuseppe Siri (1906-1989) rimaneva un punto fermo, una stella polare, uno scoglio, magari scomodo per tanti che avrebbero voluto, nell’ambito e al di fuori della Chiesa, correre l’avventura sessantottesca della «fantasia al potere», ma, comunque, un scoglio inamovibile. Messo lì a segnare, fra le onde di un mare in tempesta, l’imboccatura del porto del buon senso e dell’ortodossia cristiana.
Proprio per questo, Umberto Bassi, direttore, a quel tempo, di un piccolo quotidiano anti-conformista, La Gazzetta di Genova, che faticava, fra Secolo XIX e Il Lavoro, a ritagliarsi uno spazio di sopravvivenza, mi aveva affidato un’intervista al cardinale, a cui già allora qualcuno — non so se in segno di ammirazione o di critica — aveva affibbiato l’appellativo di «ultimo doge». In realtà, la reazione di Siri alla richiesta di un colloquio non fu per nulla dogale, se per dogale si intende quell’inviolabile isolamento, di cui i grandi della terra amano circondarsi.
Il cardinale, attraverso il suo segretario di allora, il pretino cileno don Juan Lertora, mi fissò un appuntamento in arcivescovado per le dieci di una mattina di sole di primo autunno e, puntualissimo, mi diede udienza nel suo studio. Non potrò mai dimenticare il grande tavolo che ci separava, la sedia dall’alto schienale, dove fui fatto accomodare e, soprattutto, la cortesia da gran signore, grazie alla quale fece del colloquio una conversazione amichevole, fra persone — conosceva la mia militanza nella Dau, la Delegazione Aarcivescovile per l’Università, di cui era, a quel tempo, a capo don Mauro Piacenza, l’attuale Presidente della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa —, che condividono la stessa visione del mondo.
Più che rammentare gli argomenti su cui si soffermò mi sarebbe oggi più facile stilare un elenco di quelli ai quali, nel lungo colloquio, non fece alcun cenno. Fatto sta che quando, dopo più di un’ora, lasciai piazza Matteotti, sede della Curia arcivescovile, avevo non soltanto il taccuino ma la testa piena di idee e pensieri. Mi parlò delle vicende della Liberazione e della lotta che lui e il suo predecessore, cardinale Pietro Boetto (1871-1946), avevano ingaggiato per la salvezza del porto, della Questione Romana, rivendicando a sé stesso e non a Giovanni Spadolini (1925-1994) la celebre espressione a proposito del «Tevere più largo» e, infine, individuando, come al solito in anticipo sui tempi, fra i mali d’Italia, quel consociativismo catto-comunista, che squilibrava pericolosamente la nostra democrazia verso sinistra, si augurò l’avvento di una destra democratica e conservatrice. Alla quale la Democrazia Cristiana (Dc) o, almeno parte di essa, avrebbe potuto guardare, senza dover sottostare alla andreottiana politica «dei due forni» (1).
Ma su quest’ultimo argomento mi invitò alla discrezione, perché i tempi e la nomea che molti, artatamente, avevano creato intorno a lui, lo costringevano a conservare su molti, forse troppi, argomenti il più rigoroso silenzio. Oggi i tempi sono di certo cambiati ma la nomea, in non pochi ambienti, continua a gettar ombre sull’opera e figura di uno dei più grandi arcivescovi di Genova. Che a tal punto ha finito di identificarsi con lui da far del cardinale Siri una parte integrante degli ultimi cinquant’anni della sua storia.
2. La famiglia
Una storia cominciata il 20 maggio 1906, all’ombra dei palazzi fin de siècle di via Assarotti e fra le penombre di piazza Marsala, traversate dal chiacchiericcio della sua fontana, che da sempre, come quella della poesia di Aldo Palazzeschi (1885-1974) (2), va raccontando a orecchi distratti una filastrocca fatta di cose e persone. Che ormai da tanto tempo non ci sono più.
Nicolò Siri, originario «dell’alta valle dell’Olba, tra i monti alle spalle di Genova» (3) si era stabilito con la moglie Rosa proprio lì, in Distacco Porta Marsala, accanto a quella basilica dell’Immacolata, che aveva rappresentato per il cattolicesimo intransigente del secondo Ottocento una risposta, fatta di marmi e mattoni, all’empietà dei Renan (4) di casa nostra. E in un clima d’intransigenza religiosa doveva crescere anche il futuro cardinale di Genova.
Intendiamoci bene. L’intransigenza religiosa di Nicolò Siri e di sua moglie Giulia non aveva niente, ma proprio niente, di quel rigorismo, che, semmai, è caratteristica di chi, in materia di fede, è assai lontano dall’ortodossia cattolica. La visione tetra della vita, il rifuggire dalla gioia e dal sorriso, quasi si trattasse di concessioni al peccato, era ed è comune, come più volte si è detto in queste pagine, di quel giansenismo strisciante, che a Genova, patria di don Eustachio Degola (1761-1826), aveva lasciato tracce tanto profonde quanto meno percepibili.
Di tutt’altro genere era, invece, quella fede serena e tranquilla, priva di orpelli esteriori ma salda come la roccia, che i due coniugi trasmisero al loro primogenito. Nicolò — a quanto racconta Siri stesso in un volumetto intitolato Mio padre (5), pubblicato all’indomani della morte del genitore — era un uomo pio e devoto, che non perdeva occasione, quando il lavoro glielo concedeva — svolgeva le mansioni di factotum in alcune case signorili della zona — di prostrarsi in adorazione davanti all’altare del Santissimo Sacramento.
Quanto alla madre, Giulia, di origine emiliana, sposata in seconde nozze a Nicolò, portinaia presso quel numero 4 di Distacco Porta Marsala, dove il piccolo Giuseppe era nato, era una donna energica e generosa. Sempre pronta a una carezza quanto a un solenne manrovescio, quando il caso lo richiedeva. «La sua personalità — osservava il figlio — era talmente forte nell’ambiente, che una parte dei bottegai non mi chiamava col mio nome, ma semplicemente Giulietto, perché davanti a tutti io ero solo un riflesso di mia madre. Senza mai diventare volgare nel linguaggio sapeva farsi rispettare. Era il carattere opposto a quello di mio padre. Si sarebbe avuta l’impressione che a comandare in casa fosse lei» (6).
Ma che così non fosse Nicolò diede dimostrazione, decidendo, autonomamente, di assecondare il figlio quando questi a dieci anni gli chiese, per la seconda volta, il permesso di entrare da seminarista in quella chiesa, della quale, del resto, il ragazzo aveva fatto la sua seconda casa. Dal momento che, già da tempo, svolgeva le funzioni di capo-chierichetto nell’Immacolata di via Assarotti, che egli aveva preso l’abitudine di chiamare «la basilica d’oro».
3. Il sacerdozio e l’episcopato
Così Giuseppe Siri entrava, il 16 ottobre 1916, nel seminario minore del Chiappeto, per frequentarvi il ginnasio. Era un ragazzo estremamente vivace ma, dopo il primo anno di studi, una «paternale» del rettore aveva il potere di fargli compiere una trasformazione radicale. Diveniva uno studente modello, grazie anche a un’intelligenza vivacissima, in cui la logica più cogente si sposava col dono della maggiore sinteticità. E a un sacerdote di questo livello — riceveva l’ordinazione il 22 novembre 1928 dalle mani del cardinal Carlo Dalmazio Minoretti (1861-1938) — nessun traguardo era precluso.
Già l’anno seguente, infatti, coronava con una laurea summa cum laude gli studi di teologia, per poi — dopo un breve periodo trascorso a Roma, dove fu, fra l’altro, vittima di un grave infortunio, per fortuna, senza conseguenze — tornare a Genova, dove ad aspettarlo c’era una cattedra presso il seminario diocesano.
Il rapporto con gli alunni, le lezioni in cui riversava tutta la dottrina appresa sui libri, la stesura di altri libri, che egli col suo stile denso e plastico insieme rendeva accessibili anche ai non addetti ai lavori — sono di questo periodo La ricostruzione della vita sociale e il Corso di teologia per laici (7), che ebbero, in relazione ai tempi, un notevole successo editoriale — riempirono quegli anni, già gravati da non pochi impegni pastorali — il rettorato presso il Collegio Teologico di San Tommaso d’Aquino, la cappellania nella chiesa delle Grazie al Molo e poi in quella di Santa Zita, cui rimase, anche in seguito, particolarmente legato.
Non c’è da stupirsi quindi che l’11 marzo 1944, ad appena trentotto anni, Giuseppe Siri venisse nominato da Papa Pio XII (1939-1958) vescovo ausiliare del cardinal Boetto. «Nemo adulescentiam suam contemnat», nessuno disprezzi la sua giovane età, diceva quest’ultimo, parafrasando san Paolo, nel presentarlo ai genovesi. Ma non c’era nulla da disprezzare nel più giovane vescovo d’Italia, che ben presto avrebbe dimostrato con i fatti quanto poco contino gli anni se, dietro ed al di là di essi, opera una personalità già matura e consapevole.
4. Gli anni della seconda guerra mondiale
Ed erano anni terribili quelli che si annunziavano. Anzi, quelli che città e Chiesa insieme già stavano vivendo. Se bombardamenti e sofferenze di ogni tipo costituivano di per sé una sfida al preteso progresso della civiltà occidentale, la persecuzione antiebraica poi non poteva non comportare un esame di coscienza per chiunque, a prescindere dalla professione religiosa, non avesse dimenticato la comune appartenenza alla stessa natura umana.
La chiesa genovese aveva intrapreso, nei confronti dei perseguitati, una intensa attività di soccorso, attraverso la DelAsEm (Delegazione Assistenza Emigranti Ebrei), una organizzazione con sede in piazza della Vittoria, che, nata nel 1933, per soccorrere gli ebrei tedeschi profughi in Italia, ora, paradossalmente, si era attrezzata nella clandestinità per portare aiuto anche a quelli italiani. Per cui, sotto un apparente immobilità di superficie, un pugno di sacerdoti coraggiosi come Boetto, Siri, Francesco Repetto, coadiuvati da Massimo Teglio, un ebreo dai mille volti e dai diecimila travestimenti, che si era meritato, a buon diritto, il soprannome di «primula rossa», provvedevano a fornire ai braccati falsi documenti di identità.
Ma l’attività di Siri non era sfuggita agli informatori della Repubblica Sociale Italiana (Rsi), per cui sempre più minacciosa si proiettava sul presule un’mminente minaccia di arresto. Tanto imminente che, a un certo punto, Boetto decise di ordinare al suo sottoposto, che si trovava in quel tempo al santuario di Nostra Signora della Guardia, di guadagnare, al più presto la clandestinità.
«Il 7 luglio 1944 — narrerà in seguito Siri nell’opuscoletto, che già ho citato (8) — il cardinale Boetto mi mandò alla Guardia l’ordine di fuggire e di nascondermi: era decisa la mia sorte: il meno che mi sarebbe toccato era l’internamento in un campo di concentramento in Germania. Con un viaggio pieno di peripezie riparai sui monti liguri presso un mio antico compagno di scuola, don [Stefano] Reggiardo. Ebbi l’avvertenza di non dire a nessuno dove mi nascondevo, di spargere la voce che stavo male di nervi e mi ritiravo per un periodo di assoluto riposo. A Carsi Ligure, dove mi rifugiai, mi guardavo dal dire a chicchessia che ero fuggito. Tappai la bocca a due miei alunni stavano lassù sfollati. Infatti se avessero detto qualcosa a chicchessia sarebbe stato riferito a Radio Londra, questa lo avrebbe fatto sapere a tutto il mondo ed io non avrei più potuto scendere a Genova a fare il mio dovere accanto al cardinale Boetto. Secondo i miei calcoli gli eventi bellici prendevano una piega che avrebbe tolto a tedeschi ed italiani la voglia di occuparsi di me. Allora sarei ritornato».
Quei calcoli non erano sbagliati. Dopo due mesi di macchia, già a settembre Siri poteva far la sua comparsa negli uffici della curia almeno qualche giorno la settimana, senza destare eccessivo sconcerto. D’altra parte, fra lo sbarco americano in Normandia e l’avanzata a est dell’Armata Rossa, i nazionalsocialisti, come aveva giustamente osservato il vescovo, avevano altro cui pensare. Anzi, la sorveglianza si era a tal punto rilassata che a Siri fu possibile, in quell’inverno, provvedere con ripetuti viaggi in Lombardia all’approvvigionamento alimentare della città.
Sorse così Auxilium, una organizzazione che, fornendo cibo, coperte, medicinali ai più bisognosi, costituì, in quegli anni, per i genovesi una autentica «fontana di carità». In effetti, era stato il cardinal Boetto, nel 1946, a fondarla, ma Siri, che la ereditò in quello stesso anno, non soltanto la fece propria, ma la estese a tutti i settori della società, in cui, in quel tempo di privazioni, si avvertisse il bisogno di una fattiva solidarietà. Auxilium risultò perciò provvidenziale anche per i reduci dalla prigionia, i profughi delle colonie, gli emigranti, gli anziani, i senzatetto. Al punto che il cardinale, nel dopoguerra, la integrò con l’Opera Nazionale di Assistenza Religiosa e Morale degli Operai (Onarmo) di don Ferdinando Baldelli (1886-1963), a cui era affidata soprattutto l’assistenza spirituale agli operai.
Nel frattempo, risolto il problema alimentare, un’altro e forse di più difficile soluzione prese a imporsi all’attenzione di Siri, quello della salvezza della città. Già ho accennato, sia pure a grandi linee, allo sviluppo della vicenda. Qui aggiungerò ancora che ben presto l’opera pacificatrice di mons. Boetto, portata avanti da Siri, sembrò approdare a quell’esito positivo, che la Chiesa si proponeva e cioè consentire ai tedeschi la ritirata, senza che la città subisse alcun danno, in fatto di uomini e cose.
Raccontava, infatti, Siri in quelle Memorie sulla chiesa genovese, apparse a metà degli anni 1970 sulla Rivista Diocesana Genovese (9), come, la mattina del 23 aprile 1945, egli avesse incontrato a Nervi il Kapitän zur See (capitano di vascello) Max Berninghaus (1900-?). L’alto ufficiale tedesco, comandante della Difesa Marittima della Riviera Ligure, aveva ormai perso quella baldanza, che sino allora aveva ostentato. «La mascella sinistra aveva una insolita contrazione come di chi volesse evitare il pianto».
Superando comunque la propria emozione, Berninghaus informò il vescovo che l’Alto Comando aveva deciso di accogliere le richieste di Boetto: il porto e i relativi impianti non avrebbero subito danni, sempre che la popolazione non intralciasse con atti di guerriglia le operazioni di sgombero.
«Voglia lei disporre tutto», concluse l’ufficiale, aggiungendo che, in caso di disturbo, avrebbe potuto agire «il dispositivo per far saltare il porto».
Purtroppo, mentre Siri provvedeva ad una pacifica conclusione di quella autentica tragedia che per Genova era stata l’occupazione nazista, il Comitato di Liberazione Nazionale (Cln), nella notte, decideva l’immediata insurrezione. Il che significava ancora rappresaglie, scontri a fuoco e, soprattutto, altri morti, come se quelli, che sino allora aveva mietuto la guerra, non fossero già di per sé sufficienti.
Che le cose stessero così il vescovo ausiliare si accorto il mattino del 24, quando, nel centro della città, fu testimone di quella che le cronache partigiane definiscono pomposamente la «battaglia di piazza De Ferrari». In realtà, «[…] non si trattò affatto di una battaglia. La piazza era completamente deserta. Un numero che non mi parve forte di persone appostate alle finestre dell’attuale Banca dell’Agricoltura e forse del palazzo della Borsa, aprì il fuoco sulla colonna germanica. La risposta fu rabbiosa e terribile, direi all’impazzata. Io mi salvai dietro un pilone della Borsa, altrimenti sarei stato finito. Qui accadde un episodio dei più tristi. Comparve, armato di un fucile, un giovane aitante quasi imberbe dalla parte di via Dante. Io gli urlai dal mio posto di non avanzare che lo avrebbero ammazzato senza scopo. Lui non badò a quel che dicevo e venne avanti: una raffica lo prese, gli squarciò il ventre in modo orrendo; lui stramazzò esanime» (10).
Era evidente che il ripetersi di simili attacchi avrebbe reso sempre meno ipotetiche le minacce di Berninghaus, per cui, a questo punto, cominciò per Siri la parte più difficile di tutta la faccenda. Egli doveva, infatti, «[…] convincere tutti a non attaccare i tedeschi in città, perché questo avrebbe portato alla rovina. E già stavano attaccando: ogni ora che passava aggravava in me una sorta di agonia. Passai molte ore accanto al telefono di villa Migone [residenza del card. Boetto nel quartiere di San Fruttuoso], inginocchiato accanto ad una seggiola per poter scrivere appoggiato a quella. Ora trattava attraverso i centralini, ora parlavo direttamente ai personaggi. Se non riuscivo a persuaderli prima di notte era la rovina» (11).
Fortunatamente, il vescovo ausiliare di Genova aveva in sé, già sviluppata, quella capacità di mediazione, che poi, negli anni successivi, avrebbe calamitato nelle sue mani tanti delicati problemi cittadini, affinché, smussandone gli angoli, ne affrettasse la soluzione. Fatto sta che, facendo pressioni ora su Giuseppe Macchiavelli, futuro esponente del socialismo ligure, a quel tempo capo del contingente di partigiani che assediavano il porto, ora sul generale Günther Meinhold (1889-1979), perché sospendesse il cannoneggiamento tedesco su Genova, Siri riuscì, il mattino del 25 aprile, a Villa Migone, a ricevere da parte nazionalsocialista la resa incondizionata, che poi fu divulgata, via radio, da Paolo Emilio Taviani (1912-2001), a nome del Cln.
Ovviamente, all’apparire sulla Rivista Diocesana delle memorie del cardinale, si levò un immediato polverone polemico. Lo scritto di Siri sembrava, infatti, non soltanto minimizzare l’apporto partigiano nelle vicende della Liberazione, ma addirittura mostrare come esso, per poco, non si fosse rivelato deleterio alla salvezza stessa della città. Il che contrastava con quella tendenza, tipica soprattutto del Partito Comunista Italiano (Pci) genovese, di rivendicare in prima persona il ruolo di restauratore dell’indipendenza italiana dal gioco nazifascista.
In realtà, a rileggere gli avvenimenti, raccontati da Siri, in una prospettiva storica, non si può non riconoscere che la sua pubblicazione servì non poco a far luce su un periodo, di cui le passioni ideologiche avevano contribuito a fornire un’interpretazione distorta. Per cui ci sembra ancora oggi valido, per chiudere definitivamente una tanto vexata quaestio, ciò che lo storico Renzo De Felice (1929-1996), storico revisionista e dunque non poco inviso al manicheismo di partito, ebbe ad affermare nel corso di una tavola rotonda, che si svolse nel 1990 nella redazione del Corriere della Sera. Alla salvezza del porto di Genova, secondo l’autore della monumentale biografia di Benito Mussolini (1883-1945) (12), contribuirono il cardinale, i tedeschi buoni, i fascisti «buoni» e i partigiani «buoni». E tutti coloro, in una parola, che, senza furori da prime donne, operarono per il bene comune.
5. Il dopoguerra
La liberazione della città portava con sé tuttavia la prematura dipartita del cardinal Boetto, che si spegneva all’alba del 31 gennaio 1946. Da parecchi mesi, in realtà, Siri sostituiva il suo superiore, vecchio e malato, praticamente in tutte le attività connesse col governo della diocesi. Per cui non avrebbe dovuto stupirsi oltre misura di una sua successione. Ciò che invece lo colpì e non poco fu la rapidità con la quale Pio XII decise il passaggio delle consegne. Solo tre mesi dopo, il mattino del 2 maggio, il Sostituto alla Segreteria di Stato mons. Giovanni Battista Montini (1897-1978) introdusse Siri dal Papa, che, sotto vincolo del segreto, gli annunciava la nomina ad arcivescovo di Genova.
La città e il clero, del resto, accolsero con grande favore la notizia, che venne diffusa solo una quindicina di giorni dopo. Uniche eccezioni: una piccola parte del laicato cattolico, quella più progressista — intendo riferirmi ai militanti della Federazione Universitaria Cattolica Italia, i cosiddetti «fucini» e a quelli del Movimento dei Laureati di Azione Cattolica —, che aveva ricevuto da mons. Emilio Guano (1900-1970) e da mons. Franco Costa (1904-1977) una formazione che, per tanti versi, era antitetica a quella di Siri e, soprattutto, gli avversari di sempre e cioè quegli esponenti dei partiti di sinistra, i quali con la nomina del nuovo arcivescovo vedevano svanire ogni possibilità di «compromesso storico» ante litteram.
L’esclusione dei comunisti dal governo di Alcide De Gasperi (1881-1954) aveva proprio in quel periodo acuito quella che poi è stata generalmente definita come «guerra fredda». In questo clima si avvicinavano minacciosamente le elezioni politiche del 18 aprile 1948, che ponevano l’Italia di fronte ad una scelta di civiltà. Da un lato il dirigismo socialcomunista, che portava con sé una visione materialistica e anti-cristiana dell’uomo, dall’altra l’opzione per l’Occidente ovvero per un mondo, in cui l’economia di mercato fosse regolata da superiori principi spirituali.
Certamente Siri era ben consapevole, come lo sarebbe stato, negli anni seguenti, anche l’amico filosofo cattolico Michele Federico Sciacca (1908-1975), che la scelta occidentale avrebbe potuto, se non adeguatamente diretta, trasformarsi in «occidentalismo», che è poi la degenerazione consumistico-materialistica dei valori della tradizione greco-cristiana, ma era nelle sue speranze che tale involuzione venisse, in qualche modo, frenata se non addirittura scongiurata.
Per cui approvò e appoggiò incondizionatamente l’iniziativa di Pio XII volta a fornire un diretto appoggio alla Dc degasperiana, tramite il clero e l’Azione Cattolica. Organismo di raccordo tra le forze anti-comuniste e il partito democristiano sarebbero stati i Comitati Civici, diretti da quel Luigi Gedda (1902-2000), che Siri conosceva fin dalla fine degli anni 1930.
L’autentico trionfo che la Dc ottenne in quelle consultazioni, che posero definitivamente una pietra tombale sulle speranze delle sinistre di impadronirsi per via democratica del potere in Italia, non ridusse tuttavia l’attività di Siri in campo sociale. Da autentica «sentinella della Chiesa», come amava definirsi (13), egli si rendeva conto, infatti, che solo grazie ad una continua azione pastorale il mondo del lavoro, così esposto alle più disparate tentazioni, avrebbe potuto essere salvato da una progressiva scristianizzazione e secolarizzazione.
Si spiega così la inesausta attività dell’arcivescovo di Genova — che nel 1953 era anche stato elevato alla porpora cardinalizia — sia a capo della neonata Cei, la Conferenza Episcopale Italiana, la cui creazione fu sollecitata proprio da Siri e dal cardinal Ernesto Ruffini (1888-1967), l’energico arcivescovo di Palermo, sia nell’ambito delle molteplici associazioni e iniziative — l’Onarmo, ma anche l’Unione Cristiana Imprenditori e Dirigenti (Ucid), le Associazioni Cristiane dei Lavoratori Italiani (Acli), le Settimane Sociali –, di cui, sull’esempio di un suo predecessore, il card. Minoretti, Siri intendeva servirsi come strumenti interclassisti, capaci di portare Cristo là dove di Cristo vi era bisogno.
Così alle accuse di non disdegnare la frequentazione dei ricchi e dei potenti — non a caso fu, come si è detto, fondatore e consulente dell’Ucid, l’Unione Cattolica degl’Industriali e dei Dirigenti — rispondeva che non era possibile comporre nella giustizia la questione sociale, se quelli che dirigono non si innalzavano a Dio e che per giovare ai più piccoli bisognava portare Cristo tra i più grandi. Ma, al tempo stesso, non esitava a porsi a fianco, direttamente, di quegli stessi piccoli e non solo attraverso le Acli, che non avevano ancora conosciuto la «svolta socialista» degli anni 1970, ma anche con l’istituzione dei «cappellani di fabbrica», che egli riuscì a far entrare nelle maggiori aziende del porto e della città. Sempre — ben inteso — coperti da quelle vesti talari, che in un sacerdote hanno la simbolica funzione di distinguere, senza infingimenti e mimetismi, chi a Dio ha consacrato la propria vita.
Del resto, in Siri il discorso sul ruolo e la funzione del sacerdozio non può essere esaurito, senza affrontare anche quello relativo alla liturgia e al rapporto con il clero. Verso il quale il cardinale dimostrò sempre la disponibilità e la comprensione di un autentico padre. Indulgente, sempre pronto a perdonare e dimenticare, era anche, quando lo richiedeva l’occasione, capace di quei richiami e di quei bruschi rimbrotti, che, tuttavia, pretendeva si esaurissero fra le pareti della curia. Senza che lo scandalo potesse, in qualche modo, portare detrimento al sentire dei fedeli.
In oltre quarant’anni di governo diocesano comminò una sola sospensione a divinis e proprio perché le circostanze ve lo costringevano. Quanto poi all’interessamento per la salute fisica e morale dei suoi sacerdoti ne forniscono testimonianza non soltanto il grandioso seminario maggiore, che fece costruire sulle alture del Righi, in una incantevole posizione, dalla quale lo sguardo spazia sull’azzurra infinità del mare, ma anche la pazienza con cui, in tempo di contestazione postconciliare, seppe tener testa a certi movimenti ecclesiali di base, come quelli di San Camillo e di Oregina, che riuscì a imbrigliare con la sole armi dell’ascolto e della decantazione.
Così, nel corso di un’intervista concessa a don Virgilio Levi — allora vice-direttore de L’Osservatore romano — e pubblicata poi sul settimanale Oggi, il 25 luglio 1984, poteva affermare che con «camillini» e «oreginisti» egli aveva applicato la tattica del «lasciar fare». «Le cose che nascono senza retta intenzione –— aggiungeva — finiscono da sé. Ho sempre accettato il dialogo. Venivano da me [preti e laici contestatori]. Esponevano il loro punto di vista ed io il mio. Era un dialogo tra sordi. Loro ripetevano la loro ed io la mia. Vinceva chi resisteva di più. Io resistevo senza scompormi. Alla fine ringraziavano e se ne andavano. Sono scomparsi senza lasciare traccia. A Roma c’era meraviglia. Pensavano: cos’ha fatto? Nulla. Bastava aspettare. Le opere di Dio perseverano. Le altre si disperdono».
Non si disperdono, invece, né devono disperdersi le opere consacrate al culto divino. Forse perché discepolo di monsignor Giacomo Moglia, Siri nutrì sempre nei confronti della liturgia quell’amore profondo, che si manifestava nella convinzione che il massimo della bellezza e dello splendore dovesse essere riservato a Colui che della bellezza e dello splendore era l’autore medesimo. E questo non certo per glorificare il sacerdote preposto alla celebrazione — non a caso aveva scelto per sé il motto: «Non nobis Domine, sed Nomini Tuo da laudem». «Non a noi, Signore, ma al tuo nome attribuisci ogni onore» —, ma, come gli piaceva dire, per «trattare Dio da Dio», secondo una concezione gerarchica dell’intero creato.
È evidente che questa sua concezione, che culminava poi nel culto eucaristico, non potesse non scontrarsi con quel pressappochismo liturgico, che aveva preso a furoreggiare all’indomani del Concilio Vaticano II, molto spesso disattendendo o stravolgendo quanto, invece, il Concilio aveva fissato in maniera rigorosa. Da ciò le accuse di conservatorismo da parte di chi — come, per esempio, certi organi di stampa locale — non comprendeva il fondamento filosofico, che era alla base dell’impostazione dell’arcivescovo. Una impostazione che, se, nei confronti di Dio, riconosceva la preminenza del culto interiore, ciononostante attribuiva una giusta importanza a tutti quei segni esteriori, dai quali l’uomo, creatura intelligente ma anche sensibile, non può prescindere nel suo cammino di avvicinamento alla trascendenza.
6. La morte di Pio XII
Ecco, il Concilio: nell’autunno del 1958, con la improvvisa morte di Pio XII, si chiude il periodo forse il più felice nella vita del cardinale genovese e se ne apre un altro, quello legato allo svolgimento della grande assise cattolica e alle sue immediate ripercussioni, certamente più tempestoso, ma, comunque, in grado di rivelarne a pieno la fibra di indefettibile combattente dell’ortodossia e della tradizione.
C’è intanto da dire che la scomparsa di papa Pacelli metteva Siri, che a Roma tutti consideravano il suo pupillo, nell’imbarazzante situazione di essere considerato fra i più probabili candidati alla successione. Pacelli addirittura avrebbe voluto, nei suoi ultimi giorni, che l’arcivescovo di Genova si trasferisse in Vaticano per svolgervi un compito, che, pur senza identificarsi con quello del segretario di Stato, si collocasse tuttavia nell’ambito di una strettissima collaborazione con lui.
Siri non aveva accettato, legato com’era alla sua città, ma il rifiuto non aveva per nulla compromesso gli ottimi rapporti che lo univano al pontefice. Ora poi che si avvicinava il momento del conclave era inevitabile che — come Siri stesso confidò ancora a don Levi nell’intervista a Oggi — venisse «chiesta autorevolmente la mia accettazione previa».
Ma l’arcivescovo di Genova respinse i ripetuti inviti ad accettare la candidatura, adducendo anche motivi di salute. A questo punto, la rosa dei papabili si riduceva a due soli nomi: quelli di Angelo Roncalli (1881-1963), patriarca di Venezia, e di Gregorio Pietro Agagianian (1895-1971), patriarca degli armeni. La grande amicizia, che legava Siri a Roncalli — poche settimane prima della morte di Pio XII, entrambi avevano partecipato all’inaugurazione, a Tortona (Alessandria), di una statua della Madonna della Guardia — fu decisiva. Angelo Roncalli, a 77 anni, diveniva papa con il nome di Giovanni XXIII (1959-1963).
7. La breve età «giovannea»
Vengono così a cadere certe abusati clichés giornalistici, basati sulla fin troppo facile contrapposizione tra il «Papa buono» ed il «burbero» cardinale genovese. In realtà, Roncalli aveva in Siri, di cui condivideva a pieno l’impostazione dottrinale, un validissimo appoggio soprattutto per quanto concerneva la politica italiana. Era dunque l’arcivescovo di Genova a tener informato Giovanni XXIII sui preoccupanti sviluppi della «svolta a sinistra», che la Dc dei Giovanni Gronchi (1887-1978) e degli Amintore Fanfani (1908-1999) stava preparando all’inizio degli anni Sessanta del secolo XX.
Inquietava in modo particolare il fatto che i socialisti, che avrebbero dovuto essere cooptati nella coalizione di governo, fossero ancora, per così dire, «comunismo-dipendenti». Alla vigilia del congresso democristiano di Napoli del 1962, che avrebbe dovuto ufficializzare l’ingresso degli uomini di Pietro Nenni (1891-1980) nella «stanza dei bottoni», Siri compì l’ultimo tentativo per scongiurare quella che egli riteneva a ragione — «Tangentopoli» docet — una autentica sciagura per l’Italia. Propose cioè alla Conferenza Episcopale Italiana (Cei) una soluzione di compromesso, in base alla quale Aldo Moro (1916-1978), a quel tempo segretario del partito democristiano, avrebbe dovuto «[…] condizionare l’eventuale accordo con i socialisti alla formulazione di un preciso programma» (14), che gli eventuali alleati sarebbero stati chiamati ad accettare senza modifiche.
Purtroppo le cose andarono diversamente. Moro venne, sì, informato dall’arcivescovo di Napoli, Alfonso Castaldo (1890-1966), delle condizioni avanzate dalla Cei, ma, il giorno seguente, al momento di parlare dalla tribuna del congresso, non ne tenne conto, dando così vita, ufficialmente, al primo governo di centrosinistra della storia della prima repubblica.
8. Il Concilio Vaticano II
Ma la svolta politica italiana non costituì per Siri la sola amarezza di quel periodo. Il 25 gennaio 1959, mentre Siri si trovava a Cesino, un borgo tra i torrenti Verde e Riccò della Valpolcevera, la radio gli portò la notizia dell’intenzione del pontefice di convocare, in tempi brevi, un concilio ecumenico. Non che — intendiamoci bene — Siri fosse contrario di principio a una solenne assise nella quale i problemi del mondo moderno venissero analizzati e inquadrati secondo i principi della dottrina cattolica. In fondo, lo stesso Pio XII, il pontefice che per l’arcivescovo di Genova avrebbe sempre rappresentato un costante punto di riferimento, aveva, nelle encicliche e nei radiomessaggi, fornito, alla luce del pensiero cristiano, preziose chiavi interpretative a tanti enigmi, innanzi a cui gli uomini d’oggi non potevano che darsi per vinti.
Il pericolo, semmai, era l’opposto e cioè che l’assemblea dei vescovi, sotto l’influsso di quelle teologie d’avanguardia, che Siri conosceva per averle studiate a fondo ma che molti dei suoi confratelli accettavano, viceversa, «a scatola chiusa», finisse per adeguare l’insegnamento della Chiesa alle pretese del mondo, facendo così della verità una «variabile» e non, come avrebbe dovuto essere, un valore assoluto.
Più concretamente, l’arcivescovo di Genova prevedeva che, all’interno dell’assise conciliare, si sarebbero contrapposte due concezioni, non necessariamente antitetiche, anzi, in certo senso, complementari, se poste in un giusto rapporto gerarchico, all’interno del quale l’una, quella cioè legata al magistero ed alla tradizione, avrebbe dovuto fungere da guida all’altra, profetica e pneumatica, necessaria certamente alla Chiesa come lo è l’entusiasmo nella vita sociale. Sempre a patto però che tale entusiasmo non si trasformi, in capriccio, spontaneismo o, peggio, ribellione.
Negli anni del concilio Siri lavorò appunto a mantenere inalterato questo rapporto di subordinazione. E in molti dei documenti più significativi del Vaticano II non è difficile individuare il suo stile e la sua competenza dottrinale. Stile competenza tipici del vir catholicus, del dottore e del pastore che, sulla scia dei grandi padri della Chiesa d’occidente, sa incanalare il nuovo nell’alveo dell’antico, anzi, dell’eterno, secondo una sapienza, a cui, certamente, non è estranea la grazia. E se ne accorsero in molti, come, per esempio, il cardinale gesuita tedesco Augustin Bea (1881-1968), che, dinanzi alla contestazione di coloro, che si servivano come strumento di risonanza dei mezzi di comunicazione di massa, ebbe a dire dell’arcivescovo di Genova: «È una delle alte voci della Chiesa, che noi desideriamo ascoltare».
Undici volte il cardinale Siri intervenne nelle congregazioni generali del concilio e sempre il suo intervento fu di particolare rilievo. Ricordo, per esempio, il suo discorso del 15 ottobre 1963, quando riaffermò il primato del romano pontefice, senza per questo rigettare la collegialità episcopale. La quale però aveva ragione di essere solo cum Petro et sub Petro.
Un altro punto su cui intervenne con quella franchezza che gli era propria, fu a proposito della liturgia. La riforma liturgica doveva essere portata avanti nel rispetto di quanto la Chiesa, nei secoli, aveva sperimentato come valido ed efficace. In particolare, egli non volle transigere dinanzi alle pretese di quei novatori, che avrebbero voluto sostituire con le lingue nazionali quel latino, di cui, invece, egli esaltò l’importanza soprattutto all’interno del canone della messa, rifacendosi in particolare al Concilio di Trento (1545-1563) e ai discorsi di Pio XII.
Per quanto riguarda le costituzioni Dei Verbum sulla divina Rivelazione Scrittura, Lumen Gentium sulla Chiesa e Gaudium et Spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, il suo apporto fu di estrema importanza per precisare i rapporti fra Bibbia, Tradizione e Magistero; per riaffermare la centralità del ruolo di Maria nel piano della salvezza — al di là e al di sopra di ogni miope irenismo, sempre pronto, in nome di una non meglio precisata «pace», a minimizzare la figura della Madre di Dio —; per mettere, infine, a fuoco la crisi del mondo moderno. Un mondo, che il rifiuto dell’ontologia aristotelico-tomistica aveva gettato nel limbo del nichilismo. Fertile terreno di coltura per quello che oggi va sotto il nome di «pensiero debole».
Ma Siri esercitò il ruolo di «sentinella dell’ortodossia» anche al di fuori delle aule conciliari, grazie a quello stile affabile ma, al tempo stesso, signorile, con cui teneva i contatti con i Padri, indirizzandone, senza darlo a vedere, le scelte, traendoli dalla sua parte con la forza d’una logica implacabile, facendosene alleati per mezzo di quello che il pontefice Giovanni Paolo II (1978-2005) ha definito efficacemente «lo splendore della verità» (15).
9. Il «caso» Lefevbre
Proprio in questo periodo — a sentire quanto padre Cristiano Mario Charlot ebbe a rivelare al settimanale cattolico il Sabato del 3 giugno 1989 — iniziarono i primi contatti fra il cardinale genovese e Marcel Lefebvre (1905-1991), arcivescovo di Dakar, in Africa, che, in quegli stessi giorni, stava dando vita a quello che sarebbe stato conosciuto come «Coetus Internationalis Patrum». Ossia una sorta di alleanza fra tutti i vescovi legati a tradizione e magistero allo scopo di contrastare e, se possibile, respingere l’ondata di false dottrine, che, per quanto espulse dai testi ufficiali del concilio, minacciavano comunque di inquinare la fede del popolo di Dio.
A dire il vero, Siri non accettò mai di aderire a quello che egli definiva una sorta di «sindacato dei Padri», che avrebbe potuto incrinare dall’interno quell’armonia, che era comunque necessaria fra i pastori della Chiesa universale. Ciononostante, guardò all’iniziativa sempre con una certa simpatia, soprattutto, in relazione al progetto di un seminario internazionale, dove raccogliere tutti quei giovani che, pur nella comunione con Roma, volessero comunque dare alla propria formazione sacerdotale una più decisa impronta antimodernista.
Non volle però che la sede del futuro seminario fosse Genova, per evitare che si moltiplicassero quegli attacchi contro di lui ed il suo preteso oscurantismo, di cui già traboccavano i mass media. Ciò non toglie, però, che a Genova, invece, accogliesse ben volentieri quei sacerdoti, che, nel corso degli anni 1970, spaventati dalla piega scismatica che stava prendendo la polemica anticonciliare di mons. Lefebvre, cercavano altrove un clima non diverso da quello del seminario di Ecône, senza però il pericolo di vedersi separare da Roma.
Nacquero così la Fraternità della Santissima Vergine Maria di via Balbi e a Voltri, in un convento abbandonato dai cappuccini, un collegio — la Comunità di San Martino — destinato ai seminaristi, che, a Tours e poi a Parigi, si erano raccolti, fra mille difficoltà, intorno a Jean François Guérin (1929-2005), cappellano della basilica del Sacro Cuore di Montmartre a Parigi. Ed è fonte di non poca consolazione pensare che, oggi, molti di costoro svolgono un ruolo di ricambio generazionale all’interno di un clero, quello francese, che ha risentito profondamente dell’ondata di secolarizzazione, che si è abbattuta al di là delle Alpi.
Ma Siri non si limitò a fungere da mediatore fra la Roma di Paolo VI e poi di Giovanni Paolo II e gli ultratradizionalisti francesi. Egli cercò infatti fino all’ultimo di scongiurare lo scisma. E a confermarlo in modo indubitabile rimane ancora l’estremo messaggio che, il 22 giugno 1987, inviò a mons. Lefebvre, prima che questi procedesse a quelle ordinazioni vescovili, che di fatto venivano a recidere la communio fra i sacerdoti di Ecône e il successore di Pietro.
«Monsignore — scriveva il cardinale in quel biglietto destinato a diventare un prezioso punto di riferimento per quegli storici che, in futuro, si appresteranno ad analizzare, sine ira et studio, gli anni turbolenti del post-concilio — Vi prego in ginocchio di non staccarvi dalla Chiesa. Voi siete stato un apostolo, un grande vescovo; Voi dovete restare al vostro posto. Alla nostra età noi siamo davanti alla porta dell’eternità. Riflettiamo. Io sempre vi attendo, qui nella Chiesa e poi in paradiso». Ma purtroppo a queste accorate parole non seguì alcuna risposta.
10. «Spirito» e «lettera» del Concilio
Risposte giungevano invece da altre direzioni, ma si trattava, per lo più, di risposte false, inautentiche, che, sotto il pretesto di dare coerentemente seguito alle premesse conciliari, del Concilio deformavano invece lo spirito, soprattutto per quanto riguardava materie delicatissime come la dogmatica e la liturgia. Quanto sino a ora mi sono sforzato di dire dovrebbe smentire la vulgata, messa in circolazione da tanti mezzi di comunicazione, ideologicamente orientati, secondo la quale Siri avrebbe cercato, negli anni immediatamente successivi al Vaticano II, di disattenderne o di trascurarne le direttive.
Ma semmai in qualcuno fosse rimasto qualche dubbio, ebbene, costui rifletta sulle parole che il cardinale ebbe a pronunciare a pochi giorni dalla conclusione dei lavori della grande assise ecumenica, durante l’omelia d’una messa solenne, che egli aveva officiato proprio allo scopo di celebrare l’evento. In quell’occasione il preteso nemico del rinnovamento affermò che atti e decreti conciliari «[…] si dovevano leggere in ginocchio». Tanto era il rispetto che l’arcivescovo di Genova nutriva per documenti, che non soltanto anch’egli aveva contribuito a stilare, ma che racchiudevano l’indefettibile verità del Cristo. Una verità che poteva attraversare il mondo moderno, incontrarsi con tutte le culture, confrontarsi con tutte le ideologie, senza per questo mai venir meno al proprio essere più profondo.
Occorreva, però — e Siri, come già abbiamo detto a proposito del coetus internationalis, ne era ben consapevole — che i buoni, senza cullarsi nell’illusione che la verità si auto-imponesse per la sua stessa forza di irradiazione, portassero avanti, sempre dall’interno della Chiesa, una battaglia di chiarezza e coerenza rispetto ai valori perenni, servendosi magari di quegli stessi mezzi di comunicazione, che gli avversari utilizzavano per far trionfare la menzogna.
11. Renovatio e l’opera editoriale
Fu così che, con l’approvazione di Paolo VI, Siri diede vita nella sua Genova a Renovatio. Rivista di teologia e cultura, che divenne subito un punto di riferimento non soltanto per amici e sostenitori ma anche per quegli avversari che intendevano confrontarsi con le menti più lucide del pensiero cattolico di orientamenti tradizionali. Diretta prima da monsignor Luigi Rossi, poi da don Gianni Baget Bozzo, infine, da padre Alberto Boldorini, la pubblicazione si segnalò subito per gli editoriali — non firmati ma chiaramente attribuibili all’arcivescovo di Genova —, che per la loro intransigente fedeltà alla Chiesa di sempre generarono non poche polemiche fra quanti avevano ormai dato per scontato che la verità fosse figlia del tempo.
Ma l’attività pubblicistica di Siri non si limitò certo a Renovatio. Il cardinale, infatti, possedeva il raro dono di una grande facilità di scrittura, che non scadeva mai nell’affrettato o nella sciatto. Anzi, le idee erano sempre profonde, i concetti chiari e consequenziali, lo stile sintetico ma non per questo privo della suggestione di certe immagini, che avevano il potere di rendere ancora più affascinante la lettura. A testimonianza del suo impegno di scrittore ci resta la monumentale Opera omnia — complessivamente circa una ventina di volumi —, che, sotto gli auspici della Pontificia Accademia Teologica Romana, viene via via pubblicata per i tipi dell’editore Giardini di Pisa.
Il programma editoriale, che comprende ben otto sezioni di volumi dai titoli quanto mai significativi — La giovinezza della Chiesa; Il catechismo cristiano; Il primato della verità. Pastorali sull’ortodossia; Le opere dogmatiche. Dio uno e trino. La grazia. La virtù; Il sacerdozio cattolico ministeriale; Le agonie del nostro tempo. Discorsi di fine anno: diagnosi e terapie per la società; Opere spirituali; Opere di dottrina e di vita sociale —, culmina, a mio avviso, con quel Getsemani. Riflessioni sul movimento teologico contemporaneo, che, pubblicato a Roma nel 1980, venne, tre anni dopo, presentato a Genova, in occasione dei festeggiamenti per il trentennale di cardinalato di Giuseppe Siri.
12. Il «post- Concilio»
Proprio attraverso la lettura di quest’opera ci possiamo a pieno rendere conto della costante intelligenza critica con cui l’arcivescovo di Genova aveva esplorato gli sviluppi dottrinali che avevano fatto seguito al Vaticano II. Una intelligenza, grazie alla quale ci appaiono ora con estrema evidenza le principali deviazioni della teologia post-conciliare, che si possono riassumere nel neo-pelagianesimo e nello storicismo assoluto.
Figlio della prima delle due posizioni ereticali storiche è per Siri l’atteggiamento di quei filosofi, in particolare il gesuita card. Henri De Lubac (1896-1991) e Jacques Maritain (1882-1973), che tendono a cancellare il confine che separa natura e sovranatura, antropologia e grazia. Così facendo si insinua l’idea che «[..] non più gratuitamente concessa da Dio, la grazia entrerebbe a far parte costitutiva del nostro essere». Sicché, «[…] parafrasando e adottando al caso specifico le parole dell’enciclica Humani generis, che Pio XII aveva rivolto contro i sostenitori di questa dottrina, si giungerebbe alla conclusione che Dio non può creare esseri dotati di intelligenza senza chiamarli ed ordinarli alla visione beatifica» (16).
Da qui poi, sempre secondo l’analisi del cardinale di Genova, sarebbe derivata quell’apertura verso l’antropocentrismo del teologo gesuita Karl Rahner (1904-1984) e del suo discepolo Hans Küng, in base alla quale, tramite la grazia, ovvero l’auto-comunicazione di Dio al mondo, ogni uomo potrebbe ottenere la salvezza anche senza entrare nella Chiesa e praticare i sacramenti.
Quanto poi allo storicismo, tardo prodotto dell’idealismo tedesco, che, attraverso le opere di Wilhelm Dilthey (1833-1911), molti teologi progressisti hanno, viceversa, recepito come l’ultima novità speculativa, il suo naturale approdo non poteva che essere «la disgregazione pluralistica», la relativizzazione totale di quel tesoro di verità di cui da sempre è custode la Chiesa. Come scrive Siri, «questo discorso che mette tutto in discussione è senza fine. Se ci si mette a seguire un argomento dopo l’altro, una considerazione dopo l’altra, una affermazione dopo l’altra e una contestazione dopo l’altra, si è trascinati nella foresta, su dei sembianti di sentieri tracciati da mani misteriose, ma sentieri che sono illusori; e quando uno se ne rende conto, si trova sperduto in mezzo alla giungla, senza poter raggiungere il punto di partenza, salvo un soccorso superiore» (17).
13. Paolo VI
Un soccorso superiore che certamente non dovette mancare a Giuseppe Siri negli anni del pontificato di Paolo VI. Il nuovo pontefice, eletto dopo un breve conclave, il 21 giugno 1963, era chiamato fin da subito a un compito che avrebbe spaventato i più ardimentosi: proseguire e concludere il Concilio Vaticano, che la morte di Giovanni XXIII aveva interrotto nella sua fase forse più critica. E che il compito fosse uno di quelli da far «tremar le vene e i polsi» lo notò subito l’arcivescovo di Genova, che a un suo vicino di seggio, il cardinale Maurice Feltin (1883-1975) di Parigi, che gli chiedeva, subito dopo la conclusione del conclave, quale sarebbe stato il compito del nuovo papa, rispose: «Roncalli è morto lasciando spalancate le porte. Vostra Eminenza sarà d’accordo con me che le porte non chiuse sbattono. Toccherà dunque a Montini fermarle».
Non sappiamo se un uomo come l’arcivescovo di Milano fosse l’uomo più idoneo a questo compito, per così dire, di portiere. Certo che, verso la fine della sua vita, lo stesso Paolo VI dovette ammettere che quelle porte, forse, avrebbero potuto essere meglio chiuse, se, per sua stessa ammissione, non poco «fumo di satana», attraverso di esse, fosse penetrato nel tempio del Signore.
Formatosi in un ambiente culturale — quello dello spiritualismo francese e di Maritain — che poco aveva in comune con quello di Siri, il nuovo papa, pur avendo chiesto, abbracciandolo, al momento del solenne atto di obbedienza, la collaborazione del suo più quotato rivale all’interno del conclave, non si mostrò poi a quest’ultimo particolarmente favorevole. Già nel 1965 privava Siri di una di quelle che egli definiva le sue «due corone», ovvero della presidenza della Cei — l’altra era costituita dalla presidenza delle Settimane Sociali —, che fu affidata al patriarca di Venezia card. Giovanni Urbani (1900-1969).
Ma non dovevano passare molti anni prima che la fronte dell’arcivescovo di Genova venisse privata anche della seconda corona. Nel 1970, infatti, dopo l’ultima, celebrata a Brescia, si concludeva bruscamente l’esperienza delle Settimane Sociali dei Cattolici. Un’esperienza, del resto, che da troppo tempo languiva, abbandonata com’era a sé stessa, dopo i brillanti esordi dell’immediato dopoguerra. Il fatto è che la gestione delle Settimane Sociali, di cui spettava al papa nominare il presidente, era passata sotto il diretto controllo della Conferenza Episcopale, la quale, sotto la presidenza del cardinale Antonio Poma (1910-1985), succeduto a Urbani, aveva, poco a poco, insabbiato l’iniziativa.
Siri, con il suo carattere deciso e alieno da infingimenti, si era ben presto accorto della cosa e aveva preferito operare un taglio netto piuttosto che trascinare una iniziativa, che sembrava non interessare più particolarmente a Roma. Oltretutto, poi, la situazione a Genova era tutt’altro che tranquilla. Il 27 luglio 1969, il cardinale aveva, intatti, sciolto l’Azione Cattolica locale, «suddivisa nei tradizionali »rami« a seconda dell’età e del sesso degli iscritti, e a distanza di quarantotto ore la ricostituiva in forma unitaria con nuovi dirigenti. Il decreto, emanato alla vigilia di due consecutivi giorni di festa per evitare eventuali rimostranze, precedeva la revisione statutaria dell’AC progettata da monsignor Costa con il consenso di Paolo VI» (18).
In realtà, così facendo, l’arcivescovo di Genova, anticipava e, al tempo stesso, scongiurava i pericoli di una forte democratizzazione, sottratta al controllo del clero, che era insita nella revisione statutaria di Costa. La riforma siriana, invece, per quanto innovativa nelle forma, lasciava inalterati i contenuti, mantenendo così l’Ac nell’orbita della gerarchia, proprio alla vigilia di quell’ondata di contestazione, che originatasi dal maggio francese, stava per investire anche l’Italia.
E che si trattasse di una contestazione che avrebbe investito anche il mondo ecclesiale Siri se ne rese subito conto, in quello stesso anno, quando, sull’esempio della comunità fiorentina dell’Isolotto di don Antonio Mazzi, anche a Oregina con padre Agostino Zerbinati e poi a San Camillo, sorsero centri in cui si praticavano, come Siri scrisse su Il Nuovo Cittadino, «azioni collettive liturgiche o extraliturgiche». Già abbiamo accennato alla calma e all’apertura al dialogo, che non erano però non disgiunte in lui da una fermezza di fondo, grazie alle quali il cardinale riuscì a reincanalare nell’alveo dell’ortodossia i confusi fermenti dei novatori.
Ciò che, invece, mi preme sottolineare è il fatto che il montare della contestazione, invece di allontanare ancor di più le posizioni del Pontefice da quelle dell’arcivescovo di Genova, le aveva, viceversa, riavvicinate. L’enciclica Humanae vitae, a causa della quale Paolo VI era stato violentemente attaccato dalla stampa laicista, la minaccia di scisma dell’episcopato olandese, il referendum sul divorzio avevano fatto sì che il Papa sentisse la necessità del conforto, discreto ma sempre puntuale, di quell’uomo delle certezze, che era Giuseppe Siri.
E, d’altra parte, lo stesso esito negativo del referendum sul divorzio veniva, ancora una volta, a confermare, quasi ce ne fosse stato ancora bisogno, la lungimiranza, con cui il cardinale aveva previsto il progressivo avanzare delle secolarizzazione nel cuore della società italiana. Una secolarizzazione a cui oramai non faceva più fronte neppure quell’Azione Cattolica, che, dopo la riforma di Paolo VI — dagli effetti della quale Siri, come abbiamo visto, aveva cercato di defilare almeno Genova —, aveva perso gran parte della sua capacità evangelizzatrice.
«In questa battaglia — ebbe a dire, infatti, il cardinale, commentando i risultati del referendum, di ritorno da un viaggio in Unione Sovietica — non si sentì il peso dell’Azione Cattolica, non perché contraria, ma perché terribilmente indebolita, in molti luoghi distrutta, spesso dileggiata. Se si fosse sentito, non ne abbiamo alcun dubbio, le cose sarebbero andate diversamente» (19).
Era, ancora una volta, quel «fumo di Satana», che era penetrato nel tempio di Dio attraverso le porte non tempestivamente chiuse del Concilio. Un fumo ammorbante, che prendeva alla gola, che impediva il respiro. Il vecchio Paolo VI, che moriva nella solitudine della residenza di Castelgandolfo, il 6 agosto 1978, angosciato dalla drammatica fine di Aldo Moro, l’antico compagno della Federazione Universitaria Cattolica (Fuci), troppo tardi, forse, si era reso conto della saggezza contenuta nei suggerimenti dell’arcivescovo di Genova, la cui lucidità faceva ora di quest’ultimo uno dei maggiori «indiziati» alla successione.
14. I due conclavi del 1978
Ma, come è noto, raramente, chi entra papa in conclave, papa ne esce, a conclave finito. E così accadde anche a Giuseppe Siri. Fu subito evidente, infatti, all’interno del collegio cardinalizio, la generale insoddisfazione dei porporati per la passata conduzione della Chiesa. Come scrive il giornalista Benny Lai, emerse una comune volontà, quella cioè di sostituire l’atteggiamento tentennante del defunto pontefice con fermi interventi atti a superare l’interna crisi (20) del mondo cattolico. E in quest’opera di restaurazione, certamente, nessuno poteva essere all’altezza dell’arcivescovo di Genova.
Ma forse proprio la spiccata personalità di Siri finì per sfavorirne la candidatura presso non pochi elettori, che, pur desiderando un mutamento di rotta, preferivano che questo mutamento venisse operato gradualmente e quasi impercettibilmente da un pontefice mite e riservato, come sembrava il patriarca di Venezia Albino Luciani (1912-1978), piuttosto che da un risoluto custode dell’ortodossia, come era stimato il cardinale di Genova.
Fatto sta che, al terzo scrutinio, i voti di Luciani presero ad aumentare, mentre quelli di Siri a ridursi. La successiva quarta votazione poi fu interrotta da applausi non appena fu pronunciato, per la settantacinquesima volta, il nome del patriarca di Venezia. Che aveva ottenuto, per usare un’espressione del cardinale belga Leo Suenens (1904-1996), una «regale maggioranza».
Dopo qualche esitazione, l’eletto si decise ad accettare l’elezione, inaugurando, il 3 settembre, il proprio pontificato, nel corso di una cerimonia, durante la quale ebbe modo di sollecitare Siri affinché, al più presto, gli facesse visita in Vaticano. L’arcivescovo di Genova, che aveva avuto più volte modo di apprezzare la linea pastorale del nuovo pontefice — fedeltà alla liturgia tradizionale, condanna dell’attività politico-sindacale dei preti operai veneziani, simpatia nei confronti del movimento di Comunione e Liberazione — fu quanto mai lieto dell’invito. Ma l’udienza, da lui più volte sollecitata, fu sempre rinviata con vari pretesti. Gli venne finalmente fissata per il 30 di settembre, ma quarantotto ore prima Giovanni Paolo I (1978-1978) fu misteriosamente trovato morto nel proprio letto.
Non ci voleva altro per scatenare i tanti Sherlock Holmes, che non mancano mai nelle redazioni giornalistiche. Si bisbigliò di veleni, di inquietanti presenze nei palazzi vaticani, si mise, insomma, in piedi un «giallo», che neppure la scrittrice Agatha Christie (1890-1976) sarebbe stata in grado di architettare con maggior efficacia. Il nuovo conclave poi, che di nuovo bussava alle porte, costituiva la migliore occasione per andar a caccia di qualche scoop sensazionale.
Il cardinale Siri, ancora una volta a Roma, divenne così l’obiettivo privilegiato degli «agguati» di quei giornalisti, che vedevano in lui un torvo capo reazionario, che mai e poi mai avrebbe accettato, se fosse stato eletto pontefice, di dar completa attuazione al Concilio. Pochi giorni prima, infatti, il cardinale di Genova aveva dichiarato sul proprio conto con una vena di ironia, che i giornali non avevano colto, di non essere né conservatore né progressista. Ma di voler essere considerato «un indipendente, un uomo che marcia solo e non fa parte di gruppi» (21).
Non era una affermazione da poco in un tempo in cui si invocava la collegialità anche nel supremo governo della Chiesa. Una affermazione, comunque, che non sarebbe bastata ad azzerare le possibilità di elezione di Siri al pontificato, se non fosse intervenuta la pubblicazione di un’altra intervista, carpita più che concessa, che apparve, a firma di Gianni Licheri, sulla Gazzetta del Popolo, nei giorni immediatamente precedenti il conclave.
Rievocando la vicenda, così scriveva, il 3 maggio 1989, il direttore del Corriere Mercantile, Mimmo Angeli: «Eravamo nell’ottobre 1978, alla vigilia del conclave. Siri era il grande favorito. Poco prima di entrare rilasciò, fatto assai raro, un’intervista. Lui stesso mi raccontò l’episodio. »Stavo uscendo dall’abitazione del giornalista Emilio Rossi, genovese, allora direttore della Rete Uno, convalescente. Era stato ferito alle gambe dalle brigate rosse. L’ascensore era rotto, scesi a piedi e un giornalista mi pregò fino alla supplica di rispondere ad alcune domande. Rifiutai. Lui non si rassegnò: mi promise che l’articolo sarebbe uscito dopo l’entrata in conclave. Non mantenne la promessa«. In quell’intervista, tra l’altro, Siri disse: »La mia cattiva fama mi ha finora risparmiato l’elezione«» (22).
Non sappiamo — ma esistono autorevoli opinioni in favore di questa tesi — se l’arcivescovo di Genova abbia concesso l’intervista, ben sapendo che le promesse dei giornalisti sono spesso molto simili a quelle dei marinai e dunque poco credibili. Se così fosse, sarebbe verosimile pensare che Siri avesse voluto, in questo modo, scongiurare il pericolo di una elezione, che egli ormai aveva mentalmente accantonato. Fatto sta che le risposte, che egli diede a Gianni Licheri, diffuse e spesso maliziosamente commentate dalle agenzie e da altri organi di stampa, contribuirono ad affossare la sua candidatura nell’ambito di un conclave da cui uscì papa mons. Karoł Wojtyła (1920-2005), un porporato ancora giovane, il cui pontificato si annunciava assai lungo.
A questo punto, Siri, «il papa non eletto», come lo definisce Benny Lai nella sua biografia, poteva serenamente ritornare a Genova, sicuro che mai più, negli anni seguenti, sarebbe stato sottoposto alle seduzioni del potere romano ma altrettanto sicuro di poter considerare se stesso «uno degli uomini più calunniati» (23) della storia della Chiesa contemporanea.
15. Giovanni Paolo II
Forse calunniato da coloro — ed erano i più — che non lo conoscevano abbastanza intimamente, ma di certo amato e stimato da quanti, invece, avevano modo di sperimentarne non soltanto le non comuni doti di dottrina e di intelligenza ma anche di bonomia e di umorismo. Fra questi vi era senza dubbio il nuovo papa, quel Giovanni Paolo II (1978-2005), che non a caso, subito dopo la propria elezione, volle a lungo intrattenersi col presule genovese. Del resto, dopo gli anni di pontificato di Paolo VI, contrassegnati da un atteggiamento spesso ondivago circa i rimedi cui affidarsi per contrastare la sempre più accentuata secolarizzazione della società, ora l’energia del cardinale incontrava anche da parte del successore di Pietro un eguale e non meno risoluta volontà di risalire la corrente, di riguadagnare posizioni perdute.
Nell’aprile del 1985, intervenendo al convegno della Chiesa italiana svoltosi a Loreto nelle Marche, Giovanni Paolo II esortava i cattolici a farsi attivi promotori di una resurrezione dei valori cristiani, assumendo un ruolo pubblico, ritrovando un’unità di ideali anche al di là della tradizionale unità politica. Era quanto Siri, presente a Loreto, aspettava di sentirsi dire, dopo le deludenti prove che gli uomini di governo democristiani avevano ancora una volta fornito, per esempio, in occasione della legalizzazione dell’aborto, il 22 maggio 1978, e del successivo referendum del 17-18 maggio 1981.
Non fu, dunque, casuale il fatto che, pochi mesi dopo — precisamente il 21 e il 22 settembre l985 — il Papa, invitato dall’arcivescovo, trascorresse a Genova due giorni indimenticabili. Accanto a lui, il cardinale, tornato quasi quello della giovinezza, ebbe modo di far da guida al proprio ospite nei luoghi più significativi di quella città, che egli tanto aveva amato. Nel bene come nel male, condividendone sempre, da autentico figlio, le gioie non meno dei dolori. Il porto, la Guardia, la cattedrale, il seminario, l’ospedale Gaslini, gli stabilimenti di Cornigliano, la grande messa celebrata in piazza della Vittoria. Fu tutto un susseguirsi di momenti indimenticabili, che chi scrive ebbe la fortuna, come inviato del settimanale diocesano, di poter vivere non lontano dai protagonisti.
Poi, negli intervalli del fitto programma, alla sera, nel disadorno appartamento di Siri, ricavato nelle soffitte del palazzo arcivescovile, Papa e cardinale discorsero a lungo, trovandosi in piena comunione ideale e spirituale circa i grandi problemi, che la Chiesa stava vivendo in quello scorcio di millennio. La condanna emanata dal cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, contro la teologia della liberazione; il ripensamento del Vaticano II alla luce del recente dissenso teologico; l’ampliamento dei poteri del Sinodo dei Vescovi in relazione all’autorità del Pontefice: tutto venne vagliato e ponderato e Siri, che proprio in quel periodo aveva pubblicato Getsemani, poté esprimere opinioni che dovettero pesare non poco sul futuro comportamento del papa polacco.
Grande stupore, perciò, quando, al momento della partenza, Giovanni Paolo II elogiò pubblicamente l’arcivescovo di Genova, soprattutto in relazione ai criteri con cui quest’ultimo aveva applicato i dettami del Concilio. Stupore, determinato soprattutto dal fatto che in città Siri era stato presentato all’opinione pubblica come il nemico implacabile del cambiamento, il vescovo arroccato nella sua torre d’avorio, capace solo di fulminare, dall’alto dei bastioni di quella stessa torre, anatemi contro il mondo moderno. Come quando, ad esempio, contraddicendo uno dei principali dettami del politically correct, aveva osato affermare che l’Aids altro non era che un castigo di Dio nei confronti di una società che aveva accuratamente risposta in soffitta la legge di Dio (24).
Allora gli anatemi erano grandinati su di lui, «il grande calunniato», che, come sempre, aveva taciuto sotto l’infuriare della tempesta, aspettando dal cielo e non dagli uomini un riconoscimento al proprio operare. Un riconoscimento, che, invece, gli veniva riconosciuto dalla più autorevole voce della cristianità, mentre ancora, nonostante gli anni, pieno di vita e di entusiasmo, era al timone della propria diocesi.
17. L’epilogo di una «buona battaglia»
Ecco, gli anni. Una delle accuse, che più frequentemente gli venivano mosse dai suoi detrattori, riguardava il preteso rifiuto, che il presule avrebbe opposto alle dimissioni, che pure erano previste dal nuovo Codice di Diritto Canonico per i vescovi che avessero superato i 75 anni di età. Come se un quasi ottantenne si sottoponesse alle fatiche d’un governo diocesano solo per una insaziabile brama di potere.
In realtà, le cose stavano molto diversamente da quanto questo tipo di giornalismo di sapore fumettistico si sforzasse di far credere alla gente. Il 5 maggio 1981, al compimento del suo settantacinquesimo anno, Giuseppe Siri si era rimesso alla volontà del Pontefice, facendogli comunque presente che «[…] fino ad allora Dio gli aveva conservato eccellenti condizioni di salute fisica e mentale» (25).
E Giovanni Paolo II gli aveva concesso fiducia, anche perché ancora molto il cardinale era chiamato a operare in una diocesi, che egli reggeva con la mano sicura d’un cinquantenne. Finalmente, però, nel maggio del 1987, mentre si trovava a Roma a capo di un folto pellegrinaggio di genovesi, il cardinale africano Bernardin Gantin si era premurato di comunicargli che il Santo Padre aveva accettato le dimissioni, «[…] da Lei poste nelle mie mani» sei anni prima. Al posto di Siri, veniva nominato arcivescovo di Genova Giovanni Canestri, che proprio in quei giorni lasciava la sede di Cagliari.
Fu l’inizio di quello che Umberto Bassi, in un memorabile articolo apparso su Il Lavoro, definì il «silenzio del patriarca» (26). Il cardinale Siri si ritirò a Villa Campostano, sul colle di Albàro, una palazzina che due anziani coniugi avevano voluto lasciargli in eredità, e lì, assistito dall’inseparabile segretario, monsignor Luigi Grone, trascorse, in operosa solitudine, il tempo che Dio gli aveva ancora assegnato da vivere. Dopo quarantun anni di governo diocesano, infatti, tante e tante cose Giuseppe Siri aveva ancora da fare prima di entrare ancora una volta in quel conclave senza ritorno, dal quale aveva fondate ragioni per credere di poterne guadagnare un seggio nella luce meridiana del paradiso.
Già, la luce. L’ultima volta che apparve in pubblico — fu l’8 dicembre 1988 nella «sua» chiesa dell’Immacolata — la luce, quella luce sovrannaturale, dalla ormai egli era abbagliato, fu al centro d’un’omelia strana e splendida, come certi mosaici bizantini.
«I malanni sono malanni... — ebbe a dire il vecchio e provato custode dell’ortodossia, in quell’occasione — però quando la luce della croce del Divino Sofferente si avvicina, i malanni prendono un altro tono e possono essere anche coniugati con la felicità che parimenti raggiunge gli uomini sulle loro strade.
Tutto si trasforma!
Se in questa basilica non ci fosse la luce — molta! — noi non ne vedremmo e non ne godremmo lo splendore» (27).
Pochi mesi dopo, il 2 maggio 1989, all’età di 83 anni, Giuseppe Siri lasciava la nostra dimora di tenebre, per entrare nell’eterno splendore.