Il volume
Dal «centrismo» al Sessantotto, a cura di Marco Invernizzi e Paolo Martinucci, Ares, Milano 2007, pp. 485. raccoglie gli atti dell’omonimo convegno, organizzato dall’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale (Isiin), svoltosi all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano nel dicembre 2006. Il lasso temporale, oggetto delle analisi degli storici di varia estrazione culturale, è costituito dai venti anni successivi alla affermazione cattolica del 18 aprile 1948; vittoria elettorale ritenuta anomala perché politicamente non fruttata e, quindi, «dimenticata»dai vincitori. Secondo Marco Invernizzi, presidente dell’Isiin e autore del saggio
Il 18 aprile 1948: un voto dimenticato. Le conseguenze di un’anomalia (pp 13-33), il «centrismo» voluto da Alcide De Gasperi (1881-1954) mirava ad allargare il governo alle forze dei partiti laici, per separare i saragattiani dai comunisti e dai socialisti massimalisti ed a sottrarre la Democrazia Cristiana dalle dirette influenze della Santa Sede (cfr. p. 21) con la quale, dopo il fallimento dell’«
operazione don Sturzo», i vertici democristiani avevano dei rapporti contrastati (cfr. pp. 24-26). Nel 1960, cadeva il governo di Fernando Tambroni Armaroli (1901-1963) a seguito dei moti di piazza a Genova (cfr. p.29); si dava quindi corso ai primi tentativi di coinvolgimento del partito socialista nel governo del Paese (cfr. p. 31).
Il tutto avveniva in una cornice internazionale — come illustra Massimo de Leonardis, docente di Storia delle Relazioni e delle Istituzioni Internazionali all’ Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ne La scelta atlantica: la politica estera italiana dopo il 1948 (pp. 35-50) — che vedeva l’Italia saldamente ancorata all’Alleanza Atlantica. Tale politica subiva la corrosiva critica della sinistra democristiana, in particolare di Amintore Fanfani (1908-1999), che non condivideva le scelte liberiste in campo economico-sociale, riteneva che in politica estera si dovesse «conciliare il massimo di fedeltà con il massimo di indipendenza» (p. 43). La denuncia dello stalinismo ad opera di Nikita Sergeevic Krusciov (1894-1971), nel 1956, e l’elezione al governo degli Stati Uniti di John Fitzgerald Kennedy (1917-1963) favorivano la distensione e, di conseguenza, la nascita, il 5 dicembre 1963, del governo di centro-sinistra di Aldo Moro (1916-1978).
Roberto De Mattei, professore di Storia Moderna all’Università di Cassino, nel suo contributo, Il dopoguerra in Italia nell’analisi di Augusto Del Noce e di Norberto Bobbio (pp. 53-67), sostiene che l’azionismo liberalsocialista, di cui Norberto Bobbio (1909-2004) era esponente di spicco (p 54), aveva col fascismo dei punti in comune, tra cui l’idea che bisognasse lottare contro lo stesso nemico, ravvisato nei valori tradizionali del cattolicesimo (cfr. p.60). In Piero Gobetti (1901-1926), di cui Bobbio si considerava interprete, come in Benito Mussolini (1883-1945) — secondo Augusto Del Noce (1910-1989) —, si trovavano i prodromi della cultura laicista (cfr. pp. 60-62). La conciliazione tra socialismo e liberalismo, preconizzata da Bobbio, non si realizzava; si assisteva invece all’intesa del comunismo con il mondo capitalistico-borghese, intesa che portava alla disgregazione intellettuale e morale (cfr. p. 64).
La Rivoluzione sessuale, sottolinea Roberto Marchesini, psicologo e psicoterapeuta, nel saggio Origini e primi sviluppi della rivoluzione sessuale (pp. 69-80), è il punto d’arrivo di un lento percorso storico che, iniziato con Donatien-Alphonse-François De Sade (1740-1814) e continuato «scientificamente» da Wilhelm Reich (1897-1957), attraverso Sigmund Freud (1856-1939) e Karl Marx (1818-1883), col Sessantotto, si traduceva in prassi rivoluzionaria (cfr. p. 70). In Italia, Palmiro Togliatti (1893-1964), per evitare lo scontro coi cattolici e per non urtare la sensibilità di molti militanti comunisti, non trattava tali argomenti; certamente molto più partecipato e propositivo si rivelava il ruolo del Psi (cfr. p. 76). Anche la legislazione si adeguava: dal 1971 al 1978, era abolito il divieto di propaganda dei contraccettivi; veniva approvata le legge sul divorzio; la Corte Costituzionale stabiliva che il nascituro non era ancora persona; l’aborto era introdotto nel nostro sistema giuridico (cfr. pp. 78-79).
Giuseppe Brienza, giornalista e pubblicista, ne Le origini della disgregazione della famiglia italiana negli anni Sessanta (pp. 81-119), mette in risalto il percorso legislativo che ha minato la concezione tradizionale di famiglia. Le leggi sul divorzio, sulla riforma del diritto di famiglia e la depenalizzazione dell’aborto costituiscono un «pacchetto», che è il prodotto dell’unità catto-comunista, attuata in adesione ai «valori della Resistenza» (p. 98). Questo disegno è confermato dal fatto che «il promotore e relatore governativo in Parlamento fu unico»: l’onorevole Maria Eletta Martini, democristiana della corrente morotea (pp. 83-84). Il processo rivoluzionario era promosso da minoranze laico-socialiste e radicali, ma, a livello politico-parlamentare, centrale e trainante era il ruolo del Pci: all’Assemblea costituente Palmiro Togliatti si opponeva alla proposta di iscrivere nella Costituzione l’indissolubilità del matrimonio. In seguito le proposte per la «modernizzazione» della famiglia venivano avanzate dai Gruppi di Difesa della Donna (Gdd) e, successivamente, dal gruppo dell’Unione delle Donne Italiane (Udi), dalla Lega italiana per l’istituzione del Divorzio (Lid) (cfr. pp. 85-97). La giurisprudenza della Cassazione, influenzata dalla propaganda laicista, trasformava «in senso libertario gran parte della dottrina» (cfr. pp. 109-112). La famiglia, regolata dal diritto privato, perdeva la «natura di cellula fondamentale della società e dello Stato» (cfr. pp 113-119).
Francesco Bonini e Vincenzo Grienti, rispettivamente docente di Storia delle Istituzioni Politiche dell’Università degli Studi di Teramo e giornalista vaticanista e collaboratore del quotidiano Avvenire, nel loro contributo, Chiesa, cattolici e comunicazioni sociali (pp. 121-141), illustrano l’azione della Chiesa nel campo della comunicazione (cfr. p.121). Pio XII (1876; 1939-1958) affrontava questa problematica con oltre sessanta discorsi e testi, tra cui l’enciclica Mirando prorsus del 1957 (cfr. p. 122). Durante il pontificato di PaoloVI (1897; 1963-1978), nel 1971, la Pontificia Commissione per le Comunicazioni Sociali pubblicava il documento Communio et progressio, una «vera magna charta» sulla comunicazione (cfr. p. 123). Dal 1947 al 1954, seguiva l’attuazione dei progetti elaborati in seno all’Azione Cattolica: nascevano l’Ente dello Spettacolo, l’Associazione Cattolica Esercenti Cinema e il Centro Cattolico Televisivo (cfr. pp. 124-125). La Cei si faceva poi protagonista di due importanti iniziative: l’istituzione della Federazione Italiana dei Settimanali Cattolici (Fisc) e l’uscita nelle edicole del quotidiano cattolico Avvenire (cfr. p. 126).
Maria Bocci, docente di Storia Contemporanea all’Università Cattolica del Sacro Cuore, nel saggio Un problema d’identità? Alle origini della contestazione studentesca all’Università Cattolica (pp. 143-228), spiega perché la contestazione studentesca si sia originata proprio in campo cattolico. Certamente non come reazione ad un presunto «conservatorismo» dell’Ateneo (cfr. pp. 143-145); né la contestazione era solo frutto dell’eterogeneità culturale e religiosa degli studenti; come sostengono i seguaci dell’«opzione religiosa», negando che la componente confessionale abbia giocato un ruolo importante (cfr. p. 147). Il voler attenuare o addolcire l’impatto della contestazione in Cattolica mira forse a non rivedere il giudizio sul «rettore della Resistenza», Ezio Franceschini (1906-1983) e su Giuseppe Lazzati (1909-1986) «capofila del rinnovamento ecclesiale italiano» (p. 148). Bocci ritiene che si sia trattato di una rivolta debitrice verso ideologie e programmi alimentati anche all’interno della stessa Università (cfr. p. 150). Gli studenti rivendicavano «la libertà del cristiano nelle scelte politiche», quale manifestazione di un rinnovamento del cattolicesimo che necessariamente postulava un impegno culturale che doveva poi saldarsi con «la resistenza alle strutture di sfruttamento della società»; il cristianesimo si doveva coniugare con l’ideologia anticapitalistica, per condurre a fondo la lotta contro l’ingiustizia. Ciò avrebbe poi comportato un graduale dissolvimento della ispirazione religiosa (cfr. p. 227).
Le «missioni religioso-sociali» dell’Azione Cattolica Italiana nel secondo dopoguerra (pp. 229-310), è il tema trattato da Mario Casella, professore di Storia Contemporanea all’Università del Salento (Lecce). La Santa Sede voleva che la grande capacità di mobilitazione e l’impegno religioso-sociale dell’Aci, messi in campo in occasione della vittoria elettorale del 18 aprile 1948, non venissero dispersi (cfr. pp.229-232). Nell’estate del 1948, all’Assemblea generale dell’Aci: veniva presentato un piano per le Missioni (cfr. pp. 248-256) e, nel corso dell’autunno, in preparazione all’Anno Santo, il medesimo veniva attuato in Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Puglia, Sicilia e Sardegna (cfr. pp. 256-257). Tra i relatori del corso di Firenze si trovavano Mario Romani (1917-1975) e Giuseppe Dossetti (1913-1996). Per difficoltà organizzative ed economiche, tuttavia, il progetto era solo in parte realizzato. Pertanto si decideva di coinvolgere maggiormente le Delegazioni regionali e le rispettive diocesi e parrocchie (cfr. p.259-284). I «carri-cinema», donati nel 1949 da Pio XII, si dimostravano molto incisivi nell’opera di apostolato (cfr. pp. 306-308) e, sempre in relazione alle Missioni religioso-sociali, venivano organizzati corsi per lavoratori; l’Ufficio Propaganda inoltre riceveva richieste di produzione di film catechistici e di costruzione di «auto-cappelle» (cfr. pp. 309-310).
Questa unità d’intenti missionari non era destinata a durare a lungo. Luca Pignataro, dottorando in Storia, Politica e Rappresentanza degli interessi nella società moderna e contemporanea presso l’Università degli Studi di Teramo, nel saggio La vita interna al mondo cattolico. La crisi nell’Azione Cattolica italiana negli anni Cinquanta (pp. 311-340), sostiene che le manifestazioni per i fatti d’Ungheria del 1956 costituirono l’ultima occasione di unità tra le organizzazioni cattoliche (cfr. p. 311). La politica della «mano tesa» dei comunisti riusciva a far breccia nel mondo cattolico, soprattutto presso alcuni dirigenti della Gioventù Italiana di Azione Cattolica (Giac); non mancavano poi i preti schierati a sinistra, come Andrea Gaggero (1916-1988), vincitore di un «premio Stalin» o il gesuita Alighiero Tondi (1908-1984) (cfr. pp. 323-324). All’interno dell’Ac si criticava l’apostolato di Gedda perché, «sacrificato a idoli che di volta in volta si chiamano […] sport, filantropia» (p. 333). Critico era pure il cardinale Ildefonso Schuster (1880-1954) che affermava in un discorso del 1953: «A San Siro è pieno, ma in chiesa, pochi, ben pochi» (p. 339); e padre Nazzareno Fabbretti (1920-1997), nel 1955, parlava dello sport «come talismano delle parrocchie» e di «eresia dell’azione e dell’organizzazione» (p. 339). Verso la metà degli anni Cinquanta, don Luigi Giussani (1922-2005) reimpostava l’opera di apostolato, anche in polemica con le organizzazioni cattoliche ufficiali, ritenendo centrale l’incontro personale con Cristo. Singolare che tale iniziativa trovasse, successivamente, l’accanita critica proprio da parte di coloro che avevano demolito il modello geddiano (pp.339-340).
L’analisi del laicismo in una lettera pastorale dei vescovi italiani del 1960 (pp. 341-357)è il tema dello studio di Francesco Pappalardo, direttore dell’Istituto per la Dottrina e l’Informazione Sociale.
Nel 1959, il cardinale Giuseppe Siri (1906-1989), presidente della Cei, pubblicava una lettera sul laicismo, stigmatizzando l’aperto rifiuto dei valori religiosi e la loro relegazione nella sfera privata. Si stava corrodendo l’anima cattolica dell’Italia, attraverso le critiche al magistero; la propaganda scandalistica fatta attorno alle deficienze del clero e del laicato; l’appoggio dato ai tentativi di introdurre nell’ordinamento italiano il divorzio; la volontà di ridiscutere il Concordato; gli attacchi alla scuola non statale (cfr. pp. 349-352). Si lamentava pure la tendenza di molti cattolici a sottrarsi alla guida della gerarchia. Le linee di un’azione di apostolato non potevano prescindere da una chiara conoscenza della dottrina sociale della Chiesa e del fenomeno laicista, nelle sue basi filosofiche, storiche, ambientali e psicologiche e nel suo radicamento nei vari settori della vita (cfr. pp. 353-355).
Nei suo saggio La riforma della scuola media e le sue conseguenze nella formazione dei giovani italiani (pp. 359-368), Alberto Torresani, docente di Storia della Chiesa presso l’Istituto Superiore di Superiore di Scienze Religiose all’Apollinare dell’Università Pontificia della Santa Croce di Roma, espone i motivi della crisi della scuola italiana, che egli ravvisa nella istituzione della scuola media unica obbligatoria del 1962 (cfr. pp. 359-363). Lo scopo di quest’ultima riforma era quello di ampliare la base di scolarizzazione, abolendo la selettività e la serietà degli studi; ciò era funzionale all’instaurazione dell’egemonia gramsciana: conquistare il potere culturale, che avrebbe in seguito influenzato il modo di pensare e di vivere della gente (cfr. pp. 363-364). La scuola di Barbiana (Prato) fondata e diretta da don Lorenzo Milani (1923-1969), costituiva il modello cui ispirarsi: essa non aveva tempi formalizzati di apprendimento; ognuno si poteva scegliere liberamente i contenuti; si trattava di uno spontaneismo metodologico e didattico (cfr. pp. 365-366). Con la riforma di Riccardo Misasi del 1969, era portato un colpo decisivo all’esame di maturità (due sole prove scritte e un colloquio su due discipline); i promossi risultavano oltre il 95%. Come ha sottolineato il professor Giovanni Reale, la crisi della scuola italiana «ha le sue radici nel nichilismo, ossia nella sfiducia […] nei contenuti tradizionali del sapere» (cfr. pp. 366-367).
Roberto Chiarini, professore di Storia Contemporanea all’Università Statale di Milano, nel saggio Milano: capitale morale, periferia politica (pp. 371-396), prende in esame la vita politica milanese nel secondo dopoguerra. A parere dello studioso, la comprensione del ruolo svolto dalla destra milanese può facilitare la riflessione su tutta la storia d’Italia; infatti il Msi condizionava la Prima Repubblica, tanto da impedire una più incisiva svolta a sinistra della politica italiana (cfr. p. 372). Milano, negli anni Sessanta, aveva una stratificazione sociale che non permetteva il dominio di una classe; da qui l’indispensabilità della mediazione per comporre gli interessi, lasciando sempre il primato alla società civile (cfr. pp. 374-377). La Dc non raccoglieva tutti i voti anticomunisti; e quando la Dc perdeva consensi, il beneficiario era il Pli di Giovanni Malagodi (1904-1991) — che otteneva il 18,7% alle elezioni politiche del 1963 e il 21,22% alle amministrative del 1964 —, non certo il Msi (cfr. pp. 378-385). La destra quindi non poteva incrementare ulteriormente il consenso perché «attraversata verticalmente dalla discriminante antifascista» (p. 385). Ecco quindi il paradosso: Milano era la capitale morale, ma impotente politicamente. L’avvento del centro-sinistra e della contestazione studentesca portavano la borghesia ad arroccarsi nella difesa della morale civica e familiare e dei costumi tradizionali (cfr. p. 392). Passata la bufera, il distacco tra borghesia e mondo politico aumentava, sino a diventare contrapposizione, con «delegittimazione della classe politica». Alla fine degli anni Ottanta, il rapporto borghesia classe politica era di «aperta conflittualità». (cfr. pp 394-396).
L’insegnamento di Giovanni Battista Montini: il Concilio Vaticano II, dalla cattedra di sant’Ambrogio a quella di san Pietro (pp. 397-454) è l’argomento dello studio di Ennio Apeciti, docente di Storia della Chiesa nel seminario di Vengono dell’arcidiocesi di Milano. Monsignor Giovanni Battista Montini, nel 1954, lasciava la Segreteria di Stato della Santa Sede ed era nominato arcivescovo di Milano. Constatato che il cattolicesimo era minacciato «di restringimento e di assedio» (p. 398), il presule avviava un progetto pastorale centrato sul primato dello spirituale (cfr. p. 399). Nonostante la presenza di numerosi segni di speranza, il futuro non sembrava roseo (cfr. p. 403): la Missione di Milano del 1957. non aveva dato dei risultati del tutto positivi: «Le condizioni della città sono allarmanti» dichiarava Montini (p.412); da qui l’impegno rinnovato nella pastorale e nella costruzione di ben 50 nuove chiese e 18 cappelle. Nella Comunicazione alla diocesi ambrosiana del 26 gennaio del 1959, l’arcivescovo parlava del Concilio come di un avvenimento «grande per la Chiesa intera e per tutta l’umanità» (p. 427) Pur impegnato nei lavori conciliari, egli manteneva vivi i contatti coi fedeli ambrosiani, inviando ben sette Lettere dal Concilio (cfr. pp. 448-451) Alla morte di Giovanni XXIII, il cardinale teneva un’orazione funebre, con la quale anticipava l’indirizzo del suo futuro pontificato: «Giovanni ha segnato alcune traiettorie al nostro cammino, che sarà sapienza, non solo ricordare, ma seguire» (p. 451).
Oscar Sanguinetti, docente di Metodologia della Ricerca Storica presso l’Università Europea di Roma, è autore dell’intervento sul tema Luglio 1960, centro-sinistra, Vaticano II: l’Italia verso l’esplosione del Sessantotto (pp. 455-474). Alla fine degli anni Sessanta, la cultura occidentale subiva una profonda rivoluzione culturale. (cfr. pp.455-456). In Italia il cambiamento si situava nella sfera dei gusti, dei desideri, delle mode, delle inclinazioni. Era questa una rivoluzione che rendeva ragione di una «nozione- chiave» del pensiero controrivoluzionario: «una rivoluzione quando scoppia, è già finita», nel senso che l’aspetto barricadiero della rivoluzione è conseguenza di un pregresso cambiamento in interiore hominis (cfr. pp. 457-458). Le organizzazioni ecclesiali, decisive per la vittoria del 18 aprile 1948, erano state da tempo smobilitate o «silenziate» dalla dirigenza del laicato cattolico. Cattolici , come Giorgio La Pira (1904-1977), e preti, come don Primo Mazzolari (1890-1959) e don Lorenzo Milani, diventavano i punti di riferimento di un cattolicesimo sostanzialmente antigerarchico ed alternativo a quello dell’epoca di Pio XII. Il Concilio Vaticano II era segnato dalla ermeneutica progressista: così, invece di un cambiamento di metodo nell’apostolato, si rimuovevano i riferimenti dottrinali e morali. A livello di costume,si assisteva al declino «della trasmissione di modelli culturali per via parentale» (p. 466). Alla formazione del movimento giovanile italiano, contribuivano anche alcuni avvenimenti internazionali: la rivolta, nel 1964, degli studenti all’Università della California a Berkeley, le campagne contro la guerra americana in Vietnam del Sud; le lotte di rivendicazione dei diritti civili; la diffusione delle tematiche del movimento femminista e della cultura underground. Dalla disobbedienza, nasceva il militante politico che, abbeveratosi ai testi di Herbert Marcuse (1898-1979), Theodor Adorno (1903-1969), Max Horkheimer (1895-1973), Mao Zedong (1893-1976), contestava il sistema. L’esito del referendum contro il divorzio, nel 1974, dimostrava come la società italiana fosse cambiata (cfr. pp. 461-473). La generazione del Sessantotto, dopo aver cercato di edificare un «mondo nuovo», «con le sole forze dell’uomo», concludeva la propria parabola nell’uso della droga, e, a volte, nel suicidio; oppure si trasformava adeguandosi al precedentemente combattuto sistema (cfr. p. 473).
L’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale, con questo testo, offre un ulteriore contributo alla comprensione della storia dell’Italia contemporanea, mettendone a fuoco i passaggi nodali della vita sociale e politica, alla ricerca della vera identità, culturale e religiosa della nazione.