«Noi veniamo da quegli anni di guerra civile, che nessuno degli storici ufficiali ha mai voluto chiamare e interpretare con il suovero nome». Così Ottavio Rossani, in un’intervista, fornisce la chiave principale d’interpretazione del suo lavoro sul brigantaggio. In questa ricerca, Rossani, calabrese nato a Soverato (Catanzaro) e residente a Milano, inviato speciale del
Corriere della Sera, nonché poeta e scrittore eclettico, mediante un’ampia e attenta esplorazione bibliografica, collega fra loro armonicamente numerose e disparate fonti — ben undici pagine sono dedicate alla bibliografia —, con una chiarezza non più usuale ormai, dando vita a una sintesi d’intento divulgativo ma, al contempo, dalle basi documentarie così solide, da soddisfare anche le critiche storiografiche accademiche più pignole. L’importanza della sua rilettura complessiva del brigantaggio post-unitario nel Mezzogiorno risiede non solo suo aspetto di «guerra civile fra italiani» — e non tanto o, sicuramente non solo, fenomeno di criminalità comune, e costruzione, come vorrebbe una pervasiva
vulgata ufficiale , simile alla «storia di partito e di Stato» delle ideocrazie socialcomuniste —, ma anche nella provenienza culturale dell’autore. Non si tratta infatti né di un «nostalgico filo-borbonico», né di un «professionista del revisionismo», affetto quindi da sentimentalismo
retrò o da voglia di smascherare le incongruenze e i silenzi colpevoli degli «accademici di regime». Siamo invece in presenza di un esponente di quel ceto intellettuale meridionale, ben disposto verso l’unificazione, ma che ha via via scoperto tutte le «verità nascoste» dietro la retorica patriottarda e gli anatemi contro i vinti e coloro che, timidamente, hanno provato e provano a ricordarne con correttezza storiografica le ragioni. Naturalmente Rossani fa tesoro delle diverse interpretazioni appartenenti alle scuole ideologiche e storiografiche apparentemente contrapposte, quali, sostanzialmente, quella marxista-gramsciana e quella laico-risorgimentale. Ma ne smonta facilmente — secondo l’adagio latino
«contra factum non valet argumentum» — le unilaterali e tendenziose ricostruzioni. E lo fa con i documenti
«ufficiali ed ufficiosi» delle istituzioni: relazioni di commissioni parlamentari e governative d’inchiesta, interrogazioni e interpellanze alla Camera e al Senato, rapporti di magistratura, esercito e forze dell’ordine, memoriali, articoli, lettere dei protagonisti di parte «risorgimentalista». Emergono così i particolari di un insieme d’imprese non sempre nobili, romantiche e disinteressate, che portarono a una «liberazione» della Penisola, attuata male e gestita persino peggio, generando così l’irrisolta «Questione meridionale», e alimentando anche la complessiva sfiducia che caratterizza un po’ tutti i ceti e le popolazioni del Mezzogiorno verso uno Stato visto soprattutto come prevaricatore e mendace, nonché corrotto: significative sono le vicissitudini, puntualmente ricostruite, delle relazioni e degli atti parlamentati «secretati», in quanto non conformi alla «verità di Stato». D’interesse non certo secondario è anche l’attenta ricognizione che Rossani opera sulla legislazione dell’epoca, con cui documenta l’arbitrarietà delle misure adottate, come pure il sovvertimento del principio di legalità e l’esigenza di determinatezza della norma penale (pp. 2-5). Rossani attira anche l’attenzione su un particolare alquanto trascurato, che però rivela «insospettabili» convergenze fra liberali — o, meglio, oligarchici —, ideologicamente seguaci del positivismo e del darwinismo sociale, quali Cesare Lombroso ed esponenti delle correnti della sinistra repubblicana, dei radicali, dei mazziniani, dei garibaldini e persino dei neonati socialisti. Un sostanziale razzismo, ammantato di antropologia criminale, in specie anti-meridionale, ma in genere applicato potenzialmente a tutti, soprattutto ai ceti popolari, bollati quali strutturalmente degenerati e debosciati, in quanto corrotti nello spirito e nel corpo da secoli di dominio clericale cattolico.
Scrive Rossani:
«L’Italia divenne «una ma non «unificata». Nel Sud fu smantellato l’embrionale ma interessante apparato industriale; furono distrutte le iniziative solidaristiche; fu approfondito il solco fra proprietari terrieri e contadini. La borghesia terriera e latifondista fece un tacito accordo con la borghesia industriale del Nord per mantenere i propri privilegi, investendo i capitali nelle industrie del Nord a scapito delle condizioni economiche generali del Sud. Il liberismo sfrenato e successivamente il protezionismo favorì esclusivamente il Nord. La depauperazione del Sud fu costante e progressiva per il blocco delle attività industriali in seguito all’invasione, per il crollo delle esportazioni, per i debiti di guerra del Piemonte, per l’aumento della pressione fiscale sulle regioni conquistate. Tutti elementi che portarono alla creazione delle «due Italie», che le intelligenze positiviste postunitaire (Cesare Lombroso, Alfredo Niceforo, Pasquale Rossi, Ettore Ciccotti, Giuseppe Sergi) si attivarono a dimostrare preesistenti all’Unità. Sulla teoria delle differenze genetiche e psicologiche dei due popoli, settentrionale e meridionale, e sulle politiche economiche liberiste penalizzanti il debole tessuto prevalentemente agricolo del Sud a favore dei nuovi e assistiti insediamenti industriali nel «triangolo» Torino-Milano-Genova, nacque la «Questione meridionale» che ancor oggi è irrisolta (pp. 119-120).
E ancora: «L’uomo meridionale era per i positivisti eccitabile, irrequieto, passionale, anche geniale: con questi aggettivi se ne implicavano altri, come duro, feroce, incontrollabile, inaffidabile, irascibile, riuscivano a spiegare, in modo rassicurante, facile e comodo, tutti i fenomeni a prima vista anomali e assurdi, come il brigantaggio, o le superstizioni, o il fanatismo religioso. Tutte espressioni, queste, utilimente utilizzate per liquidare ciò che non corrispondeva alle aspettative di accettazione di regole e credenze «straniere» e per amplificare vecchi stereotipi, luoghi comuni, ipotesi, riferiti agli abitanti del Meridione» (pp. 130-131).
Dunque quello che si può definire il periodo più doloroso della storia nazionale, fra gli anni 1860-1870, è matrice dei gravi problemi dei decenni successivi e delle ancor irrisolte questioni sia sociali sia identitarie. Il cammino verso una memoria condivisa del popolo italiano passa necessariamente attraverso la corretta collocazione e ricostruzione anche del brigantaggio e dell’immediatamente seguente, e con esso strettamente connessa, emigrazione oltreoceano.
Filippo Salatino