ALDO A. MOLA, Giovanni Giolitti. Lo statista della nuova Italia, Mondadori, Milano 2003, pp. 547.
Aldo A. Mola ci fornisce un approfondito ritratto a tutto tondo dello statista di Mondovì, grazie anche a una imponente massa di documentazione di prima mano. In questo modo, la figura dell’uomo politico piemontese, che per alcuni decenni resse il timone della politica italiana, ci appare nella sua luce più autentica. Lontana sia dai toni polemici di Gaetano Salvemini (1873 -1957), che ebbe a definire Giolitti come «il ministro della mala vita«, sia dall’atteggiamento laudatorio di Giovanni Ansaldo (1895-1969), che, viceversa, in una celebre biografia, lo soprannominò il ministro della «buona vita«.
In realtà, Giovanni Giolitti (1842-1928) ebbe il merito di condurre l’Italia fuori dalle secche in cui si era arenato lo Stato subito all’indomani dell’unificazione, procedendo ad un’opera di modernizzazione, che avrebbe fatto del nostro paese una delle maggiori potenze europee. La sua azione politica, ispirata sempre a un liberalismo, per così dire, sociale, ebbe il merito di migliorare il livello di vita delle classi più povere. Senza mai cedere alla tentazione di lasciar spazio a modelli di governo autoritari.
Il suo atteggiamento nei riguardi del partito socialista e poi di quello nazionalista e, infine, fascista, fu sempre improntato a una cauta apertura. Che si trasformava però in decisa opposizione quando la violenza o la volontà di sovvertire l’ordine costituito rischiavano di mettere in pericolo le istituzioni democratiche.
Giolitti, dunque, uomo d’ordine, fedele suddito della monarchia, cattolico non fervente, ma rispettoso. Pronto, comunque, quando la situazione politica lo avesse richiesto, come in occasione del Patto Gentiloni (1913), a stringere accordi con i cattolici, per impedire che le intemperanze dell’estremismo socialista travolgessero lo Stato.
Mola racconta tutto questo con vivacità, trasformando una biografia scientificamente impostata, in un pregevole romanzo storico. Capace di immergere il lettore nell’atmosfera del tempo.
Questa abilità narrativa Mola la rivela sin dalle prime pagine del libro, impostando il suo racconto su di una serie di
flash-back, che prendono le mosse dall’episodio culminante dell’ultimo decennio dell’esistenza dello statista piemontese. Vale a dire il suo rapporto con il fascismo, che, negli ultimi giorni dell’ottobre 1922, minacciava con Benito Mussolini (1883-1945) di impadronirsi con la violenza del potere.
Giolitti, che in quel periodo non ricopriva incarichi governativi, fu più volte interpellato da Vittorio Emanuele III (1869-1947), con il quale aveva in comune non poche vedute e opinioni politiche, sulla sua disponibilità a intervenire in prima persona, per imprimere una svolta alla situazione. Lo statista piemontese era, infatti, dell’idea che il fascismo dovesse essere costituzionalizzato o annientato. E dunque non gli era estraneo il proposito di costituire un governo di coalizione, in cui alcuni ministeri — non i più importanti — fossero appannaggio dei fascisti.
Le cose invece presero un diverso orientamento. Il debole Luigi Facta (1861-1930), a cui toccò la sorte di assumere in quelle ore tanto delicate l’incarico di Presidente del Consiglio, si lasciò sfuggire di mano la situazione. Dando così la possibilità alle squadre mussoliniane di marciare su Roma e dare così origine a quello che si sarebbe rivelato come uno dei primi governi autoritari del Novecento. Quanto a Giolitti, il suo giudizio sul nuovo regime italiano può essere racchiuso in una considerazione di carattere filosofico, che egli inserì nelle sue memorie, poi pubblicate dalle edizioni milanesi Treves, e in cui le rivoluzioni e i violenti sommovimenti politici vengono inquadrati in una sorta di legge storica. In base alla quale all’azione succede l’inazione, alla tempesta la quiete, sempre nel rispetto degli autentici valori, che poco alla volta riemergono, quando le onde delle passioni si sono calmate.
«Dopo agitazioni violente (e quale più violenta di quest’ultima guerra!) — scriveva infatti l’ormai anziano statista —
vien su un’ondata di giovanissimi Saint Just, Napoleone, Hoche e migliaia di ignoti. I veri valori si affermano e restano in prima linea, gli altri scompaiono e poi il mondo riprende il suo ritmo normale» (p. 50).
Considerazioni profonde, dettate non soltanto dalla propria personale esperienza di vita ma dalla devozione allo Stato di generazioni e generazioni. In effetti, la famiglia di Giovanni Giolitti — come spiega Mola nel secondo capitolo del suo saggio — affondava le proprie radici, soprattutto per parte materna, in una dinastia di devoti servitori della monarchia. I Plochiù, infatti, facevano parte di quei ceti borghesi che avevano ampliato le proprie fortune, traversando indenni il crollo del vecchio regime.
Sicché il matrimonio di Enrichetta con Giovenale Giolitti, ultimo rampollo di una generazione di uomini di legge, veniva, in qualche modo, ad annodare l’antico con il nuovo, la tradizione subalpina di fedeltà alla monarchia sabauda con la più recente classe media, dedita all’attività professionale.
Dopo aver terminato gli studi in tempi eccezionalmente brevi — laurea ad appena diciannove anni —, il giovane Giolitti fa il suo esordio, nell’ambito della gestione della cosa pubblica, a Firenze, che, nel frattempo, è divenuta provvisoria capitale del Regno. Assunto al Ministero della Giustizia quale volontario senza stipendio, il futuro statista compie in breve passi da gigante. Intanto, per le sue doti di dedizione al lavoro, diventa il braccio destro prima di Quintino Sella (1827-1884) e poi di Marco Minghetti (1818-1886), collaborando così al risanamento delle finanze del nuovo Stato.
Finalmente, il 21 agosto 1882, il Re Umberto I (1844-1900) nomina il giovane e promettente funzionario membro del Consiglio di Stato,
«coll’annuo stipendio di lire novemila« (p. 110). è per Giolitti una svolta di non secondaria importanza in una vita condotta sino allora nella serietà di una rigorosa disciplina. Come sempre non lesina le sue energie. I faldoni delle pratiche si accumulano sulla sua scrivania e in mezzo a quei faldoni la sua penna, infaticabile, non cessa di scricchiolare.
L’attività al Consiglio di Stato sviluppa anche quelle doti di sinteticità e di consequenzialità logica, che poi saranno caratteristiche dello statista. Intanto il suo nome comincia a circolare nella «Provincia Grande», quella cuneese, sino al punto da fare di lui un possibile candidato per il locale collegio parlamentare. Giolitti accetta e il 1° novembre 1882 ottiene la vittoria. Iniziano così quelli che lo statista avrebbe poi definito anni di «noviziato». Anni caratterizzati da una grande volontà d’apprendere, ma anche da una rettitudine morale adamantina, che lo avrebbe in breve tempo contrapposto alla cosiddetta «finanza allegra», portata avanti dal governo di Agostino De Pretis (1813-1887). Tanto è vero che, quando a De Pretis succede l’ex mazziniano Francesco Crispi (1818-1901), che intende segnare una marcata linea di discontinuità con i suoi predecessori, il nuovo ministro del Tesoro altri non è se non lo stesso Giolitti.
Lo scandalo della Banca Romana, grave episodio di corruzione, determinato dal fatto che, dopo l’unificazione, ben sei istituti di credito, corrispondenti a quelli degli antichi stati pre-unitari, continuavano a battere moneta, venne affrontato da Giolitti, nel 1892, poco dopo cioè essere stato, per la prima volta, chiamato a presiedere il Consiglio dei Ministri.
Quali nascosti interessi, quali oscure manovre avevano fino allora impedito che la sola Banca d’Italia svolgesse il suo compito? Nel gran polverone che venne sollevato dall’inchiesta governativa, molte forze, quali la massoneria, presero decisamente posizione contro lo statista e molti uomini, come lo stesso Crispi, si sentirono direttamente minacciati.
Disgustato, Giolitti preferì rassegnare le proprie dimissioni, inaugurando così una stagione di viaggi all’estero, tra i quali quello nella amata Germania, a cui sempre, oppresso dai doveri parlamentari, aveva in precedenza dovuto rinunciare. Ma gli attacchi giudiziari e giornalistici, spesso manovrati dietro le quinte dallo stesso Crispi, non cessarono. O meglio cessarono nel momento stesso in cui un gravissimo evento di politica estera metteva in pericolo l’esistenza stessa della monarchia e delle conquiste post-unitarie.
Il primo marzo 1896, il corpo di spedizione italiana in Etiopia, guidato dal generale Oreste Baratieri (1841-1901), incappava, sulla strada di Adua, in una massa di etiopi almeno cinque volte superiore alla propria. Fu una battaglia eroica quanto priva di storia. Gli africani, comandati dallo stesso imperatore Menelik II (1844-1913) e dai
ras più feroci e sanguinari, fecero a pezzi le truppe italiane, nonostante l’eroica resistenza. Morirono quasi 3.400 soldati, 2.600 ascari, 260 ufficiali e due generali.
Era il fallimentare risultato della politica di
grandeur coloniale, inaugurata dallo stesso Crispi, indifferente alle obiezioni, che Giolitti, da ministro del Tesoro, aveva più volte rivolto al suo Presidente del Consiglio. Ora però le conseguenze ricadevano sull’intero regno, nel quale i partiti di sinistra rialzavano la testa, minacciando gravissime ritorsioni operaie.
Saggezza avrebbe voluto che, al capezzale del paese ammalato, venisse chiamato il medico di sempre, Giovanni Giolitti, cioè. Il solo che sempre si fosse mostrato estraneo ad avventure d’oltremare, il cui peso non avrebbe potuto che gravare sulle già tartassate classi più umili. Ma, dal momento che assai raramente è la saggezza a guidare le azioni degli uomini e degli stati, a Giolitti venne preferito l’astro in ascesa del momento, quell’Antonio Starabba marchese di Rudinì (1839-1908), la cui politica fortemente autoritaria avrebbe preparato i gravi moti popolari del 1898, ancor più gravemente repressi dalle truppe italiane. Le giornate di Milano, di Parma, di Trieste, con il loro triste seguito di lutti, spinsero il Rudinì alle dimissioni, ma soprattutto armarono la mano dell’anarchico Gaetano Bresci (1869-1901), che solo un anno più tardi, avrebbe posto fine alla vita del sovrano.
Con la morte di Umberto I, il re buono, pianto dai grandi poeti del tempo, Giovanni Pascoli (1855-1912) e Giosuè Carducci (1835-1907), inizia non soltanto un nuovo secolo — il
«secolo breve», il Novecento, l’età delle ideologia sanguinarie — ma anche una nuova epoca della storia d’Italia. Superata ormai la fase post-unitaria, la Penisola, fedele alla alleanza con quelli che, a quel tempo, erano chiamati «gli imperi centrali», affronta un lungo periodo di sviluppo. Certo, non uno sviluppo indolore, dal momento che i profondi contrasti sociali indeboliscono la struttura dello Stato, ma l’amministrazione giolittiana provvede ad incanalarli verso la legalità e l’ordine.
Intanto la figura di Vittorio Emanuele III si impone, nel clima di desolazione e di smarrimento, che segue all’omicidio del padre, come quella del custode dello Statuto. La massima che regola il comportamento del nuovo sovrano, pur nel rispetto delle libertà democratiche, è, non a caso, un
«chi ha rotto, deve pagare», che la dice lunga sulla volontà del monarca di porre freno a ogni manifestazione di piazza, che nasconda fini eversivi. Sì, dunque, agli scioperi legittimi, alle agitazioni portate avanti in nome di miglioramenti salariali. No, invece, al tentativo di servirsi della piazza per assestare la spallata decisiva all’ordine democratico e borghese.
In questa direzione, il nuovo governo Giolitti, che ottiene la fiducia del Parlamento il 3 novembre 1903, si muove con grande risolutezza, grazie anche all’opera dei prefetti. Questi autentici termometri, con cui l’esecutivo è in grado di misurare la temperatura sociale, anche nelle fasi più turbolente della vita politica. Intanto, per togliere di mano ai massimalisti l’arma dello sciopero generale, vengono accelerate le riforme sociali più urgenti. Lo Stato deve — secondo l’opinione dell’uomo politico piemontese —
«[...]
farsi garante per tutti della libertà nella legge» (p. 297).
Una di queste libertà, anzi, forse la più importante, è quella dell’insegnamento. In particolare, dell’insegnamento della religione cattolica. Nel corso del 1908, l’Italia fu attraversata da due diverse e contrarie correnti di pensiero. Da una parte, le forze anti-clericali e massoniche, guidate da Leonida Bissolati (1857-1920), rivendicavano la laicità della scuola statale e dunque la cancellazione dai
curricula scolastici dell’insegnamento della religione cattolica; dall’altra, Pio X (1835-1914) nel decreto
Lamentabili del 3 luglio 1907 e poi nell’enciclica
Pascendi dell’8 settembre dello stesso anno prendeva posizione non soltanto contro il modernismo, ma anche contro il laicismo assoluto, che voleva privare il popolo italiano di ogni riferimento al trascendente.
Giolitti, in questa circostanza, come in ogni altra, del resto, fece appello al buon senso ma, soprattutto, a quella libertà che avrebbe dovuto, a suo parere, essere la strada maestra della nuova Italia. Scriveva, perciò, a questo proposito:
«I sistemi non possono essere che tre: o proibire l’insegnamento religioso od imporlo, come qualcuno ha pensato, o lasciare la libertà di dare tale insegnamento a coloro che lo domandano. Noi crediamo che l’ampia via della libertà sia quella che corrisponde ai sentimenti dell’immensa maggioranza degli italiani, e che più sicuramente conduce al vero progresso ed alla prosperità del nostro paese»(p. 307).
Per cui, ancora una volta, Giolitti fu accanto ai cattolici, anche se mosso non da motivazioni confessionali ma da quell’amore per la libertà, che lo avrebbe spinto, nel 1913, a firmare un accordo segreto con Vincenzo Ottorino Gentiloni (1865-1916), presidente dell’Unione Elettorale Cattolica Italiana (UECI), allo scopo di far convergere il voto dei credenti su quei candidati che avessero accettato di portare avanti un programma concordato. Contribuendo così — diremmo oggi — a «sdoganare»l’imponente forza elettorale delle parrocchie, che per troppo tempo il
Non expedit di Pio IX (1846-1878) aveva tenuto lontano dalla gestione della cosa comune.
Ma se Giolitti, da buon moderato, rifuggiva dagli estremismi, sarebbe stato assai azzardato fare di lui un precursore di quel pacifismo ideologico, nutrito di utopiche velleità terzo-mondistiche, di cui vanno riempiendosi la bocca le sinistre di oggi. In lui, invece, era presente il sano realismo di un fedele servitore del proprio Paese, sempre pronto, quando ne era il caso, a intervenire anche con le armi sulla scena politica internazionale, quando ne valesse davvero la pena.
E in quel settembre 1911, quando Giolitti e Antonino di San Giuliano, marchese di Paternò-Castello (1853-1914) e ministro degli Esteri in carica, passeggiavano serenamente lungo i viali delle terme di Fiuggi (Frosinone), pochi avrebbero pensato che proprio allora ne valesse la pena. E invece la guerra, la prima guerra italiana del Novecento, stava già bussando alle porte della Penisola e si sarebbe trattato di una guerra crudele e sanguinosa. Anticipo, per quanto in formato ridotto, della terribile bufera che di lì a poco avrebbe investito anche il nostro paese.
La Libia era la posta in gioco, ma non si trattava soltanto della Libia. Nel gioco, infatti, rientrava tutto lo scacchiere del Mediterraneo orientale, dove due imperi, quello turco e quello asburgico, minacciavano di dare esca ad un incendio molto più grande. Esisteva, dunque, la possibilità che la spedizione italiana avesse successo, ma vi era anche la probabilità che questo successo spingesse i popoli balcanici ad una sollevazione contro il regime centralistico dei Giovani Turchi, il movimento riformatore che nel 1908 si era impadronito dell’Impero Ottomano.
Le cose, invece, presero un andamento, tutto sommato, rassicurante. Il 4 novembre di quello stesso anno, Giolitti ordinò lo sbarco dei nostri contingenti a Tripoli e in due settimane gli italiani si attestarono anche a Homs, Derna, Bengasi e Tobruk. Nella guerra, comunque — come osserva giustamente Mola — facile è entrarvi, assai meno facile uscirne (p. 337). La resistenza dei turchi fu assai meno morbida di quanto si era creduto, ma la supremazia dell’esercito e della marina italiani alla fine fece inclinare i piatti della bilancia in proprio favore. Il 5 novembre 1912, Vittorio Emanuele III firmava il decreto che poneva Tripolitania e Cirenaica
«sotto la sovranità piena e intera del regno d’Italia». La Penisola poteva vantare una «quarta sponda»al di là del mare che i romani avevano chiamato
nostrum e l’avvenimento dava ali alla penna di Gabriele D’Annunzio (1863-1938), che l’avrebbe celebrata nei
Canti d’oltremare.
Era un successo personale di Giolitti che, poco dopo, questo stesso successo avrebbe ulteriormente incrementato con le prime elezioni a suffragio universale maschile, quelle a cui già abbiamo fatto cenno e che determinarono la schiacciante vittoria dei moderati. Una maggioranza comunque silenziosa, anzi, troppo silenziosa se contrapposta alla minoranza urlante e gesticolante di futuristi e nazionalisti, molti dei quali sostenuti segretamente dalle logge massoniche, che avevano fiutato nella grande guerra che si profilava all’orizzonte un affare di dimensioni colossali.
Accadde così che il buon senso — ovvero Giolitti e coloro che stavano dalla sua parte — venisse mandato in esilio e che le principali piazze d’Italia — da Genova a Roma — venissero occupate dalle milizie del «vate» Gabriele D’Annunzio che, con la sua oratoria «immaginifica» per poco non spinse i più facinorosi fra i suoi seguaci ad aggredire fisicamente lo statista piemontese. Un provvidenziale cordone di carabinieri lo salvò da un autentico linciaggio, ma da quel momento la voce del buon senso cessò di levarsi in favore di una neutralità, che avrebbe risparmiato al nostro paese oltre seicentomila morti.
Nel corso del primo conflitto mondiale, quello che per l’Italia iniziò nel 1915 e si concluse nel 1918, Giovanni Giolitti si limitò ad assistere agli eventi da Cavour, il borgo pedemontano dove da sempre egli trascorreva con la moglie e i figli le proprie vacanze. Il paese, scosso non soltanto dal vento della guerra ma anche da quello della rivoluzione — «lo spostamento d’aria» degli eventi russi non poté non avere ripercussioni anche sul fronte italiano —, scivolava intanto nelle mani di «avventurieri della politica», come Antonio Salandra (1853-1931) e Sidney Sonnino (1847-1922), che, al termine del conflitto, sarebbero poi stati i garanti della cosiddetta «vittoria mutilata».
Molti purtroppo non comprendevano che la Grande Guerra aveva non certo posto fine, ma piuttosto dato inizio a una lunga serie di sconvolgimenti sociali, che avrebbero profondamente alterato anche il nostro scenario interno, a partire proprio dalla consistenza e collocazione dei partiti politici. Giolitti, in quell’occasione, difettò di lungimiranza. Egli sottovalutò infatti la portata del sistema proporzionale, voluto dai partiti di massa, nelle elezioni politiche del 1919. Lo scenario parlamentare ne risultò completamente sconvolto. Come scrive Aldo A. Mola,
«la proporzionale assicurò seggi anche ai partiti marginali e a liste d’interessi settoriali […]
o locali. Al tempo stesso rese impossibile una vasta e stabile maggioranza di governo» (p. 398).
Fu l’inizio del progressivo sgretolamento dell’Italia post-unitaria, tollerante e liberale, cattolica ma non confessionale, che presto avrebbe ceduto il posto alla violenza, prima socialcomunista e poi fascista. E Giolitti? Gli ultimi anni dell’anziano uomo di stato trascorsero fra Cavour e Roma, luoghi che gli erano divenuti ormai estranei. Il primo da quando Dio lo aveva privato dell’amata consorte, l’altro dal momento in cui la libertà, in nome della quale aveva sempre lottato, si era spenta.
Alessandro Massobrio