Fino a poco tempo fa il mondo della storiografia accademica milanese era illustrato da due figure eminenti di studiosi: Cesare Mozzarelli (1947-2004) e Giorgio Rumi (1928-2006).
Sono scomparsi tutti e due a poca distanza di tempo — ricordo Rumi ai funerali di Mozzarelli nella basilica milanese di Sant’Ambrogio, parrocchia di entrambi — lasciando un vuoto difficilmente colmabile. Entrambi esplicitamente cattolici — Rumi uno dei pochi ordinari di storia contemporanea dichiaratamente "bianco" e, cosa infrequente, non omologato al gruppo di potere culturale "cattolico democratico" —, hanno formato generazioni di studenti e un nutrito numero di giovani storici, tuttavia essi esercitavano una influenza sul mondo della cultura storica italiana e anche sulla cultura dei cattolici in generale che andava ben al di là della rispettiva attività di cattedratici, rispettivamente all’Università Cattolica e all’Università statale della capitale lombarda.
Mozzarelli, modernista di estrazione storico-giuridica, allievo di Ugo Nicolini (1910-1984), si può considerare il caposcuola di quella corrente interpretativa che legge l’età moderna in chiave di continuità con l’esperienza medievale, salvaguardando soprattutto l’anima cattolica che residua nella modernità come essa si attua nella civiltà italiana e occidentale. Storico di grande prestigio, non ebbe sempre il gradimento dell’establishment accademico, ma dimostrò costantemente di saperne far a meno.
Rumi contemporaneista "puro" era noto soprattutto per gli studi sul movimento cattolico e per aver rivalutato il ruolo del cattolicesimo e della Chiesa nella genesi dell’Italia contemporanea, soprattutto attraverso il contributo critico dei cattolici al Risorgimento, che considerava, come ricorda Enrico Decleva, storico e attuale rettore dell’ateneo statale milanese, nella sua introduzione all’opera che recensisco, "come la mutazione più importante intervenuta nella penisola dalla caduta dell’Impero romano" (p. 17) (1). Ordinario precoce e di "lungo corso", Rumi con la sua autorevolezza — e, diciamolo, anche con la sua abilità — si era ricavato un ruolo super partes nel quadro delle varie tendenze culturali del cattolicesimo italiano. Era così diventato per il mondo mediatico l’esponente più emblematico di esso, almeno per quanto riguardava la sua storia, e in un certo senso anche il portavoce — se non il difensore d’ufficio nel tribunale di Clio — della Chiesa italiana, quando non di rado occorreva togliere dal fuoco — e accadeva — "castagne" storiche e non solo storiche più o meno incandescenti.
Ben radicato nella cultura della sua regione — era nato a Dongo, sul lago di Como —, intrisa di buon senso prealpino e di cattolicesimo ambrosiano-borromaico, Rumi ha sempre difeso con fierezza e con fine argomentazione, frutto di un senso storico acutissimo, le ragioni dei cattolici italiani contro le varie vulgatae che si venivano configurando. Non solo: egli non si è mai appiattito su alcuna delle linee che attraversavano il mondo della cultura cattolica là dove esso confinava con la politica: non era culturalmente democristiano, e neppure religiosamente progressista.
Di tendenze conservatrici in privato, amava definirsi, più che "storico cattolico", come il mondo lo vedeva, un "cattolico liberale" attivo in campo storico. Il suo liberalismo non coincideva però con una sua appartenenza a quella che è tutto sommato una ideologia, l’ideologia della libertà, bensì, era omaggio a quell’atteggiamento pragmatico e tollerante, che caratterizzava il cristianesimo ambrosiano, nel quale si riconosceva.
In questo spirito era stato negli anni Novanta del secolo scorso fra i promotori — il "garante" cattolico — di quell’operazione culturale, ora assai stravolta, che era stata la rivista liberal, un primo e precoce luogo d’incontro — nelle intenzioni dei fondatori — fra cultura liberale "laica" e cattolicesimo non progressista. A differenza di Mozzarelli, Rumi incontrò sostanzialmente — o seppe guadagnarsi — il gradimento, o comunque la non ostilità, di "quelli che contano" a Milano. Decleva riferisce di una sua buona amicizia, stabilita nel cuore degli anni della prima contestazione studentesca, con Raffaele Mattioli (1895-1973), uomo decisivo per più di una carriera in ambito culturale e politico.
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Tre sono state le principali aree problematiche che il percorso intellettuale del Rumi ricercatore e saggista — non posso in questa sede soffermarmi sul Rumi brillante docente e affascinante conversatore e conferenziere — ha attraversato.
I suoi primi studi hanno per oggetto il periodo fascista, nel corso dei quali s’imbatte nel problema del rapporto fra il regime e il mondo cattolico e la gerarchia italiani. Nasce allora l’interesse — e la passione — di mettere meglio a fuoco le vicende del cattolicesimo in età contemporanea, un interesse che lo porta a produrre studi corposi, rimasti pietre miliari della storia del cristianesimo italiano. Infine, l’ultima, forse più ricca stagione, in cui egli riduce, senza amputarla, l’ampiezza dei soggetti cui si dedica alla Lombardia nella storia. In particolare egli studierà le vicende, il ruolo, il profilo della classe dirigente lombarda di fronte alla Rivoluzione francese — ricordo il bellissimo saggio, la cui lettura rappresentò per il sottoscritto un autentico piacere intellettuale e letterario, Scaccato d’oro e di nero. I fratelli Litta Visconti Arese negli anni della Rivoluzione e dell’Impero, che apparve in I cannoni al Sempione. Milano e la "Grande Nation" (2) — e alle nuove sfide dei secoli XIX e XX. Vicenda senz’altro circoscritta, però cruciale, per capire i nodi che l’unificazione ha lasciato dietro di sé, non ultimo quella "questione settentrionale", intrisa di federalismo mancato e di opzione "romana" che affligge il nuovo Stato.
Qualche mese fa, di Giorgio Rumi sono usciti due grossi volumi di scritti, curati dai due dei suoi allievi, Edoardo Bressan e Daniela Saresella. Di orientamenti culturali non del tutto coincidenti fra loro, ma senz’altro i discepoli che forse furono più vicini al maestro, quanto meno nella sua vicenda umana e scientifica, la raccolta di scritti da loro curata rende bene la molteplicità degl’interessi storiografici di Rumi. Non si tratta ovviamente di tutti i suoi lavori, ma una selezione in ordine tematico-cronologico dei testi, per lo più usciti su riviste e su volumi collettanei — ergo meno facilmente attingibili —, che sono i più significativi per illuminare l’uomo e il suo pensiero storico.
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Il primo dei due volumi si apre con la bibliografia completa degli scritti di Rumi che si estende dall’articolo pubblicato su Mussolini e il "Programma" di San Sepolcro, apparso sul periodico del Movimento di Liberazione in Italia nel 1963 — e che viene riproposto come primo del volume — fino all’introduzione agli atti del convegno su La formazione del primo Stato italiano e Milano capitale. 1802-1814 uscito, lui vivente, nel 2006. Dopo la morte, di Rumi usciranno una raccolta dei suoi scritti d’impegno civile apparsi sulla rivista liberal e intitolati Oltre Porta Pia (3); e un saggio su L’Istituto Lombardo nell’Italia liberale (1860-1900), uscito in un volume collettaneo nel 2007 (4).
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La selezione curata dai due accademici milanesi si compone di 73 testi ripartiti in sei sezioni tematiche.
La prima, Fascismo e politica estera (pp. 51-164), si apre con una indagine (cfr. Mussolini e il "Programma" di San Sepolcro, pp. 51-74) relativa al programma sansepolcrista stilato da Benito Mussolini (1883-1945), di cui Rumi mette in evidenza il carattere tutt’altro che reazionario e il suo innesto pressoché perfetto in una serie d’istanze della società italiana, che l’avrebbero condotto di lì a poco al successo. Attraverso l’analisi della stampa fascista della prima ora, Rumi descrive le linee di politica estera apparentemente dissimili da quelle tradizionali della monarchia liberale che il movimento coltivava e che sarebbero poco dopo diventate le linee della politica estera italiana. Il tema del ruolo internazionale per l’Italia concepito da Mussolini e dai gerarchi continua nel saggio successivo (cfr. Il "Fascismo delle origini" e i problemi di politica estera, pp. 75-100), dove Rumi mette in luce la dialettica mai sopita fra le due linee, quella liberale classica e quella nazionalfascista. Un’ulteriore tessera per ricomporre il mosaico che ritrae la politica del Ventennio è una rassegna della storiografia italiana e straniera (cfr. "Revisionismo" fascista ed espansione coloniale (1925-1935, pp. 101-136) in materia: Flora, Barbagallo, Sforza, Borgese, Salvatorelli, Quaroni, Guariglia, Donosti, Cantalupo, Grandi, Alfieri, Vedovato, Di Nolfo, Toscano, D’Amoja, Carocci, Moscati, Vaussard, Renouvin, Taylor, Stuart Hughes, formano il nutrito coro di voci che Rumi passa in rassegna critica.
La seconda parte del volume, I cattolici tra fascismo e democrazia, pp. 165-288, vede in apertura un’analisi (cfr. La Democrazia cristiana e l’autonomia regionale. 1943-1947, pp. 165-192) del principio del decentramento dello Stato nella politica della Dc nel dopo-fascismo e nel primo dopoguerra, in cui si evidenzia la dialettica interna fra centralismo e autonomie locali che si sviluppa nel partito degasperiano e che vedrà il secondo prevalere nel 1970 con l’istituzione delle regioni. Molto attento al ruolo delle élite, Rumi dedica il secondo breve saggio di questa seconda sezione (cfr. Il problema della cultura cattolica XX). Storia istituzionale, Istituto Lombardo Accademia di Scienze e lettere-Libri Scheiwiller, Milano 2007, pp. 495-553.italiana nel ’900 , pp. 193-202) all’esame delle linee portanti della cultura del cattolicesimo italiano nel secolo XX: nel comune progetto di rianimazione della nazione in senso cattolico si delineano vari progetti: da quello di padre Agostino Gemelli (1878-1959) e del gruppo di apostoli del sociale e d’intellettuali democratico-cristiani della Cattolica a quello dossettiano-lapiriano; da quello tessuto dai tre pontefici lombardi, Achille Ratti, Pio XI (1857; 1922-1939), Angelo Roncalli, Giovanni XXIII (1881; 1958-1963) e Giovanni Battista Montini, Paolo VI (1897; 1963-1978) a quello pacelliano. L’analisi prosegue con l’inquadramento (cfr. Lavoro e cultura cattolica nel declino dell’età liberale (1914-1924), pp. 203-220) del problema della dottrina cattolica del lavoro, soprattutto industriale, come si configura negli anni del primo dopoguerra fino all’affermazione finale del corporativismo fascista. Come si forma negli anni fra le due guerre mondiali quella classe politica cattolica che emerge alla caduta del fascismo? Ai vari progetti — alcuni già segnalati nel lavoro precedente — che si affiancano e non di rado confliggono Rumi dedica la sua indagine e riflessione nell’immediato prosieguo.
I rapporti tra il fascismo-regime e il robusto mondo cattolico allora fiorente a Milano vengono illuminati nel testo che segue (cfr. I cattolici italiani fra le due guerre. Problemi e prospettive di ricerca, pp. 221-230), proiettando il problema sugli anni del dopoguerra. Il federale e il santo arcivescovo benedettino Ildefonso Schuster (1880-1954) coltivano due prospettive solo apparentemente coincidenti: al primo interessa scalzare l’egemonia cattolica sul popolo, che impedisce la piena "nazionalizzazione" di quest’ultimo; all’arcivescovo, garantire la lealtà allo Stato, anche quando chiede tanto alla gente e ai cattolici, ma mantenere l’influenza sulle masse cattoliche e sui lavoratori, sia per preservarle dalle false dottrine che il fascismo, insieme a cose buone, veicolava e per pensare un domani a un’Italia senza fascismo. Così avverrà che, caduto Mussolini, la Chiesa ambrosiana possa proseguire il suo cammino con immutato prestigio (cfr. Una seconda Roma al Nord? La Chiesa ambrosiana tra fascismo e democrazia, pp. 231-242). Quali fossero il disegno e lo stile di governo della Chiesa milanese che animavano Schuster — cioè, dirigere la Milano cattolica come un’"ordinata abbazia" (cfr. L’ordinata abbazia, pp. 243-260) alla luce del motto "ora et labora", preghiera e azione — e quali i suoi pregi, ma anche i suoi limiti, e le reazioni che suscita negli ambienti già progressisti Rumi lo narra nell’articolo n. 10. Un passo indietro in questa problematica relativa alle vicende del cattolicesimo ambrosiano nella prima metà del Novecento è il saggio che segue, in cui Rumi cerca di riannodare i fili di un rapporto non sempre lineare, come dimostrerà la crisi del 1931, solo due anni dopo la Conciliazione, quando governo fascista e Azione Cattolica si confronteranno sul problema della guida nella formazione della gioventù e quando i militanti cattolici e le squadre mussoliniane si confronteranno duramente di fronte alle chiese della "capitale morale" (cfr. Alla ricerca del Regno. Il cattolicesimo ambrosiano nel periodo fascista, pp. 261-276). In questi anni la scena della città ambrosiana è dominata dall’ascetica figura del cardinale benedettino, alla cui opera magisteriale e di governo Rumi dedica un acuto profilo (cfr. Schuster e Milano, pp. 277-288) che chiude la sezione.
La nuova sezione, la terza, dedicata a …le pays le plus ingouvernable du Monde, pp. 289-484, si apre con l’analisi (cfr. L’opinione pubblica milanese e il brigantaggio, pp. 289-306) del dibattito che si svolge sulle colonne della stampa milanese a ridosso dell’incorporazione di Milano nella monarchia sarda (1859) e della conquista garibaldina del Regno di Napoli su un tema, solo apparentemente lontano e di secondo piano per i lombardi, della guerriglia legittimistica e sociale, allora definito "brigantaggio", che affligge il Mezzogiorno appena incorporato nella nuova creatura politica unitaria. Diverse sono le letture fra corrispondenti dal Sud e commentatori mazziniani, liberali e cattolici: soprattutto, sullo sfondo, si staglia il grande quesito sulla forma assunta dall’unità politica della nazione.
La riflessione sul ruolo della Lombardia nell’Italia unita e nel concerto europeo è affrontato subito dopo (cfr. Tra particolarismo e Stato nazionale: il caso della Lombardia (1859-1861), pp. 307-324) con un’ottica innovativa, cioè addentrandosi in un’analisi di tipo comparativo sul ruolo e sul futuro delle subnazionalità con profilo geopolitico ben pronunciato — come il Galles, la Scozia, la Catalogna, la Baviera — all’interno degli organismi politici-territoriali più ampi che la storia è venuta a creare un po’ dappertutto in Europa. Protagonista dell’Unità seconda solo al Piemonte, la terra fra il Ticino e l’Adda s’integrerà tutto sommato bene, ma devierà le sue istanze di autodeterminazione, deluse dall’appiattimento centralizzatore della monarchia italiana, verso campi dove la prossimità a zone ad alta intensità economica come la Svizzera, la Francia, la Liguria avranno possibilità migliori di sbocco per l’originalità e per il pragmatismo dei lombardi. Così pure lo stesso cattolicesimo lombardo, dove allora, all’inizio del secolo XX prevale la corrente "intransigente" e conservatrice, si aprirà una pista di crescita propria e specifica e parteciperà con caratteri propri alla costruzione della nazione, alla conquista dell’impero coloniale, del movimento cattolico e del cattolicesimo politico (cfr. La "Ragionevole libertà": una tradizione intransigente lombarda nell’età giolittiana, pp. 325-342).
Non poteva mancare in questo filo conduttore sulla Lombardia una riflessione sul grande Alessandro Manzoni (1785-1873) (cfr. Manzoni: il grande lombardo e la politica, pp. 343-350), ovviamente non di carattere letterario bensì lato sensu politico, tanto nella filigrana di giudizi sul suo tempo che traspare dalla vicenda dei promessi sposi, al tentato compromesso fra cattolicesimo e liberalismo che caratterizzò il nobile milanese, fino alla sua appartenenza al parlamento italiano alla sera della sua vita.
Alla riconfigurazione della classe dirigente milanese dopo l’Unità è dedicato il saggio che segue, dove Rumi ripercorre le linee di riconversione dal ruolo di classe dirigente "statale" o sub-statale del patriziato e dell’alta borghesia milanesi mantenuto fino a che è esistito il Regno Lombardo-Veneto e la condizione nuova, ben più spoglia di oneri e di onori dell’Italia unita. In particolare, Rumi indaga (cfr. Ordine e libertà. Gli eredi di Cavour, pp. 351-370) sul seguito che gli unitari filo-cavouriani hanno mantenuto nei salotti della ex capitale e sulle tendenze e le mete — migrare a Roma? Darsi all’industria? Alle opere di carità? — che animano i ceti dirigenti lombardi "laici" e cattolici in cerca di nuove vie di sviluppo e di affermazione in un contesto profondamente mutato. La crisi Bava Beccaris del 1898 segnerà il punto più basso per la capitale ambrosiana.
La via della carità sarà scelta da molti, sulla scia di quel gran cristiano e mecenate che fu il conte Giacomo Mellerio (1777-1847). I cattolici (cfr. Il governo della carità, pp. 371-378) saranno in prima fila in questo sforzo di irrobustimento della struttura della beneficenza, ma esso sarà oggetto anche di altri promotori "laici": sanatori, alberghi dei poveri, "cucine economiche", monti di pietà, ecc. saranno eretti a cura delle autorità municipali e anche dei primi gruppi socialisteggianti.
Il cattolicesimo milanese, pur nella condizione di minorità politica in cui versa l’antica capitale dell’Italia asburgica, si segnalerà (cfr. Cattolici, "i migliori fra i cittadini", pp. 379-392) a livello nazionale per figure eminenti di politici e di intellettuali, a cominciare da Tommaso Gallarati Scotti (1878-1966), da don Davide Albertario (1846-1902), da Filippo Meda (1869-1939), da Francesco Olgiati (1886-1962), dal cardinal Andrea Carlo Ferrari (1850-1921), da Achille Ratti.
Ancora sulla centralità della collocazione geopolitica della capitale lombarda rispetto ai grandi centri nevralgici del Vecchio Continente torna la penna di Rumi nel breve saggio che segue (cfr. Milano e l’Europa, pp. 393-400). La Corona di Ferro degli antichi re longobardi d’Italia e le sue vicende fra Asburgo, Napoleone Bonaparte (1769-1821) e i Savoia — che i curatori hanno a ragione inserito dopo il lavoro precedente — rappresenta un po’ l’emblema di questa centralità (cfr. La Corona di ferro, pp. 401-420).
Ancora lo status di Milano nei diversi contesti storico-politici in cui si è trovato immerso il vecchio ducato sforzesco è l’argomento degli ultimi saggi (cfr. Milano a fine secolo: speranze e contraddizioni della "capitale morale", pp. 415-420; Lombardia, libertà o dominanza?, pp. 421-432; Milano e la scelta sabauda. Spunti da una rilettura di fonti albertiste, pp. 433-444; L’Ottocento milanese: ruolo e destino di una città, pp. 445-460; Il Novecento a Milano, pp. 461-470; e Quello straccio di porpora, pp. 471-482) che compongono la sezione. Dopo il travagliato esito del processo di unificazione cui ha partecipato con entusiasmo, anche se non con obiettivi del tutto simili da parte di tutti, alla fine del secolo XIX Milano è rutilante di luci e commerci, d’idee e d’iniziative ma anche attraversata da crisi profonde e da spinte divergenti e conflittuali in cerca di un definitivo equilibrio.
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Il secondo volume dell’opera raccoglie saggi il cui filo conduttore sono sempre e di nuovo i temi cari a Rumi: il cattolicesimo, Milano, la Chiesa e i papi.
La quarta parte, che lo apre, è significativamente intitolata Contro don Abbondio, pp. 485-600, e ha come tema il clero lombardo.
Al rapporto bidirezionale fra cattolicesimo ambrosiano e cattolicesimo romano e italiano è dedicato il saggio di apertura (cfr. Il magistero e il moderno. Tre encicliche sociali: 1891, 1931, 1987, pp. 485-498), che si sofferma sull’impatto avuto fra i cristiani lombardi da tre famose encicliche sociali dei papi: la Rerum novarum di Leone XIII (1810; 1878-1903) del 1891, la Quadragesimo anno di Pio XI del 1931 e la Sollicitudo rei socialis di Giovanni Paolo II (1920; 1978-2005) del 1987. L’abbondante magistero proposto dai papi e dagli arcivescovi milanesi al mondo del lavoro e dell’impresa nei cent’anni che seguono la Rerum novarum e la loro recezione da parte dei lombardi è il tema del secondo saggio (cfr. L’umana intrapresa. Cento anni di insegnamento del magistero cattolico, pp. 499-510). Karl Kajetan von Gaisruck (1769-1846), Paolo Angelo Ballerini (1814-1897), Andrea Carlo Ferrari, Eugenio Tosi (1864-1929), Ildefonso Schuster, Giovanni Battista Montini, Giovanni Umberto Colombo (1902-1992), Carlo Maria Martini sono i nomi dei grandi presuli che la Provvidenza pone sulla cattedra di sant’Ambrogio e di san Carlo: di ciascuno di essi, delle singole e diverse linee e stili pastorali, Rumi offre una panoramica nel terzo saggio Una cattedra tra Milano e Roma, pp. 511-532). Elevando un po’ di più lo sguardo alla Chiesa universale Rumi è colpito, e lo racconta, delle differenze di magistero fra Pio XII (1876; 1939-1958), Giovanni XXIII e Paolo VI — senza trascurare altre alte voci del cattolicesimo italiano quali i cardinali Schuster, Giuseppe Siri (1906-1989), Ernesto Ruffini (1888-1967), Elia Dalla Costa (1872-1961) — in ordine alla medesima realtà che si trovano davanti agli occhi, ovvero la nascita e l’ascesa della società di massa (cfr. Chiesa, cultura e società di massa. Appunti da Pacelli a Montini, pp. 533-556). Rumi è altresì interessato alla figura, per molti versi enigmatica, di Giovanni Battista Montini, del quale sbozza (cfr. Giovanni Battista Montini cittadino, pp. 557-566) un breve profilo incentrato sulle idee "politiche" che lo connotano da laico e delle opzioni sociali e delle azioni laicali da lui promosse e favorite nella Chiesa italiana negli anni sacerdotali, episcopali e pontificali. Sulla figura del sacerdote ambrosiano e borromaico, ricco di spiritualità ma impegnato ardentemente nel popolo, una figura quindi ben distante dalla didascalica parodia di sacerdote lombardo disegnata dalla penna di Alessandro Manzoni nel suo romanzo-principe, che vede scandita da grandi figure come quella, di cui si sofferma a illustrare le origini e le gesta, don Carlo Gnocchi (1902-1956) — cui dedicherà un intero volume, scritto insieme a Edoardo Bressan (5) —, Rumi riflette nel saggio che segue (cfr. Contro don Abbondio, pp. 567-580). La storia del cattolicesimo milanese autorizza a parlare di un "modello ambrosiano" (cfr. Il modello ambrosiano, pp. 581-588) di rapporti fra Chiesa e società, segnato da una propensione per la spiritualità, per il retto impegno del laicato nella ricerca del profitto, per le opere di carità, e da una fedeltà indefessa alla verità della fede e della morale. Tale modello renderà minimo l’impatto della impetuosa ondata del dissenso cattolico che maturerà nei fraintendimenti e nelle spinte eterodosse degli anni del post Concilio e che colpirà più duramente altre chiese italiane.
Quando da Roma Giovanni Paolo II, nel gennaio del 1994, eleverà al cielo la "grande preghiera per il popolo italiano", Rumi vi vedrà (cfr. Questione meridionale e questione settentrionale nella riflessione dei vescovi italiani, pp. 589-600) non solo l’occasione per ripercorrere lo status quaestionis della Questione Meridionale, ma anche per parlare di una Questione Settentrionale, cioè dello sbilanciamento nello sviluppo fra le due aree e la consueta penalizzazione del dinamismo del Nord, che la storia ha creato e che la politica ha occultato.
La quinta sezione della raccolta, dal titolo I cattolici, la Santa Sede e la dimensione internazionale, pp. 601-876, porta lo sguardo dello storico contemporaneista su un piano ancor più elevato ed esteso. Rumi si pone in esordio (cfr. Politica estera e internazionalismo cattolico, pp. 601-618) il quesito sul rapporto fra universalismo intrinsecamente proprio del cattolicesimo e linee della politica estera italiana del secondo Novecento, dall’"inutile strage" di Benedetto XV (1854; 1914-1922) fino all’imperialismo fascista e al dopoguerra atlantico. In questo contesto un discorso speciale merita il rapporto che il cattolicesimo italiano ha intrattenuto con il mondo culturale cattolico — cattolico e non — francese, che culmina nel nitido maritainismo di Papa Paolo VI (cfr. Dopo un "triste sogno". Cattolicesimo italiano e riscoperta della Francia nel secondo dopoguerra, pp. 619-642). Sulle vicende e sulle teorie prevalenti nella diplomazia pontificia — per esempio la preferenza per i concordati e la netta critica del nazionalismo e del totalitarismo — nella stagione fra le due guerre mondiali Rumi riflette nel saggio seguente (cfr. La Santa Sede e la politica di potenza, pp. 643-662), cui fa pendant l’altro saggio (cfr. La "Civiltà cattolica" e la Francia negli anni ’30, pp. 663-672) in cui si sofferma su quanto apparso sulle colonne a stampa de La civiltà cattolica in relazione alla Francia in quel periodo. Ancora alla politica estera, questa volta a una rassegna critica delle varie opinioni sull’influsso della Chiesa sulle relazioni internazionali dell’Italia e degli altri Stati presso i più importanti analisti e i critici "di professione" italiani, è dedicato il lavoro che segue (cfr. I cattolici e le relazioni internazionali: verso l’Europa, pp. 673-696). Alla Francia si rivolge per la terza volta l’attenzione di Rumi, allorché prende in esame (cfr. L’opinione democristiana e la Francia: "Il Popolo" (1948-1952), pp. 697-718) come Il Popolo, l’organo del partito democratico-cristiano, descrive la Francia fra il 1948 e il 1952 e in specifico le vicende del partito omologo, l’Mrp (Mouvement Républicain Populaire), sulla via di perdere sempre più peso nelle vicende nazionali fino all’estinzione con la Quinta Repubblica dominata da Charles De Gaulle (1890-1970). Rumi si sofferma anche figure importanti e sulla cresta dell’onda del cattolicesimo francese, come Marc Sangnier (1873-1950), il fondatore del modernismo sociale, Emmanuel Mounier (1905-1950), il filosofo del personalismo, e Jacques Maritain (1882-1973). Il discorso torna sulla diplomazia in generale nel saggio riproposto di seguito (cfr. Diplomatici, eroi da cucina e d’alcova. Appunti su un giudizio cattolico intransigente nel tardo Ottocento, pp. 719-728): qui, prendendo come spunto una serie di articoli del foglio cattolico-intransigente milanese Osservatore cattolico, degli anni 1870-1887, in cui ci si lamenta per il cinismo che domina le relazioni fra gli Stati e sul degrado dell’ethos personale dei diplomatici, Rumi riflette sull’habitus che deve contraddistinguere il diplomatico vero. Quindi, altro elemento di riflessione (cfr. L’Europa malgrado tutto, pp. 729-741) è l’accoglienza data dalla cultura cattolica — per esempio, La civiltà cattolica, Aggiornamenti sociali, Adesso, L’Osservatore Romano, Mario Bendiscioli (1903-1998) — ai Trattati europei del 1957 — promossi e sottoscritti per l’Italia da uomini politici d’ispirazione cristiana — e di qui sulle modalità di costruzione della futura Europa unificata. Un argomento poi che cattura l’attenzione dello storico è un episodio minore che si verifica nel 1890 in Svizzera, nel Canton Ticino. Rumi descrive (cfr. La "rivoluzione" ticinese del 1890 vista dalla stampa italiana, pp. 741-750) le reazioni che l’evento suscita nell’opinione pubblica italiana e lombarda, in particolare. A questa specie di golpe in miniatura o di rivolta a sfondo socialista, che ha come teatro Bellinzona e che costerà la vita al giovane consigliere di Stato Luigi Rossi (1864-1890) e la deposizione del governo locale, retto dal conservatore Gioacchino Respini (1836-1899) grande attenzione presta don Albertario, il giornalista intransigente dell’Osservatore cattolico, che appoggia senza riserve il governo cantonale contro il quale il moto si è indirizzato. Altra figura di rilievo del cattolicesimo elvetico alla quale Rumi dedica spazio è quella di Giuseppe Motta (1871-1940), al quale dedica (cfr. Giuseppe Motta, un cattolico ticinese nelle cartte del Ministero italiano degli Esteri, pp. 751-760) una raffinata ricerca basata su fondi dell’archivio del ministero degli Esteri italiano e che egli non esita a collocare in quella ricca schiera di politici subalpini come Alcide De Gasperi (1881-1954), Giovanni Giolitti (1842-1928), Emilio Visconti Venosta (1829-1914), caratterizzati, secondo Rumi, da saggezza, ampiezza di vedute, acutezza e gradualismo.
Altro archivio che Rumi compulsa (cfr. Meda e le relazioni internazionali. Spunti e congetture dall’Archivio di famiglia, pp. 761-774) con acribia è quello della famiglia Meda, portando alla luce carte e corrispondenze inedite che illuminano il ruolo di Filippo (1869-1939) in parlamento, come ministro delle Finanze nel corso della guerra mondiale e come commentatore di politica internazionale. Altro angolo della storia che Rumi contribuisce a illuminare (cfr. Contro gli "Ospiti del Quirinale". La nunziatura a Vienna e il sistema delle potenze nell’età leonina, pp. 775-786) è il ruolo che la nunziatura di Vienna svolge nell’età di Leone XIII, cioè l’ultimo quarto del secolo XIX, che si apre con il cruciale congresso di Berlino del 1878 in cui si afferma il sistema bismarckiano. La Corona asburgica è l’ultimo Stato ufficialmente cattolico d’Europa, ma l’Austria-Ungheria è anche alleata dell’Italia nella Triplice Alleanza e non è esente da presenze e spinte in senso laicistico. Per cui non sempre l’iniziativa diplomatica romana per usare il peso austriaco per temperare le tendenze ostili alla Santa Sede nella Penisola, riesce.
I carteggi di Paolo VI giacenti presso l’Istituto omonimo di Brescia, che Rumi consulta alla fine degli anni 1980, consentono di ricostruire il profilo (cfr. Montini diplomatico. Prospettive di ricerca dai carteggi conservati presso l’Istituto Paolo VI di Brescia, pp. 787-804) di Giovanni Battista Montini negli anni in cui, pur senza muoversi mai dall’Italia, si occupò di questioni della diplomazia, dagli esordi come minutante presso la Segreteria di Stato fino all’importante carica di pro-segretario agli Affari Straordinari. In questo ambito il tema che forse appassiona di più Rumi è la politica pacificatrice di Papa Benedetto XV, cui dedicherà un intero volume. Il saggio raccolto nel volume curato da Bressan e Saresella (cfr. Benedetto XV e i Quattordici Punti di Wilson, pp. 805-816) ha come tema l’analisi della recezione, tutt’altro che passiva, da parte della Santa Sede dei famosi quattordici presupposti per la ricostruzione dell’Europa post-bellica che il presidente americano Thomas Woodrow Wilson (1856-1924) rende noti poco prima dell’epilogo del primo conflitto mondiale, in cui in più di un punto riecheggia l’appello del Papa ai belligeranti reso noto nel corso del 1917, l’anno in cui l’"inutile strage" raggiunge il parossismo quantitativo e d’inanità. Ma Papa Benedetto XV non sarà il solo a tentare di ridare un plafond cristiano o quantomeno umanistico alla diplomazia del suo tempo (cfr. Il papato contemporaneo e l’Europa. L’insegnamento pontificio per l’unità politico-sociale del continente, pp. 817-826): Pio XII interverrà più e più volte nel suo ricco magistero — encicliche, radiomessaggi, lettere, discorsi — sulla retta struttura dell’ordine internazionale e sui doveri degli Stati di attuarlo. E sulla sua linea si situeranno Giovanni XXIII, poi Paolo VI — del quale Rumi offre una amplissima e inedita selezione ragionata d’insegnamenti — e, con prospettiva non più italiana ma centro-europea Papa Giovanni Paolo II.
La quinta e densa parte si chiude con alcuni saggi brevi che si rivolgono ad aspetti specifici ancora relativi alle relazioni esterne della Chiesa di Roma: la strategia di diffusione all’estero dell’enciclica sociale di Leone XIII Rerum novarum attraverso la rete delle nunziature apostoliche (cfr. La Rerum novarum nella corrispondenza dei nunzi, pp. 827-834); la vicenda di Maritain, ambasciatore della Francia presso la Santa Sede (cfr. Maritain ambasciatore presso la Santa Sede e i suoi rapporti con il sostituto G. B. Montini. Spunti e congetture, pp. 835-844); una concisa sintesi delle varie stagioni della diplomazia vaticana dopo Porta Pia (cfr. La diplomazia vaticana: un’esperienza tutta particolare, pp. 845-852); la visione alquanto critica degli Stati Uniti che contrassegna le analisi e i commenti de La civiltà cattolica nel decennio 1947-1957 (cfr. Un antiamericanismo della "Civiltà cattolica"?, pp. 853-864); e infine la discussione di alcune ipotesi da lui formulate sulle strategie diplomatiche della Santa Sede negli anni leoniani (cfr. Tesi e ipotesi nelle strategie vaticane di fine Ottocento, pp. 865-876).
L’ultima sezione della raccolta, Riflessioni, figure e interventi, pp. 877-978, può cadere sotto la voce "scritti sparsi", alcuni poco più che note, altri veri e propri lavori di un qualche momento.
Essa si apre con la lettura dell’episcopato di san Carlo Borromeo (1538-1584) operata da Giovanni Battista Montini quando assurge alla medesima cattedra del santo di Angera dove siederà per quattordici anni. Che san Carlo sia stato per Montini un modello traspare con estrema chiarezza dal volume, del quale Rumi scrive la presentazione, intitolato appunto Discorsi su san Carlo, pubblicato dalla diocesi ambrosiana anni dopo la morte di Paolo VI, nel 1984 (cfr. Montini e san Carlo, pp. 877-882). Quattro anni dopo Rumi riprende la figura di Montini commemorandolo nel decennale della morte (cfr. Montini, dieci anni dopo, pp. 887-888). Nel 1986 sarà poi per lui quasi un obbligo accennare all’importante convegno diocesano Farsi prossimo che si svolgeva in quei mesi nella diocesi allora retta da Carlo Maria Martini (cfr. Farsi prossimo, tra cronaca e storia, pp. 883-885).
Altro argomento di studio che si colloca nel più ampio contesto dell’attenzione di Rumi per la storia dei gruppi dirigenti è la nobiltà italiana nel suo complesso, sulla quale offre un contributo di valore nel saggio (cfr. La politica nobiliare del Regno d’Italia (1861-1946), pp. 889-904) che riesamina la politica nobiliare del Regno unitario, esercitata attraverso la Consulta Araldica del Regno, dalla fondazione all’esilio di Umberto II (1904-1983).
Nella miscellanea di epilogo compaiono altresì brevi considerazioni sulla storia (cfr. Un senso per la storia, oggi, pp. 905-908, e Perché la storia, pp. 919-920; Storiografia e radici dell’Europa, pp. 949-956); studi sulla permanenza della memoria della Rivoluzione del 1789 nel secolo XX (cfr. Quel che è vivo e quel che è morto della Rivoluzione francese nel Novecento, pp. 909-918); profili di personaggi remoti e contemporanei, da Francesco Melzi d’Eril (1753-1816) (cfr. Francesco Melzi d’Eril, pp. 973-976) a Franco Arese (1918-1994), direttore della benemerita Società Storica Lombarda (cfr. Franco Arese, pp. 921-922), monsignor Angelo Majo (1926-2003) (cfr. Angelo Majo, pp. 963-964), la famiglia Casnedi di Nesso (cfr. Ricerche sui Casnedi, marchesi di Nesso, pp. 927-934), don Primo Mazzolari (1890-1959) (cfr. La "scoperta" del povero. Appunti da una rilettura di "Adesso", pp. 965-972); l’ennesimo ripensamento in chiave geopolitica di luoghi della natia Lombardia (cfr. Como: chiusura e vastità, pp. 923-926); nuovi appunti sull’amata Svizzera (cfr. L’anima di una grande nazione, pp. 935-938); segnalazioni di opere storiche importanti (cfr. Diocesi e fascismo. Una questione storiografica ancora aperta, pp. 939-948); e infine ritorni su momenti importanti della storia lombarda, come le Cinque Giornate di Milano del 1848 (cfr. Le cinque giornate di Milano, pp. 957-962).
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"Esemplare in più sensi per intelligenza, lettura penetrante delle fonti, capacità di arrivare alla sostanza dei nodi interpretativi, efficacia della scrittura" (p. 15): così Enrico Decleva sintetizza le doti che hanno fatto del collega Giorgio Rumi uno dei più brillanti storici degli ultimi decenni. Ecco, il poco di lui che ho avuto modo e privilegio — e tempo — di conoscere e di vivere di persona, mi conferma in pieno questo succinto giudizio.