La collana storica dei
Quaderni del Timone, edita dalla più diffusa rivista di apologetica cattolica italiana e diretta da Gianpaolo Barra, s’impreziosisce con un nuovo fascicolo: lo firma Oscar Sanguinetti (con presentazione di Marco Invernizzi) e ha per tema uno degli argomenti più dimenticati — oltre che "politicamente scorretti" — dalla storiografia risorgimentalista imperante, ovvero le cosiddette "Insorgenze" antigiacobine e antinapoleoniche,
rectius "controrivoluzionarie", che ebbero luogo un po’ ovunque nella Penisola tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX.
Si trattò realmente di un avvenimento di popolo, come non fu invece il processo di unificazione coatta capeggiato da Casa Savoia decenni più tardi: eppure di quello che accadde in quei turbolenti anni che videro morire sul campo almeno centomila italiani — di certo non meno italiani di quelli caduti al seguito dell’ubriacatura ideologica garibaldina o mazziniana — si è persa oggi quasi del tutto la memoria pubblica.
Lo lamenta in apertura d’opera proprio Invernizzi quando scrive che "del ventennio napoleonico, nessuno sa niente. Nei programmi scolastici non viene ricordato, la letteratura non ne parla quasi mai, al contrario capita spesso di ascoltare intellettuali italiani parlare bene di Napoleone come il primo vero modernizzatore dell'Europa, e dunque dell’Italia" (p. 7). All’interno poi del corpo sociale cattolico la situazione non di rado è ancora più sconfortante: il giudizio su Bonaparte (1769-1821) varia infatti sensibilmente da un interlocutore a un altro come se il fatto — ineguagliato nella storia della cristianità — di aver tenuto prigionieri due papi — rispettivamente Pio VI (1775-1799) e Pio VII (1800-1823), quest’ultimo peraltro morto in Francia durante la prigionia — fosse un dato neutrale come un altro, liberamente interpretabile a seconda dei punti di vista.
Contro questa vera e propria deformazione dell’identità italiana più genuina e profonda va quindi riaffermato che — è sempre Invernizzi a scriverlo — durante il ventennio napoleonico "molti italiani insorsero contro la dominazione francese, non tanto perché straniera, ma in quanto cercava di cambiare il modo di vivere degli italiani, introducendo la leva di massa obbligatoria, aumentando le tasse, vietando processioni, chiudendo chiese e addirittura imprigionando i Pontefici perché avevano osato opporsi al potere dell’impero. Erano gli insorgenti e ne furono uccisi [decine di migliaia] nel corso delle diverse guerre di guerriglia che si svolsero lungo la penisola. Erano cattolici italiani, di diverse parti [...] Non se ne è mai occupato nessuno (o quasi), fino a tempi recenti" (ibidem).
Segue quindi una Introduzione dell’Autore (pp. 8-11) che inquadra opportunamente il contesto storico in cui si sviluppa il processo rivoluzionario francese e le prime vivaci reazioni popolari allo stesso, a cominciare dall’insurrezione della regione della Vandea, nella Francia atlantica, nel 1793 e, a seguire, dall’epopea sanfedista nell’Italia del 1799. Sanguinetti ricorda poi i vari studiosi che negli ultimi anni si sono soffermati sulla tematica rimossa lasciando un metodo significativo, o almeno una traccia, da seguire: da Roger Dupuy e Reynald Secher in Francia a Francesco Mario Agnoli e a Sandro Petrucci in Italia. Anzitutto alle loro pagine oggi bisogna guardare per "[…] riscoprire momenti e figure [fino a poco tempo fa] ignoti o sottovalutati" (p. 11).
I successivi quattro capitoli (L’Insorgenza, pp. 12-19; L’Insorgenza in Italia, pp. 20-45; Alcune questioni, pp. 46-51; e Come interpretare le Insorgenze, pp. 52-57) illuminano più nel dettaglio il fenomeno storico vero nomine "contro-rivoluzionario", presentando prima i protagonisti intellettuali della reazione "colta", a livello di classi dirigenti, e poi le diverse epopee popolari.
Sul primo versante Sanguinetti ricorda come fondamentali gli scritti polemici del conte savoiardo Joseph de Maistre (1753-1821), il quale resta — con le sue inarrivate Considerazioni sulla Francia del 1796 — probabilmente il più grande pensatore totalmente e radicalmente contro-rivoluzionario del suo tempo, quindi il francese Louis de Bonald (1754-1840), passando per lo svizzero Karl Ludwig von Haller (1768-1854), fino al prussiano Friedrich von Gentz (1764-1832): tutti comunque, in un modo o nell’altro, parzialmente debitori di quell’analisi antiveggente messa nero su bianco per la prima volta dal britannico Edmund Burke (1729-1797) con le sue Riflessioni sulla rivoluzione in Francia uscite nel 1790.
Relativamente al secondo versante, invece, l’Autore pone in evidenza gli elementi — spesso mistificati — che portano obiettivamente a considerare le insorgenze antifrancesi come una realtà niente affatto episodica o casuale, ma, al contrario, come un fenomeno unitario e — a livello di masse — assolutamente consapevole. Insomma quelle che scoppiano allora numerose in gran parte d’Italia non sono delle rivolte marginali orchestrate da qualche esagitato capo-popolo in cerca di avventure ma, proprio come avvenne oltre Oceano da parte delle colonie nordamericane verso la Madrepatria britannica, delle reazioni mirate e coscienti contro un tentativo arbitrario di usurpazione delle libertà naturali, oltre che di negazione violenta della propria storia. Avviene così che "fra il 1796 e il 1814, più o meno ovunque si levi uno stendardo francese, ovunque vengano abbattuti l’aquila bicipite, il leone di San Marco, le chiavi di san Pietro, la croce sabauda e i gigli borbonici, il popolo italiano rifiuta di sottomettersi al nuovo potere, si ribella, si avventa nei modi più svariati contro l’invasore empio e rapace, libera, ove può, il territorio del municipio o del contado o del principato dall’invasore, restaura, magari con qualche variante, l’ordine antico" (p. 26). L’episodio più significativo di questa vera e propria battaglia identitaria al Nord resta l’insorgenza di Verona veneta, le cosiddette "Pasque veronesi", scoppiate nell’aprile del 1797. Tuttavia, "il maggior numero d’insorgenze, in questi anni di fine secolo, si addensa nelle regioni centrali della Penisola. [Infatti] il primo soggetto con il quale la Repubblica Francese entra in frizione è Papa Pio VI" (p. 31) che vedrà i suoi territori invasi dagli occupanti stranieri e, quindi, l’instaurazione della prima Repubblica Romana nel 1798. Arrestato e deportato in Francia, come accennato, il Pontefice vi morirà in solitudine l’anno successivo, proprio gli austro-russi battono i francesi e poco più a Sud si svolge l’epopea dell’Esercito della Santa Fede guidato dall’indomito cardinale Fabrizio Ruffo di Baranello (1744-1827).
Ma l’Autore ricorda anche il "Viva Maria" aretino (come venne chiamato dal grido lanciato degl’insorti), "forse il movimento popolare antifrancese e antirivoluzionario italiano più ampio e più completo, sì da configurarsi addirittura — come la Vandea per la Francia — quale modello d’insorgenza "italiana"" (p. 35), ancora la "Massa Cristiana" in Piemonte, e molti altri episodi minori in Romagna e nel Montefeltro, come in Garfagnana (Lucca), in Valtellina e in Venezia Giulia, fra gli altri, oggi pressoché tutti rimossi da ogni atto di culto civile.
Da ultimo, non manca un ricordo dell’indimenticabile insorgenza tirolese guidata da quell’Andreas Hofer (1767-1810) che pagherà con la sua stessa vita la sua eroica testimonianza di libertà e, insieme, di attaccamento radicato alla millenaria fede.
Ecco: se oggi si vuol tornare a parlare di federalismo e di identità con realismo sarà bene tornare a guardare e a meditare anzitutto queste pagine e queste figure reali che spiegano il carattere e la memoria delle nostre diverse, e variegate, realtà locali più e molto meglio dei (politicamente corretti) libri di testo scolastici o anche (talvolta) dei discorsi colmi di retorica di alcune delle cariche (in tesi) più rappresentative dello Stato. Volendo stendere un bilancio finale, Sanguinetti calcola infine che "i combattenti dell’insorgenza — i dati sono molto approssimati per difetto — sono almeno trecentomila e le vittime un numero straordinariamente elevato: fra le sessantamila [...] e le centomila [...]. Un numero impressionante, se si confronta con la popolazione allora residente nel territorio dell’odierna Italia, che ammontava a circa quindici milioni di abitanti. La storia d’Italia non ha mai conosciuto un numero così elevato di caduti: se si pensa che le vittime di tutte le guerre del Risorgimento, a detta dello storico Gaetano Salvemini (1873-1957), sono state poco più di seimila [...] si comprende che ci si trova davanti a un evento immane, che suscita interrogativi pesanti sul perché nessuno lo conosca, anzi si continui a celebrare i loro uccisori come liberatori" (p. 50).
Insomma, l’Insorgenza di fine Settecento e inizio Ottocento, osservata senza pre-giudizi e passioni partigiane rivela lucidamente che qui, "per la prima volta nella storia [...] esiste una nazione italiana" (p. 56), orgogliosa di esserlo e pronta a combattere pur di continuare a esserlo. Lo aveva intuito già peraltro — come suggerisce la quarta di copertina del fascicolo — lo storico Niccolò Rodolico (1873-1969) ai suoi tempi: oggi, a oltre quarant’anni dalla sua scomparsa, e molta altra acqua passata sotto i ponti, si spera che ne prendano finalmente atto anche i suoi successori sulle cattedre universitarie.