uesto lavoro di Andrea Mutolo, nato a Reggio Emilia nel
1971, sua tesi di dottorato in Storia della Chiesa alla Gregoriana, si occupa
di una pagina assai importante della storia del Messico moderno e,
contemporaneamente, della storia delle relazioni fra Stato e Chiesa: l’accordo
che mise fine apparentemente nel 1929 al duro scontro fra cattolicesimo
messicano e governo massonizzante, che sul versante popolare assunse la forma
di guerra civile fra esercito federale e milizie socialiste, da un lato, e formazioni
dell’Esercito di Liberazione Nazionale, cattolico e contadino, chiamato
sprezzantemente dagli avversari «cristeros» ovvero i cristiani «di
professione», secondo la stessa operazione semantica che vede da «pistola»
derivare «pistolero» o da «coca» «cocalero».
La vicenda della tensione fra classi dirigenti messicane
ispirate alle culture laicizzatrici europee dell’Ottocento e del Novecento e l’universo
mentale tradizionale e religioso della popolazione messicana, soprattutto dei
ceti rurali e inferiori della società — cui Mutolo dedica la prima parte del
suo lavoro (pp. 9-68) —, risale alla metà del secolo XIX e si dipana con
alterne vicende fino ai primi decenni del Novecento.
Caduta la lunga dittatura del generale Porfirio Diaz
(1830-1915), nel 1911 si apre per il Messico un’epoca di profondi e violenti
cambiamenti nelle leggi e nei costumi di cui i governi — egemonizzati in larga
parte da clan degli Stati del Nord, più a contatto con gli Stati Uniti —
si fanno latori. In un contesto formalmente repubblicano, parlamentare e
federale si succedono dittature militari e movimenti di rivolta sociale che
connotano quella che è stata definita la Rivoluzione messicana: secolarizzatrice, modernizzatrice, socialisteggiante, ispirata in larga misura alle ideologie sociali
e al modello statunitense. Gli Stati Uniti, il gigantesco vicino del Nord, è in
questa epoca in fase di forte espansione imperiale, che prende soprattutto la
forma del colonialismo economico e industriale — ma non è esente da venature
missionarie protestanti — e si rivolge soprattutto verso l’America spagnola,
mentre nelle relazioni con l’Europa prevale la tendenza isolazionistica.
Già la Costituzione federale del 1857, al tempo di Benito Juarez
(1806-1872), ha posto rigide limitazioni all’attività della Chiesa di cui ha
iniziato l’appropriazione dei beni. Nel 1917, sotto il governo del generale
Venustiano Carranza (1859-1920), una nuova carta costituzionale inasprisce
ulteriormente il controllo dello Stato sulla Chiesa e sul mondo cattolico.
L’ascesa di potere di Àlvaro Obregòn (1880-1928) e, poi, di Plutarco Elia
Callès (1878-1945) portano il disegno d’incorporazione della Chiesa nello Stato
al suo estremo e suscitano la reazione del mondo cattolico. Nel 1926 una legge di
attuazione costituzionale approvata dal parlamento su iniziativa di Callès
traduce il dettato giurisdizionale in una dura legge di polizia anti-clericale
e anti-religiosa, che proibiva la confessione e trasformava i preti in
funzionari dello Stato. Davanti a essa l’episcopato messicano, composto da solo
trentotto vescovi, molti dei quali costretti all’esilio — negli Stati Uniti e
in Europa — durante le varie fasi dello scontro degli anni precedenti,
d’accordo con Roma dove regna Pio XI (1922-1939), coadiuvato dal card. Pietro
Gasparri (1852-1934), decide di compiere un gesto clamoroso — e tuttora
bisognoso d’indagine riguardo alla sua necessità e opportunità nel frangente —,
sospendendo il culto in tutto il paese per testimoniare lo stato di grave
impedimento della Chiesa messicana a svolgere la sua missione.
Da allora, su un certo piano, si apre e si dipana un lungo,
sottile e complesso gioco diplomatico — narrato nella seconda parte dello
studio (pp. 69-110) —, mai interrotto, per riprendere relazioni normali, o
almeno non conflittuali, che vede protagonisti i vescovi, il nunzio apostolico Pietro
Fumasoni Biondi (1872-1960) — residente negli Usa —, la Segreteria di Stato, l’ambasciatore americano Dwight Whitney Morrow (1873-1931) e
intermediari dei vari «poteri forti». Ma su un altro piano, quello della
società civile, il gesto ha conseguenze esplosive. Il laicato cattolico si
organizza in una Lega di Difesa Nazionale, che dapprima tenta forme di
opposizione non violenta alla legge Callès e poi appoggia la lotta armata.
Nelle campagne e presto nelle città i contadini — soprattutto nelle zone dove
è attiva la Union Popular di Anacleto Gonzales Flores (1888-1927), martire cristero,
da poco beatificato da Giovanni Paolo II (1978-2005) — imbracciano il fucile e
salgono in montagna, dando vita a una intensa e diffusa guerra partigiana di
liberazione, che diventa ben presto guerra in senso pieno, con decine di
migliaia di combattenti, inquadrati in un Esercito di Liberazione Nazionale,
guidato da un ex generale federale, sulle prime scettico, poi convertito,
Enrique Gorostieta Velarde (1891-1929). Come tutti i conflitti civili le
violenze e le atrocità, soprattutto da parte federale e delle formazioni
irregolari filo-governative — impiccagioni di sospetti, fucilazioni sommarie,
caccia al prete, incendi di fattorie, concentrazione di popolazioni, confische
di raccolti —, non si contano. I vescovi sono divisi: una minoranza appoggia i cristeros,
gli altri sono attendisti. Due di essi, Leopoldo Ruiz y Flores (1865-1941) e
Pascual Diaz y Barreto (1875-1936), con l’appoggio degli americani e di Roma, prendono
la testa della situazione, cercando di imporre l’esito della negoziazione ai
combattenti. E vi riusciranno nel 1929, quando il governo di Emilio Portes Gil
(1890-1978), davanti alla crescita del movimento cattolico in armi, davanti
alle prime sconfitte in campo aperto e temendo che la fazione avversa a Callès
e favorevole a Obregòn si allei con i ribelli, dà cenno di disponibilità a trattare.
Il 21 giugno 1929 verranno così siglati degli accordi provvisori e informali —
scritti in inglese su un pezzo di carta anonimo —: gli arreglos. Lo
Stato manteneva in integro il dettato legislativo anti-cattolico,
riservandosi di applicarlo in maniera soft, mentre i vescovi
sospendevano lo sciopero del culto. Gli accordi non ristabiliranno la giustizia
nei rapporti e inaugureranno semplicemente un modus vivendi, ma taglieranno
invece letteralmente le gambe al movimento armato ormai sulla via d’imporre al
governo tutto il suo peso. Faranno esultare il governo, che vedrà rimosso a
poco prezzo un grave ostacolo al suo potere, mentre non smetteranno,
soprattutto in alcuni Stati, la persecuzione e le violenze anticristiane. Anzi
fino agli anni 1940 proseguiranno a centinaia le vendette «private» — e
impunite — contro capi e militanti cristeros. Lo Stato terrà la Chiesa sotto un ferreo giogo burocratico e poliziesco, che si attenuerà solo negli anni 1990.
Gli arreglos impediranno altresì ogni interferenza cattolica nella
gestione del potere in una nazione dall’ethos e dalle radici
profondamente imbevute di cristianesimo. Alle conseguenze negative degli arreglos
Mutolo consacra la terza parte della sua monografia (pp. 111-126), riservando
la quarta (pp. 127-142) alla distensione dei rapporti fra Stato e Chiesa che si
verifica nei decenni più recenti.
L’ampio studio è corredato da una cronologia storica (pp.
143-154) che va dal 1911 al 1937; da una nutrita rassegna di fonti di archivio
(pp. 143-154) — quello della Curia arcivescovile di Città del Messico; quello
del Centro de Estudios de Historia de México — promosso dall’azienda Condumex
— di Città del Messico; quello privato del presidente Callès a Città del
Messico; l’archivio dei padri giuseppini di Roma e archivi del movimento cristero
di Guadalajara in Messico — commentate, molte delle quali inedite, e da una
abbondante bibliografia, anche se purtroppo — ma il fatto non è imputabile a
lui — in lingua spagnola (pp. 177-186), che include anche un elenco di tesi
inedite in lingua inglese, conservate presso l’Istituto de Investigaciones
Historicas di Città del Messico.
Quello di Mutolo è in ultima analisi un lavoro senz’altro
utile e, almeno per l’Italia, pionieristico, che fornisce, in maniera
metodologicamente seria — anche se con qualche lacuna di forma espositiva —, i primi
termini e un primo quadro d’insieme di una vicenda di grande rilievo in tutta
la storia dell’Occidente in età moderna, che sfugge alle categorie
interpretative convenzionali e contribuisce altresì a fondare storicamente la
categoria d’Insorgenza, facendone un fenomeno non solo limitato a episodi
locali e all’epoca di Napoleone (1769-1821), ma una realtà transnazionale ed
epocale, ovvero la risposta dell’identità culturale religiosa della
Cristianità, nelle sue varie forme e residui nello spazio e nel tempo, allo
strapotere dello Stato «moderno» sviluppatosi al suo interno.