L’identità italiana:
un’identità «ferita»
Le elezioni politiche del 9 e del 10 aprile 2006 hanno evidenziato ancora una volta un’Italia divisa in due, che rispecchia due concezioni della vita distanti fra loro.
Per Massimo Viglione è stato sempre così, almeno per gli ultimi duecento anni della nostra storia, cioè a partire dal 1796, quando le truppe francesi di Napoleone Bonaparte hanno esportato con le armi la Rivoluzione francese in Italia.
Secondo Viglione, a partire da questa data iniziano tutti i nostri problemi, inclusa la divisione ideologica del nostro popolo. Allora, da una parte, la stragrande maggioranza degli italiani insorge contro l’invasione francese in una guerra che causerà oltre 80.000 vittime, dall’altra, una minoranza d’intellettuali e di nobili, affascinati dalle idee giacobine, non oltre un migliaio, scrive Viglione. Questi ultimi intendono far iniziare una «nuova storia» agli italiani: il 1796 è «l’anno del prima e del poi», come ha scritto François Furet, così come il 1789 lo è per i francesi e per tutto l’Occidente.
Prima di questa data l’Italia era una società cattolica, aristocratica e contadina, caratterizzata da un’organica armonia gerarchica ― accettata serenamente anche dai ceti meno abbienti proprio per la sua struttura naturale ―, che aveva prodotto una più che secolare concordia sociale. Ma con il 1796 ha inizio qualcosa di fondamentale importanza, un evento che muta per sempre la storia e il modo di pensare degli italiani: la Rivoluzione Italiana. Nel 1796 un uragano storico, politico e militare, come pure e soprattutto religioso si abbatte sulla Penisola dopo secoli di pace, portando con sé la più grave delle eredità: la divisione e l’odio ideologico.
Per tre anni il «giacobinismo» francese rivoluzionario aggredisce gli italiani, i loro legittimi, secolari e sovrani governi, e, con particolare virulenza, la Chiesa Cattolica. I francesi repubblicani attuano un sistematico ladrocinio e una accurata depredazione del patrimonio artistico e culturale del nostro paese, senza tralasciare di appropriarsi del denaro pubblico: sono profanate chiese e conventi, si spogliano i monti di Pietà, le casse degli ospedali, delle confraternite, dei municipi, le banche, e soprattutto i musei. E rovesciano antichi Stati sovrani, come Venezia, Genova, Napoli.
Spiegabilmente, alla progressiva conquista dell’Italia da parte degli eserciti francesi, risponde in ogni parte della Penisola una sollevazione straordinaria del popolo italiano. Tale insurrezione, detta Insorgenza per riassumere la miriade di insorgenze popolari locali che la esprimono, fu «nazionale» nel senso geografico del termine, in quanto si estese dalla Val d’Aosta alle Puglie, dalle Calabrie al Trentino.
Fra le insorgenze più note si ricordano quelle di Milano, Binasco, Pavia, Lugo di Romagna, nel 1796; le cosiddette «Pasque Veronesi», l’anno seguente; ma soprattutto, nel 1799, la Santa Fede, ovvero la rivolta del Regno di Napoli, guidata dal cardinale Fabrizio Ruffo, che abbatte la giacobina Repubblica Napoletana, insediatasi sulle baionette dei francesi nella città partenopea.
Secondo Viglione l’Insorgenza rappresenta la più grande guerra di liberazione nazionale mai combattuta dalle popolazioni italiane, e anche una delle pagine storiche più gloriose della storia d’Italia.
Una storia mistificata ― quando non occultata ― negli ultimi centocinquant’anni dalla storiografia nazionale ufficiale, ma da qualche decennio un po’ più messa a fuoco, grazie all’opera di alcuni studiosi, che hanno edito vari saggi e organizzato numerosi convegni proprio al fine di far luce in merito e spiegare agli italiani ignari quanto era stato loro nascosto.
L’invasione franco-giacobina, argomenta ancora Viglione, fu il primo tentativo concreto e violento di «fare gli italiani», di produrre cioè l’italiano nuovo, laicizzandolo e «repubblicanizzandolo». Ma, a parte qualche gruppo di intellettuali, la risposta delle popolazioni della Penisola fu ovunque la medesima, chiara e precisa: una guerra insurrezionale.
Gli italiani dimostrarono invece allora di essere un «popolo unito» proprio insorgendo in massa per difendere la loro identità di nazione, quella di matrice cattolica e tradizionale, minacciata da un esercito predone, autore di eccidi e ferocemente ostile alla Chiesa cattolica: non occorre ricordare che Napoleone ha fatto morire un Papa in esilio e ne ha fisicamente tenuto in arresto un altro per anni, osando ciò che neanche Hitler ha avuto il coraggio di attuare.
Con le insorgenze inizia per Viglione una vera e propria guerra civile italiana. E siamo al secondo tentativo di «fare gli italiani», al cosiddetto Risorgimento, che Viglione denomina più volentieri «Rivoluzione italiana», in quanto è un fatto che il Risorgimento dipenda idealmente dalla Rivoluzione francese, ma anche dal protestantesimo. E politicamente e militarmente è attuato grazie alla Francia di un altro Napoleone, Luigi Bonaparte. Secondo Luigi Salvatorelli, «il Risorgimento si è fatto contro il Papato e non poteva farsi diversamente» (cfr. p. 44). Eccetto la parentesi del 1848, quando si tentò di fare l’unità federativa dell’Italia sotto l’egida di Pio IX, evento fatto fallire, tutto il movimento risorgimentale si sviluppò per far trionfare la «vera Italia», quella di Mazzini e compagni, l’Italia repubblicana, fondata sull’utopia del totalitarismo giacobino.
Secondo Viglione, i grandi attori del Risorgimento italiano non vollero «fare l’Italia», cioè un’Italia in sintonia con la sua secolare identità e con il consenso della maggioranza degli italiani, bensì una «nuova Italia», a costo di farla con l’aiuto dello straniero e di massacrare, come avvenne negli anni Sessanta nel Mezzogiorno, migliaia di italiani che non si sentivano appunto «nuovi italiani», ma soltanto «italiani».
E qui torna la profonda radice della divisione degli italiani, della «guerra civile italiana». La stragrande maggioranza di essi non appoggiò mai i moti risorgimentali, né i cosiddetti patrioti; i romani non insorsero mai contro il Papa, tanto meno le altre popolazioni dei regni pre-unitari. Anzi, come detto nel capitolo IX, La guerra civile meridionale, gli italiani del Mezzogiorno, dopo la «marcia trionfale» di Garibaldi con i suoi mille uomini, hanno reagito, prendendo le armi contro la presunta libertà e ricchezza portate dal nuovo governo unitario.
Così, come sessant’anni prima, gli italiani del Sud si schierarono dalla parte della cattolicesimo e dei sovrani legittimi. Per questo furono chiamati ― come avvenne per i vandeani nel 1793 e per gli insorgenti nel 1799 e 1806 ― «briganti».
È la seconda guerra civile italiana, condotta da parte dei vincitori con stragi e mezzi terroristici: per reprimere il cosiddetto brigantaggio furono impiegati fino a 120.000 soldati.
Per giustificare la guerra d’aggressione del 1859-1860 all’Impero austro-ungarico, al Regno delle Due Sicilie e allo Stato Pontificio il Re di Sardegna doveva far credere agli italiani, ma soprattutto alle potenze straniere, che quegli Stati erano realtà infami e corrotte, regimi oppressivi e incivili, e pertanto l’azione cavouriana e garibaldina era non solo giustificabile, ma un’azione di civile generosità. In pratica riguardo agli Stati pre-unitari si creò un’accorta «leggenda nera». Il meccanismo orchestrato da Cavour per realizzare il Risorgimento prevedeva tre strumenti: la diffamazione, l’invasione, il voto. E ogni atto di questa tragedia storica ha i suoi attori: rispettivamente gli scrittori, i soldati, gli elettori.
Lo studio di Viglione riferisce ampiamente anche del grado di benessere e di civiltà dello Stato Pontificio e del Regno delle Due Sicilie, smascherando le false tesi diffuse dall’élite risorgimentale. Lo stesso fa dell’accusa che da sempre i rivoluzionari facevano al governo della Chiesa, di essere una teocrazia, vale a dire un regime in cui i laici di principio erano esclusi dal governo. Tutto inventato: il diplomatico francese Rayneval scrive che su 5.167 funzionari dello Stato, i laici erano 5.059, gli ecclesiastici solo 98, e di questi ben 62 si occupavano solo di religione, quindi erano in 36 ad avere incarichi di governo effettivi. Era questa l’insopportabile teocrazia da abbattere per il bene della società?, domanda Viglione.
Per quanto riguarda il Regno delle due Sicilie, soprattutto sotto Carlo e Ferdinando di Borbone furono creati un esercito nazionale, una flotta — la più importante nel Mediterraneo dopo quella inglese — e numerose attività industriali. Molte anche le iniziative culturali: per ogni comune in tutto il Regno si fondarono scuole gratuite per ambo i sessi. Solo in Sicilia il Regno fondò quattro licei, diciotto collegi e diverse scuole normali. Nel 1818 da Napoli salpò la prima nave a vapore italiana. A Napoli fu inaugurata la prima ferrovia italiana, la Napoli-Portici, nacque il primo telegrafo elettrico in Italia, come pure il primo ponte sospeso. Altro si potrebbe scrivere sulla «barbarie» del Regno borbonico.
L’ultima parte del volume di Viglione prende in esame gli anni successivi alla fine del Novecento, i vent’anni del fascismo, che, secondo lui, fu in pratica un secondo Risorgimento, anzi, come ha insegnato il filosofo Giovanni Gentile: la Rivoluzione fascista è l’attuazione della Rivoluzione Italiana.
La cosiddetta guerra civile del 1943-1945 tra fascisti e partigiani è letta da Viglione come la terza guerra civile italiana, anche se i vincitori la considerano una guerra di liberazione, di resistenza, partigiana. I fascisti non erano «italiani», perché avevano fallito nel tentativo di completare il Risorgimento. Anzi erano servi dello straniero invasore, i veri «italiani», vale a dire i partigiani, lottavano invece per la libertà e per l’indipendenza della «nuova Italia». Del resto, si tratta delle stesse accuse che sono rivolte agli italiani insorgenti prima, e ai «briganti» meridionali poi. Il fascismo fu ridotto poi al rango di «male assoluto» dall’antifascismo, il nuovo collante su cui costruire l’ Italia repubblicana.
Chiunque studi gli ultimi duecento anni della storia d’Italia, non può non coglierne come filo conduttore la violenza, frutto della divisione ideologica, che porta a un fatto evidente, quanto dimenticato. Per Viglione che quello italiano è l’unico popolo al mondo ― almeno nel mondo occidentale ― che negli ultimi duecento anni abbia subito tre guerre civili, la più nota delle quali, quella tra fascisti e partigiani, è in realtà di gran lunga la meno cruenta delle tre.
Domenico Bonvegna