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a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale


inserito il 13 gennaio 2012


RECENSIONI



UMBERTO LEVRA (a cura di), Cavour, l’Italia e l’Europa, il Mulino, Bologna 2011, pp. 272, € 20.


L’anno cavouriano, apertosi idealmente il 6 giugno 2010 con la visita del Capo dello Stato a Santena (Torino), presso la tomba di Camillo Benso, conte di Cavour (1810-1861), ha prodotto non solo saggi rievocativi e di vario livello ma anche studi di spessore, come la biografia di Adriano Viarengo, già recensita sulla rivista Cultura&Identità (1), e la raccolta di saggi Cavour, l’Italia e l’Europa (il Mulino, Bologna 2011), a cura di Umberto Levra. L’opera presenta, in forma rielaborata, le relazioni al convegno omonimo, tenutosi il 6 e 7 ottobre 2010 all’università di Torino — dove Levra è docente di Storia del Risorgimento — su iniziativa dell’Accademia delle Scienze, del locale Comitato dell’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano e del Museo Nazionale del Risorgimento italiano.

Quasi tutti i testi ivi raccolti contribuiscono ad approfondire la conoscenza della vita e della politica dello statista, a partire dagli anni della formazione. Viarengo si sofferma su La formazione intellettuale di Cavour (pp. 15-36), ribadendo alcune considerazioni già espresse nella citata biografia: il liberalismo cavouriano è "anzitutto ribellione" (p. 21), generazionale e culturale, frutto anche del clima romantico in cui è cresciuto; "[...] nell’impossibilità di indirizzare convenientemente le sue energie, sempre maggior spazio prenderanno nella sua vita, in quegli anni, la passione del gioco e le avventure galanti" (ibidem). Rifiuta anche la religione tradizionale, pur non esprimendosi apertamente, come scrive, diciannovenne, allo zio Jean-Jacques de Sellon (1782-1839): "Dopo aver letto Guizot [François (1787-1874)] e Benjamin Constant [(1767-1830)], mi fu impossibile non aprire gli occhi... Dobbiamo tuttavia conservare le apparenze; ma è penosissimo il fingere quando si è persuasi che si ha ragione" (cit. ibidem). Mosso da una incoercibile e quasi religiosa fede nel Progresso, egli intende dedicarsi interamente all’"incivilimento" della società, che a suo avviso passava anche attraverso lo sviluppo economico, a sua volta visibile soprattutto nelle ferrovie, in cui egli vede "[...] uno dei grimaldelli con i quali forzare anche la situazione della penisola italiana, in termini tanto economici quanto "patriottici"" (p. 25).

Su questi aspetti insiste pure Massimo Luigi Salvadori nel saggio su Il liberalismo di Cavour (pp. 71-111), che ben descrive l’atmosfera degli anni 1830 e 1840 e le attese di quanti aderivano "con fede ardente alla filosofia del Progresso", cioè "[...] borghesi entusiasmati dalle meraviglie e dalle promesse dell’industrializzazione, operai che dalla nuova economia liberata dai padroni di classe si aspettavano l’era dell’abbondanza e dell’eguaglianza, intellettuali che indagavano i molteplici volti e le diverse implicazioni della marcia verso l’avvenire, ritenendo di aver finalmente scoperto le leggi dello sviluppo storico o i dettati della Provvidenza, insomma la necessità e irresistibilità del Progresso" (pp. 75-76).

Secondo Luciano Cafagna, autore di Libertà del mercato e modernizzazione economica in Cavour (pp. 113-128), il conte era letteralmente eccitato dalle novità della tecnica applicate alla produzione e alla vita quotidiana — in particolare l’introduzione delle macchine negli stabilimenti e l’applicazione del vapore ai mezzi di trasporto —, e legava in un nesso indissolubile il progresso e la libertà, perché il primo liberava nuove energie e forze inespresse: "La libertà è per lui liberazione di energie positive; [...] libertà di progredire e di applicare le energie individuali al progresso" (p. 119). Parlava, perciò, di "provvidenzialità della locomotiva" (p. 125) e della conseguente importanza di creare uno spazio nazionale per la diffusione di una cultura "civile", che comportava riforme anche nel settore dei rapporti con la Chiesa, se non nella Chiesa stessa.

Sulla base di queste convinzioni Cavour guida l’assalto agli uomini e alle istituzioni del regno sardo che si opponevano alla svolta rivoluzionaria da lui auspicata, iniziata nel marzo 1848 dal marchese Massimo Taparelli d’Azeglio (1798-1866) e proseguita poi dal conte stesso. L’operazione coinvolge la magistratura, l’esercito, la diplomazia, l’amministrazione civile centrale e periferica, mediante una vera e propria epurazione del personale, soprattutto di vertice, volta — come riferisce Silvano Montaldo, che descrive il passaggio Dal vecchio al nuovo Piemonte (pp. 37-68) — "[...] a eliminare gli incorreggibili e a disciplinare il resto" (p. 59), ed è accompagnata dall’abolizione delle ultime vestigia del regime feudale, che favorisce la creazione di un ceto dirigente e di una realtà imprenditoriale nuovi, costituenti "il sostrato socioeconomico all’accordo politico del connubio" (p. 68).

Cavour — ricorda Salvadori — considerava il "connubio" il più bell’atto della sua vita politica e la migliore applicazione pratica della teoria del giusto mezzo, soprattutto dopo il colpo di Stato messo in atto nel 1851 dal presidente francese Carlo Luigi Napoleone Bonaparte (1808-1873), futuro imperatore Napoleone III, che a suo avviso rendeva ""pericoloso" in Piemonte il "partito reazionario"" (cit. a p. 92). Con quell’accordo politico viene inaugurato uno specifico tipo di regime parlamentare, caratterizzato dalla convergenza al centro di realtà che "[...] reputavano e presentavano se stesse come le uniche forze legittime di governo, tagliando le estreme di destra e di sinistra" (p. 95), considerate "antisistema". Da quella nuova base Cavour si adopera per delegittimare i repubblicani unitari di Giuseppe Mazzini (1805-1872), che egli considerava la sua bestia nera, e per tentare i cattolici italiani a "riconciliarsi" con il progresso e con la civiltà moderna, cercando di porre le basi per la nascita di un partito cattolico costituzionale, cioè democratico-cristiano ante litteram. Era pronto, invece, a contrastare con tutte le sue forze quella parte di clero che si opponeva "con rabbiosi modi al gran moto rigeneratore" (cit. a p. 101) e impediva "il regolare e normale sviluppo della civiltà moderna" (cit. a p. 102). In tema di Chiesa e Stato, del resto, fin dal 1848 aveva criticato l’articolo 1 dello Statuto, che stabiliva la religione cattolica come la sola religione dello Stato, auspicando la separazione delle due istituzioni e l’introduzione del matrimonio civile, che a suo dire aveva reso "immortale" (2) Napoleone Bonaparte.

Alla base della politica cavouriana in materia ecclesiastica — nota Francesco Traniello, in Stato, Chiesa e laicità in Cavour (pp. 129-150) — vi è la tesi che il diritto pubblico è mutato, nel senso che la sovranità non viene più dall’alto e richiede il consenso delle popolazioni e dunque il potere temporale ha perso la sua legittimità. Inoltre, egli riteneva che l’eventuale estraniamento del cattolicesimo dal moto inarrestabile del progresso e verso la libertà di coscienza, intesa nel senso più radicale, avrebbe avuto conseguenze letali per la religione. Cavour, prosegue Traniello, aveva in mente una propria idea di religione, che "[...] gli consentiva, nel contempo, di giudicare e di stabilire con sicurezza quale fosse il bene o il male della religione cattolica, guardata come componente strutturale di una società postasi, seppur tardivamente, sul cammino della civiltà moderna" (pp. 132-133). In vista di questo disegno di "modernizzazione", cioè di adeguamento della religione alla modernità, egli negava alla Chiesa qualsiasi interferenza nello spazio politico, riservando allo Stato anche la demarcazione della linea di confine: "In questo senso il separatismo cavouriano assumeva indubbiamente una valenza aggressiva" (p. 139). La soppressione degli ordini contemplativi e mendicanti e l’incameramento dei loro beni saranno da lui giustificati appunto dalla convinzione di saper discernere quali fossero gli ordini religiosi ancora "utili" alla Chiesa e alla società: del resto, "[...] l’antifratismo era pure una componente radicale della cultura cavouriana" (p. 136, n. 16). Quanto alla formula "libera Chiesa in libero Stato", essa entra nell’orizzonte di Cavour solo dopo l’unificazione politica, quando si pone in maniera stringente la Questione Romana e non vi è più spazio per eventuali negoziati, e allude "a una Chiesa sì libera, ma inclusa nello Stato" (p. 149).

La politica ecclesiastica — connessa alla grande espropriazione del patrimonio della Chiesa — s’intreccia con quella economica perché, come si è detto, lo sviluppo e il progresso dovevano camminare a braccetto. "Mentre tutta l’Europa marcia con passo fermo sulla via progressiva — scrive nel 1830 all’amico inglese William Brockedon (1787-1854) —, l’infelice Italia resta sempre curva sotto lo stesso sistema di oppressione civile e religiosa" (cit. a p. 115). Assertore del libero scambio, non esita ad adottare una politica "keynesiana avant littre" (p. 113), come sostiene Cafagna, e a ricorrere a "l’uso un po’ disinvolto del debito pubblico" (ibidem). Attraverso il culto per il progresso europeo e per le sue forme politiche ed economiche, immaginava di trasmettere all’Italia questa forma d’incivilimento mediante "il rinnovamento liberale interno del Piemonte e l’allargamento nazionale dello spazio di rinnovamento" (p. 114).

Matura dunque il convincimento di dover condurre una politica sempre più "nazionale". Umberto Levra descrive le fasi che hanno condotto gradualmente Cavour dalla nazione piemontese alla nazione italiana (pp. 153-166). Partito da una idea culturale, propria della cultura romantica, nel 1848 egli evoca la nazione piemontese e solo dopo il "connubio" i suoi obiettivi si ampliano alla Pianura Padana, escludendo inizialmente l’idea di una guerra contro l’Impero d’Austria, finché i mutamenti sullo scenario internazionale e la vittoria interna sulle forze conservatrici, dopo l’approvazione della legge sui conventi, aprono la strada a una "politica italiana". L’obiettivo è ora quello dell’ingrandimento del Piemonte con la prospettiva di costituire un Regno dell’Alta Italia, senza che ciò significasse puntare all’unificazione della Penisola. "In realtà, fin dal Congresso di Parigi la posizione di Cavour era flessibile e non predefinita, con una sola esplicita esclusione, di occuparsi del Mezzogiorno" (p. 160). Soltanto dopo i primi successi della spedizione dei Mille egli modifica la posizione attendistica e prende in considerazione anche l’annessione delle Due Sicilie, che però "[...] fu imposta, non accompagnata dal consenso" (p. 166).

In tale contesto Ennio Di Nolfo, presentando Il Piemonte nel gioco delle potenze europee (pp. 179-197), osserva che non è facile isolare i temi della politica estera dal quadro complessivo dell’azione cavouriana, fra cui rientrano anche i vincoli finanziari con Parigi, soprattutto con la dinastia orléanista, che avrebbero dato i loro frutti sul piano politico. Non va dimenticato, da un punto di vista geopolitico, che l’annessione della Repubblica di Genova aveva proiettato lo Stato sabaudo direttamente sul Mediterraneo e lo aveva spinto a guardare anche alla Gran Bretagna, che controllava quel mare. Ma soltanto la nascita del Secondo Impero francese, destinata a modificare l’assetto europeo, e poi la guerra di Crimea, "un teatro così remoto [...] da trasformare la guerra in una simbolica carneficina" (p. 187), segneranno una svolta decisiva nella politica estera del piccolo regno. Cavour, di fronte al crescente isolamento dell’Impero d’Austria, diffonde il timore che in Italia la rivoluzione sia imminente e difficile da contrastare se le potenze europee non accoglieranno almeno qualche aspetto delle attese "nazionali". L’accettazione cavouriana dei disegni egemonici francesi è funzionale all’espulsione della Casa d’Austria dalla Penisola, nella prospettiva, allora ardita, di costituire un regno dell’Italia settentrionale che agisse da "magnete" (p. 192) per il resto del Paese. Con un lavoro "di delirio diplomatico" (ibidem) riesce a creare una soluzione esplosiva e a frantumare gli interessi legati al mantenimento dello statu quo, fino allo scoppio della cosiddetta Seconda Guerra d’Indipendenza. Un momento chiave è l’armistizio di Villafranca (Verona), quando è chiaro che l’unica alternativa alla subordinazione all’Impero Francese è la nascita di un’Italia unificata: l’impresa dei Mille, "grazie anche alla collaborazione britannica" (p. 194), sottrae alla Francia l’esclusività del predominio sulla Penisola.

L’Unità pone il conte di fronte a una questione istituzionale e a una questione meridionale. Opponendosi al federalismo, diventa "il primo artefice dell’estensione all’Italia unita del centralismo burocratico di matrice napoleonica che era propria del Regno sardo" (p. 106), come ricorda Salvadori, il quale osserva anche che di fronte al problema del Mezzogiorno Cavour assume "[...] un atteggiamento che poneva in netta tensione la sua ideologia liberale con la Realpolitik di uno statista fermamente deciso a "disciplinare" con la forza la regione" (pp. 107-108). Proprio parlando del Sud, il conte ricorrerà alla nota osservazione: "Lo scopo è chiaro; non è suscettibile di discussione. Imporre l’unità alla parte più corrotta, più debole dell’Italia. Sui mezzi non vi è pure gran dubbiezza: la forza morale e se questa non basta la fisica" (3).

Convinto anch’egli della ricchezza naturale del Mezzogiorno, che riteneva abbrutito da secoli di malgoverno, era certo che l’unificazione del mercato nazionale avrebbe rilanciato quelle regioni ma non ebbe il tempo di assistere al fallimento della sua teoria.

Le ultime relazioni, dedicate alla immagine del conte all’estero, aggiungono ulteriori elementi d’interesse al quadro tracciato finora.

Georges Virlogeux, che presenta L’immagine di Cavour in Francia (pp. 201-224), ne descrive l’attenzione prestata alla nuova realtà dell’opinione pubblica, alla quale spesso si richiamava, come a "una specie di fumo, ma che tosto o tardi trasformandosi in vapore solleva i maggiori ostacoli e vince le maggiori difficoltà" (4). Cavour, dunque, seguiva con grande attenzione sia gli organi di stampa in generale — pronto ad adattarvi alcune scelte per migliorare l’immagine del governo in termini di popolarità — sia i media francesi perché si facessero mediatori del consenso. Scorrendo gli organi d’informazione parigini emerge un atteggiamento tutt’altro che uniforme, come riferisce lo stesso Cavour: "[...] l’opinione dei legittimisti e degli orléanisti non è affatto migliorata al nostro riguardo" dal momento che un amico gli aveva riferito "[...] di aver udito qualche graziosa boccuccia esclamare: "Perché mai non impiccano quella canaglia di Cavour"?" (5).

Una opinione disomogenea sullo statista è presente anche ne L’immagine di Cavour nel mondo germanico (pp. 241-258), di Gabriele Berta Clemens, perché il mondo politico d’ispirazione cattolica, autorevole nelle regioni a sud e a ovest della Lega tedesca, intravede nella fine dei piccoli Stati il tramonto del principio di legittimità e in genere del diritto pubblico europeo. Anche i conservatori prussiani interpretano la guerra del 1859 come lo scontro dell’Europa legittima e dei suoi diritti storici contro l’Europa rivoluzionaria e usurpatrice. "Ai loro occhi Cavour divenne un politico pericoloso, pronto a usare qualsiasi mezzo per raggiungere i suoi obiettivi" (pp. 247-248). Al contrario, le forze liberali considerano anacronistico sia il dominio asburgico sull’Italia settentrionale sia il Papato, a cominciare dal suo dominio temporale.

Invece, meno contestata è L’immagine di Cavour in Inghilterra (pp. 225-240), studiata da John Anthony Davis, che punta l’attenzione sull’antipapismo e sull’anticattolicesimo protestante, inseparabili dall’entusiasmo britannico per il Risorgimento; in Gran Bretagna la questione italiana era soprattutto quella del potere temporale del Pontefice, indicato come la causa principale delle agitazioni politiche nella Penisola. L’auspicio di Lord William Ewart Gladstone (1809-1898) e di Lord John Russell (1792-1878) è quello di una Italia non necessariamente unificata ma almeno federata, ovviamente non nel senso neoguelfo ma da Stati laicizzati e disposti ad abbracciare il liberalismo politico ed economico. Da qui il sostegno — anche finanziario, con la concessione di prestiti significativi da parte del sistema bancario inglese — alla politica "riformista" di Cavour nel Regno di Sardegna e successivamente alla sua politica "italiana", nel 1859-1860, anche per evitare una presenza ingombrante dei francesi nella Penisola, soprattutto il temuto arrivo di un erede di Gioacchino Murat (1767-1815) sul trono di Napoli.

Un plauso finale merita la decisione del curatore di tradurre in italiano tutti i passi citati, dal momento che la maggior parte della produzione scritta cavouriana è in francese, la sua lingua principale, e che ciò è talvolta di ostacolo per la piena conoscenza delle sue opere (6).

Francesco Pappalardo

Note:
(1) Cfr. il mio Letture recenti sul Risorgimento, in Cultura&Identità. Rivista di studi conservatori, anno III, n. 9, Roma gennaio-febbraio 2011, pp. 46-52.
(2) Camillo Benso di Cavour, Epistolario, edizione della Commissione Nazionale per la pubblicazione dei Carteggi del Conte di Cavour, vol. VI, 1849, a cura di Carlo Pischedda (1917-2005), Olschki, Firenze 1982, p. 366.
(3) Ibid., vol. XVII, 1860, a cura di C. Pischedda e Rosanna Roccia, tomo VI (16 novembre-dicembre), Olschki, Firenze 2005, p. 2.945.
(4) Ibid., vol. XIII, 1856, a cura di C. Pischedda e Maria Luigia Sarcinelli, tomo I (gennaio-maggio), Olschki, Firenze 1992, p. 344.
(5) Ibid., vol. XVII, 1860, cit., tomo III (20 giugno-12 agosto), p. 1.334.
(6) Altrettanto meritoria è la scelta di tradurre tutti gli scritti raccolti nell’antologia cavouriana Autoritratto. Lettere, diari, scritti e discorsi, a cura di A. Viarengo, con prefazione di Giuseppe Galasso, Rizzoli, Milano 2010.

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