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a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale





RECENSIONI



ENZO BETTIZA, 1956. Budapest i giorni della rivoluzione, Mondadori, Milano 2006, con ill. b/n, pp. 148, € 16,50.


C on l’occasione del cinquantenario dell’insurrezione ungherese Enzo Bettiza, l’ormai quasi ottantenne scrittore ed ex-uomo politico — è nato a Spalato, in Croazia, nel 1927 —, propone una nuova «cavalcata» — lo già ha fatto nel 2000 con La cavalcata del secolo (Mondadori, Milano) — nella memoria alla ricerca dei molti interrogativi tuttora rimasti senza risposta intorno al glorioso ottobre ungherese del 1956.

Perché Nagy a un certo punto infranse i ferrei schemi dell’ortoprassi leninista? L’uscita dell’Ungheria dal Patto di Varsavia fu la causa o l’effetto dell’invasione? Quanti furono i morti di Budapest e del resto del paese? Come mai Togliatti, così gramsciano e legalitario in Italia, in occasione dell’Ungheria si comportò come un brutale commissario politico del Comintern stile «spagnolo» anni Trenta? Perché Kádár accettò il potere offertogli dai sovietici? Fu una rivolta socialista anti-leninista oppure una solare insorgenza anti-comunista? Perché a oggi non è stato scritto in Italia un solo saggio storico «decente» sull’Ungheria nel 1956?

In sei agili capitoli e una chiusa il giornalista e storico spalatino ripercorre le retrovie dei suoi ricordi e rimette a fuoco, più che gli eventi — cui dedica uno spazio limitato —, tutta una serie di volti di protagonisti, quasi tutti comunisti, di quei tredici giorni di cinquant’anni fa, ormai lontani non solo cronologicamente da noi, ne rammenta le alternative cui si trovarono davanti in quel drammatico frangente e ne rievoca, giudicandole storicamente, le non facili scelte.

Non solo: cerca nel contempo di situare le opzioni di allora nel più ampio quadro delle vicende del comunismo mondiale, sia di quelle che precedettero il moto del 1956, sia di quelle che lo seguirono, fino a quel 1989, quando l’Ungheria si trovò — ironia della sorte o, forse, non a caso — a essere il primo paese del blocco socialista ad aprire le frontiere con il mondo libero. Un varco in cui — come chi ne fu anche solo tele-spettatore senz’altro ricorda — si precipitarono immediatamente migliaia di tedeschi dell’Est, iniziando quell’emorragia che porterà dopo pochi mesi alla demolizione del Muro di Berlino e al crollo della Cortina di Ferro.

I riflettori tornano così — nel cap. I (pp. 3-17) — a illuminare per un attimo la figura di Mikhail Sergeevič Gorbačëv, l’«Ultimo Segretario» o il «7° segretario», come lo chiamerŕ Michel Heller in Le 7e secrétaire. Splendeur et misère de Mikhaïl Gorbatchev (trad. fr., Orban, Parigi 1990), che Bettiza a sua volta gratifica dell’appellativo di «gattopardo» del Pcus e del quale — scelto e «patrocinato» nel 1985 dall’anziano «dinosauro» rosso Andrei Gromiko ed eletto Primo Segretario un solo giorno dopo la morte «ufficiale» di Konstantin Ustinovič Černenko — denuncia, sostanzialmente conservatori del sistema imperiale sovietico anche se nascosti sotto la patina di un brillante — e logorroico — «riformista». Una denuncia che non può non sollevare gravi interrogativi sull’audience — e su cose più tangibili, come gli aiuti alimentari ed economici che l’Urss ottenne dall’Occidente fino alle ultime convulsioni del sistema — che il personaggio riportò per cinque anni nei paesi del mondo libero. Non fu lo scudo stellare di Ronald Wilson Reagan, non fu l’handicap riportato nell’apparato militare a far cadere il comunismo moscovita, ma il comunismo stesso, il «socialismo reale», l’implosione delle sue contraddizioni e del suo regime che coartava i diritti, i desideri e gli istinti più profondi dell’uomo.

Una caduta, quella del socialismo reale, iniziata già — secondo Bettiza, che ne parla nel breve cap. III (pp. 19-25) — con la morte degli ultimi «gerontocrati» bolscevichi Jurij Vladimirovič Andropov e Černenko, ma le cui radici risalivano a molto indietro, proprio agli anni della ribellione polacca e ungherese della metŕ degli anni 1950 e alla spietata repressione operata dai sovietici.

Se i tredici giorni della libertà ungherese «non sconvolsero il mondo», come scrive Bettiza, titolando il cap. III (pp. 27-51) — che parafrasa quello dell’opera dello storico marxista John Silas Reed sulla Rivoluzione di Ottobre — I tredici giorni che non sconvolsero il mondo, perché nessuna potenza del mondo libero rischiò un solo soldato per portare aiuto allo sfortunato popolo ungherese, lasciarono tuttavia tracce profonde e solventi potenti del potere comunista e dell’impero sovietico. In queste pagine Bettiza esamina soprattutto il profilo e il comportamento di János Kádár, già perseguitato dagli stalinisti e nell’ottobre del 1956 prescelto dai sovietici — al posto degli ormai impresentabili gerarchi stalinisti Mátyás Rákosi e Ernő Gerő — per incarnare quel ricambio di classe dirigente delle colonie che era nelle premesse del XX Congresso del Pcus e nei programmi della successiva de-stalinizzazione. Non si sa se fu coinvolto per amore o per forza — è ipotizzato un suo semi-rapimento in Urss dopo la sua convocazione all’ambasciata sovietica di Budapest da parte di Andropov, il plenipotenziario del Cremlino e del Kgb a Budapest nei giorni dell’insurrezione —, ma di fatto sarà colui — comunista non «d’acciaio», ma «di alluminio» lo definisce Bettiza (p. 44) —, che gestirà la repressione straniera e guiderà il paese quasi fino alla fine del regime.

Dopo Kádár è la volta — nel cap. IV (pp. 53-65) — di Imre Nagy, l’anziano ex-premier, che si trova all’improvviso messo alla testa di un moto che non condivide, o che non condivide fino in fondo, che cerca di governare per mantenerlo entro l’alveo della legalità socialista, ma che poi, a poco a poco, subisce il fascino dell’insurrezione nazional-liberale del suo popolo, ne assume la guida e le rimane fedele fino in fondo, anche dopo l’arresto, resistendo a tutte le pressioni, gli allettamenti e le torture fino a salire serenamente il patibolo nel 1958. A Nagy Bettiza dedica pagine di acuta penetrazione psicologica e politica.

Passando al di qua della Cortina di Ferro — nel cap. V (pp. 67-86) — è giocoforza per Bettiza imbattersi nel macigno togliattiano. Di Palmiro Togliatti, il «Migliore», mette in risalto l’intrinseco e immutabile «doppiogiochismo»: in Italia raffinato esegeta del gramscismo, uomo di cultura e di responsabilità «nazionali», nonché suadente tessitore di alleanze politiche, su Budapest — dove intuisce il pericolo di crollo dell’intero edificio del comunismo internazionale, almeno di obbedienza moscovita, dove conosce e teme e odia i polacchi e gli ungheresi, come popoli storicamente allergici a ogni dominazione esterna — è durissimo nei giudizi politici e spietato contro la «devianza» interna, rivelando di non aver dismesso i panni del rivoluzionario di professione e il volto brutale dell’alto gerarca del Comintern, ma solo di averli nascosti sotto il doppiopetto. Il suo influsso sulla cultura e sul mondo politico italiani — Bettiza dedica a questo tema il cap. VI (pp. 87-103) — saranno così intensi che la devianza rientrerà in tempi brevi e il partito assorbirà l’«incidente» del 1956 in poco tempo. A differenza della Francia di François Furet, di Alain Besançon, di Edgar Morin in Italia la memoria dei «fatti d’Ungheria», soprattutto della feroce repressione giudiziaria che si protrarrà per anni — anzi i minori di diciotto anni arrestati nel 1956 saliranno sul patibolo a misura che raggiungeranno la maggiore età — sarà soffocata e alterata o sopravvivrà in una forma radicalmente riduttiva. La rivolta di Budapest sarà ricordata dai più — quando lo sarà: non un saggio, non un romanzo, non un film —, come una rivendicazione anti-stalinista di socialismo «autentico» invece che come una schietta ed eroica rivolta contro la realtà socialista sovietica. E questo anche da parte degli eredi del comunismo vero nomine, si chiamino Achille Occhetto, Massimo D’Alema, Piero Fassino o Giorgio Napolitano.

Nell’Epilogo — (pp. 105-135) — Bettiza pone il problema del calcolo delle vittime: mentre qualcosa si sa dei feriti (circa 20mila), dei sovietici morti (secondo dati sovietici, circa 700), dei giustiziati (circa 1000), degli esuli (circa 200mila), non si sa nulla — e non pare assolutamente un caso — del costo umano dei combattimenti, anche campali, nella capitale, ma soprattutto nelle città minori e nelle campagne ungheresi: pare che la stima di circa 20mila caduti sia oggi considerata verosimile da molti, soprattutto se si tiene conto della potenza scagliata dai sovietici contro il piccolo paese danubiano — ben 5000 carri armati, secondo Bettiza, più di quelli con cui Adolf Hitler aggredì l’Urss nel 1941, rafforzati da aerei da bombardamento e da artiglieria pesante — e della implacabile volontà ricombattere dei giovani ungheresi. Se si tiene conto che l’Ungheria dell’epoca contava circa 10 milioni di abitanti — poco più dell’attuale Lombardia —, in percentuale il numero delle vittime non pare poi così esiguo: proviamo a pensare a ventimila lombardi caduti per liberarsi — servata distantia e mutatis mutandis — dell’Austria!

Viene poi sfiorata la figura del Primate d’Ungheria cardinale Jozséf Mindszenty, di cui Bettiza elogia il «senso di responsabilità e di misura» — evidenziati soprattutto nel discorso radiofonico del 3 novembre, alla vigilia dll’invasione — davanti agli eventi esplosivi che si trovò a vivere.

Bettiza in conclusione mette in ridicolo i tentativi di leggere i «fatti di Ungheria» — sui quali fornisce una discreta bibliografia non in lingua ungherese (pp. 137-139) — come una riforma del socialismo, che pur si rinviene — e lo fa con sereno puntiglio — nei massimi testimoni e commentatori della ribellione ungherese, Jean-Paul Sartre, François Fejtő e Indro Montanelli: si trattň invece di una classica insurrezione nazionalista, religiosa e condotta in nome delle più elementari libertà civili che il regime conculcava. Una rivolta autenticamente di popolo — non colpi di Stato come le grandi «rivoluzioni» sovietica, polacca, ungherese —, un moto corale inter-classista, a forte componente operaia e giovanile — incredibilmente i medesimi protagonisti del soprassalto rivoluzionario leninista che attraversò l’Europa a partire dal 1968 —, nella quale ci furono, come inevitabile, elementi conservatori o anche nostalgici ma che non ne determinarono né il momento né il vigore.

Pare — infine — bello il brano riportato da Bettiza di un anonimo commentatore ungherese che scrive sotto lo pseudonimo di «Hungaricus»: «Come le rivoluzioni del 1848, secondo la formula di Marx, aprirono la breccia nella crosta della società europea, così la nostra rivoluzione ha aperto la breccia più importante nella crosta del regime comunista sovietico, lasciando scorgere abissi che pochi conoscevano» (p. 109). Ma ancor più suggestivo il brandello, citato dal letterato magiaro Sándor Márai, di uno scrittore baltico, scomparso nella Lettonia occupata dai russi durante la seconda guerra mondiale, di cui si sa solo il cognome: Schubart: «Il bolscevismo è l’ultimatum che Dio ha mandato agli uomini» (p. 135). Un giudizio apocalittico, in cui non è impossibile rinvenire una remota eco — o, in ogni caso, una sottile consonanza — del messaggio mariano di Fatima. Il sacrificio dei magiari di due generazioni fa è stata una risposta eroica, forse irriflessa ma enormemente generosa a questo ultimatum. Chissà che la loro testimonianza sanguinosa, il loro «eccoci!», non assicuri un futuro meno oscuro all’Ungheria di oggi.

Oscar Sanguinetti
[21.10.2006]


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