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[...]
le cose sono ben più numerose delle parole […]
dato che non abbiamo abbastanza nomi per assegnarne uno a ogni cosa» (Seneca,
De beneficiis, 34, 2). E perciò chiamiamo «piede» sia quello che mi funziona poco da qualche tempo, sia quello del letto, sia quello del verso, etc..
È questa una verità che per lungo tempo ha fatto parte del patrimonio della cultura occidentale: la realtà è molto più ricca della sua rappresentazione concettuale. Almeno è stato così fino al Vico delle Institutiones Oratoriae, che fa eco a questo principio enunciato da Seneca, pur senza citarne espressamente la fonte.
Poi sono venuti illuminismo ed idealismo, con i loro derivati ideologici – primo fra tutti il marxismo in tutte le sue versioni –, che hanno cercato d’imprigionare la realtà in una sua rappresentazione, di ridurla a «idea della realtà», declinandola in forma utopica e assegnando alla Rivoluzione, cioè ai rivoluzionari e al partito che li organizza, il compito di ri-costruirla finalmente «libera dal male».
Quel che invece è accaduto è noto: la pretesa di ri-costruire il reale si è tradotta nella sua demolizione. E le macerie politiche, sociali, economiche, le distruzioni materiali e le innumerevoli vittime che le ideologie di derivazione illuministico-idealistica, i socialismi internazionalisti e nazionali, hanno lasciato dietro di sé nel XX secolo, ne sono l’inconfutabile prova.
Quelle ideologie dichiararono guerra a Dio e alla tradizione cristiana occidentale. Sono state davvero sconfitte? O, sviluppandosi, hanno solo cambiato pelle, come un virus che muta le sue caratteristiche e così resiste ai vaccini individuati per sconfiggerlo, e può perciò di nuovo attaccare l’uomo, con un morbo nuovo eppure antico? Nichilismo e relativismo sono questa «nuova pelle», con il conseguente e coerente egotismo «che ha come misura solo l’io e le sue voglie», e appaiono sempre più come fattori di una nuova devastazione, di una catastrofe, questa volta antropologica piuttosto che materiale.
Il romanziere americano Cormac McCarthy sembra percepire questa condizione apparentemente priva di umana speranza meglio di altri.
Egli l’ha già interpretata magistralmente nel suo Non è un paese per vecchi, dove, all’insensata e brutale violenza del nostro tempo spietato, fa da contrappunto la saggezza antica e «di destra», naturalmente religiosa, capace ancora di stupirsi per il male nel mondo e di ringraziare per il bene ricevuto da Dio sapendo di non meritarlo, dello sceriffo Ed Tom Bell. Al quale non sfugge l’ombra satanica che si stende sulla città moderna, sulla sua opacità, sui suoi vizi, sulle smanie distruttive e autodistruttive di una amoralità che ha nella droga la propria cifra.
Ma è ne La strada, il suo ultimo romanzo, premio Pulitzer 2007, che la percezione della disperata condizione umana contemporanea trova una forma espressiva che prende il lettore e gl’impedisce di staccarsi dalle pagine del libro prima di essere giunto alla fine.
Metafora del nostro tempo «arido, muto, senza dio», è un «dopo» che è già accaduto. Il mondo è morto: una terribile catastrofe (una guerra nucleare? un cataclisma?) – allusione alla catastrofe antropologica di cui ho appena detto – ha inaridito la terra, ha tolto trasparenza alle acque svuotandole di ogni forma di vita, depopolato il cielo, cancellato i colori ed ogni traccia della bellezza esteriore, ucciso tutti gli alberi; tra i sopravvissuti e il sole e il suolo, una patina di cenere, di pulviscolo volatile causato da incendi diffusi, che costringe ad indossare una mascherina e rende livido il panorama.
Fa freddo, molto freddo.
Tempo e spazio non hanno più nome, non sono più definibili.
Un uomo ed un bambino, senza nome e senza età, l’uomo ed il bambino, vagano come tanti alla ricerca di mezzi e luoghi di sopravvivenza. Sono padre e figlio. Ed il padre ha trovato nella protezione del figlio una vocazione e una missione, che gli ha consentito di non essere tentato dal suicidio e di trovare la forza per vivere e lottare: «Io ho il dovere di proteggerti. Dio mi ha assegnato questo compito». Il bambino è «l’unica cosa che lo separava dalla morte». La moglie, la madre del bambino, invece ha scelto il suicidio, non ha saputo amare, spaventata dal destino proprio e del figlio, la cui esistenza ritiene indegna di essere vissuta, e prima di uccidersi confessa che avrebbe ucciso anche il frutto delle sue viscere, per il suo bene, se lui, il padre, non gliel’avesse impedito con la sua semplice presenza.
In una natura ormai estranea e ostile, attraversando le rovine di una civiltà che per il suo progresso tecno-scientifico, per la grandiosità delle sue realizzazioni materiali, si è pensata come la rivincita su Dio dopo Babele, e che invece è ancora una volta vinta dalla «rivelazione finale della fragilità di ogni cosa», i due percorrono una strada, che è fatta di un groviglio di itinerari senza origine e anonimi. Continuano a camminare verso il mare alla ricerca di un improbabile tepore. Sono forti dell’amore purissimo che li lega e della tenerezza che ne scaturisce, armati di una pistola con solo due pallottole per difendersi dalle minacce mortali dei predoni – sopravvissuti come loro, che cercano e accumulano carne umana di cui nutrirsi, fino a procrearla apposta –, tra incontri simbolici e sorprendenti ritrovamenti delle risorse per vivere ancora, nutrirsi e proteggersi dal freddo, grazie ai legati della laboriosità e della capacità di conservare, di non consumare e dissipare tutto, di chi li ha preceduti.
Il bambino ha paura. È terrorizzato. Ma non smette di pensare al bene, al giusto, al vero. La bellezza sopravvive nella sua interiorità. Lui che è nato quando la catastrofe era già accaduta, che non ha mai visto un altro bambino e non ha mai conosciuto la convivenza ordinata, la convivenza fraterna, ha compassione per i vivi e per i morti, si pone il problema della moralità di ogni atto, sa e intende amare, pure in un mondo desolato e senza futuro. Convince il padre a donare parte del poco che hanno, a non privarsi per lui della misera razione giornaliera di energia. È buono, vuole semplicemente essere buono. «Siamo ancora noi i buoni. E lo saremo sempre». «Se non è lui il verbo di Dio, allora Dio non ha mai parlato», pensa il padre, ed il bambino osserva sfarinarsi un fiocco di neve come «l’ultimo esercito della cristianità».
L’uomo stringe a sé il figlio, prova dolore per la sua magrezza ossuta, gli chiede scusa per le tremende e nefande brutture che non riesce ad evitargli di osservare, e quando il bambino gli chiede «noi non mangeremmo mai nessuno, vero? Neanche se stessimo morendo di fame?», gli risponde rassicurandolo «no. Certo che no». E la memoria del lettore corre al racconto di Solzenicyn, dei fuggiaschi dal GULag, che stremati e vinti dalla fame nel deserto della taiga siberiana pensano di uccidere il più debole del gruppo e nutrirsi delle sue carni, bere il suo sangue. Ma poi l’ultimo brandello d’umanità che il comunismo non aveva ancora loro strappato li convince che no, non possono essere come «gli altri», come i carnefici cekisti. Loro sono diversi, e certe cose non le fanno.
L’uomo, osservando gli scaffali ribaltati in mezzo alle rovine di una biblioteca incendiata, «prova un moto di rabbia di fronte a quelle migliaia di menzogne allineate rigo su rigo». Quella realtà futura, senza nome e senza luogo, dove «non c’è un dopo» perché «il dopo è già qui», somiglia sempre di più al nostro tempo, al nostro mondo, pure apparentemente intatto, vivo, caldo e colorato. Già qui e ora c’è qualcuno, o più di qualcuno, «che ha fatto del mondo una menzogna fino all’ultima parola».
Se una volta c’erano più cose che nomi, dopo la grande ed omicida menzogna del tentativo di ridurre il mondo alla sua idea, sembra che le cose non ci siano più, e che le parole siano persino troppe. Ma presto i nomi seguiranno le cose nell’oblio. La realtà sta sfuggendo all’uomo, come si andava estinguendo agli occhi del protagonista de La strada: «I nomi delle cose […] seguivano lentamente le cose stesse nell’oblio. I colori. I nomi degli uccelli. Le cose da mangiare. E infine i nomi di ciò in cui uno credeva. Più fragili di quanto avesse mai pensato. Quanto di tutto questo era già scomparso? Il sacro idioma privato dei suoi referenti e quindi della sua realtà».
È davvero diversa la nostra condizione?
McCarthy ce ne offre una straordinaria metafora, che talvolta prende alla gola, ed un groppo sembra soffocarci.
Ma nel difetto apparente di speranza e cioè di storia, il bambino de La strada somiglia sempre di più al puer virgiliano, se non ad un altro Bambino. Il suo ingenuo amore per i vivi, per i morti e per quelli verranno, la sua irriducibile consapevolezza del bene e del male, la sua ferma volontà di rimanere tra i buoni, la sua convinzione – nonostante la paura di cui è preda e che mai lo abbandona – di cavarsela comunque, che non succederà loro nulla di male «perché noi portiamo il fuoco», aprono – ed è una sorpresa narrativa, perché tutto il clima del racconto è cinereo – uno spiraglio alla speranza, ad una nuova storia, che sarà scritta intorno al fuoco di quella speranza nutrita dalla verità e dall’amore.
È necessario perciò diventare come quel bambino, il bambino di McCarthy, nel quale, e gliene sono grato, è riconoscibile un altro bambino: «Allora Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse:In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chi diventerà piccolo come questo bambino sarà il più grande nel regno dei cieli» (Mt., 18, 2-4).