Le logiche che tra XVI e XVII secolo furono proprie della politica dinastica italiana — e fra i pregi di questo libro vi è che attesta che un tale sistema politico di carattere comunitario vi fu davvero — marciarono di pari passo con lo sviluppo delle realtà territoriali su cui regnavano le famiglie principesche. Si pensi all’area padana, alla fioritura dei suoi micro-Stati sovrani nelle città come Mantova, Modena, Parma, o in cittadine minuscole e apparentemente insignificanti come Guastalla, Massa, Mirandola. Ancora, massicce identità regionali come il Piemonte o la Toscana devono oggi parte della loro qualificazione politico-culturale alle famiglie che le governarono per secoli, nella prima età moderna più come entità organiche d’antico regime che come Stati burocratici assoluti. Infatti, come recita una tesi — a mio avviso cruciale — di questo studio di Spagnoletti, dall’incoronazione a Bologna dell’imperatore Carlo V (1500-1558) nel 1530 fino all’incirca alla Guerra di Successione Spagnola, le numerose e piccole realtà politiche italiane poterono garantirsi una reale autonomia dichiarandosi vassalle dell’Impero, o del Papato, svincolandosi così dalla corona spagnola che in quell’epoca esercitava la sua egemonia nella penisola. A quel tempo esisteva dunque un’identità politico-dinastica tutta italiana, ci viene detto. Vigeva una
pax hispanica sotto la cui egida vivevano gli antichi, monarchici e piccoli Stati italiani, ciascuno con la sua colorita identità.
Questo libro di Angelantonio Spagnoletti, ricco di fonti e sovrabbondante di indicazioni bibliografiche, invita appunto a comprendere quale fu la politica delle casate italiane in quel periodo, in cui si delinea chiaramente un sistema dinastico comunitario
«fatto di interrelazioni politiche e familiari, comunità d’intenti e condivisione di prospettive tra i principi» (p. 9), che termina con il secolo XVIII, quando si esaurisce in Italia il predominio di Madrid, quando riappare in ascesa la casa degli Asburgo d’Austria, e — prima ancora — l’influenza della Francia, quando il Papato perse il suo peso diplomatico e prevalse l’assolutismo statuale e, infine, alcune casate italiane si estinsero. Spagnoletti, pertanto, esamina la politica delle dinastie nel XVI secolo e in quello successivo, perché in seguito non vi fu che un unico sistema politico, caratterizzato dalla guida di Vienna e da un’idea di Stato assolutistica. Si tratta, dunque, di un lavoro storiografico dal taglio non casualmente cronologico e che illustra un’epoca politica e culturale precisa. Lo stesso spazio geografico è circoscritto, trattandosi di un libro dedicato esclusivamente alle dinastie di origine italiana e manca quindi di pagine dedicate ad altri soggetti i quali sono altrettanto generatori d’identità, come le repubbliche, lo Stato della Chiesa, i vice-reami spagnoli del Mezzogiorno e il Ducato di Milano.
Spagnoletti ci dice subito nel primo capitolo che a metà del Cinquecento, scomparsi — tra le famiglie più significative — gli Aragona di Napoli, i Paleologo del Monferrato e gli Sforza di Milano, nacque un ordinamento dinastico italiano legittimato per via feudale in parte dall’imperatore e in parte dal papa, che durò all’incirca due secoli. A parte il caso dei Della Rovere di Urbino estintisi nel 1631, le famiglie Cybo Malaspina, Este, Farnese, Gonzaga, Grimaldi, Ludovisi, Medici, Pico e Savoia ebbero costantemente una politica comune fino al primo Settecento. Le uniche casate che si differenziarono alquanto furono, si direbbe in maniera simile, quella sabauda e quella medicea in Toscana. Non si trattò qui di una discordanza nei riferimenti culturali fra loro e le altre dinastie, quanto invece di una rincorsa del primato, di un continuo tentativo di elevarsi al di sopra delle altre case italiane. A partire dai titoli più alti agognati e poi ottenuti — quello di Granduchi di Toscana per i Medici, concesso dal pontefice san Pio V (1566-1572), quello di re di Cipro per i Savoia concesso dall’imperatore Ferdinando II (1619-1637) —, fino ad arrivare ai matrimoni ipogamici sempre ricercati — le donne Medici e Savoia, a differenza delle altre famiglie, venivano accasate con membri delle dinastie reali d’Europa —, vi era sia a Firenze sia a Torino l’innegabile tentativo di essere considerati i primi d’Italia, desiderando un ruolo da «grandi» duchi o «piccoli» re che avrebbe posto le due famiglie al comando del sistema politico-dinastico italiano. A causa della scomparsa biologica della dinastia Medici nel 1737, comunque, solo i Savoia riuscirono appieno in questo intento: nel Settecento sopravvissero cioè a un sistema politico ormai esaurito, ottenendo l’importante titolo regio — siciliano prima e poi sardo — su di un territorio italiano, ma anche adeguandosi giocoforza alla generale concezione assolutistica del potere.
In definitiva, quali caratteristiche possedette questo sistema principesco italiano? Dal secondo capitolo fino al termine dell’opera, Spagnoletti ne racconta appunto le peculiarità e i suoi elementi fondanti. La dialettica politico-dinastico si basava innanzitutto sull’antitesi culturale fra principati e repubbliche: a queste ultime, mercantili e negoziatrici, creditrici e clienti della Spagna, le famiglie sovrane contrapponevano i concetti di onorabilità e di cavalleria, l’assoggettamento feudale all’Impero o al Papato, la realizzazione concreta della giustizia e un sistema di governo gerarchico ritenuto da loro
«più simile a quello di Dio» (p. 101). Nelle corti, fra l’altro, le repubbliche venivano considerate come istituti meramente conservativi e deboli militarmente, connotato che
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a mala pena nascondeva profondi e feroci conflitti […]
» (p. 93), e che per giunta le poneva al di fuori del sistema politico. Poter occupare una posizione preminente nel consesso dei sovrani e così rimarcare una gerarchia o legittimare una posizione nuova, invece, costituiva una carta fondamentale per influire sui negoziati, sulle decisioni e sugli equilibri.
Certamente la potenza del proprio Stato era elemento fondamentale nella politica del Cinque-Seicento, e nessuno — tanto meno Spagnoletti — lo nega, ma nelle relazioni con gli altri principi
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i parentadi contratti costituivano — per esempio —
gli elementi in base ai quali si costituiva la superiorità» (p. 157). Uno degli strumenti politici delle casate italiane fu dunque la politica matrimoniale: Spagnoletti individua tre fasce di famiglie alle quali corrisposero rispettivamente tre modelli matrimoniali di differente livello. Il primo gruppo, caro soprattutto alle dinastie
«più illustri e ragguardevoli» (p. 168), era composto dai Savoia, dai Medici, dagli Este, dai Farnese e dai Gonzaga di Mantova, ai cui maschi era concesso di ammogliarsi con donne di rango pari al loro o addirittura più elevato, e di contrarre quindi matrimoni asimmetrici. Alla seconda fascia, invece, composta dalle casate italiane sovrane di piccoli Stati come Urbino, Massa, Mirandola, Guastalla e altri ancora, corrispondevano matrimoni paritari, con mogli provenienti dalle famiglie del medesimo gruppo, o dai rami cadetti delle famiglie italiane più importanti, o ancora dai figli naturali dei più grandi sovrani europei. Da ultimo, appartenevano a un terzo ordine le casate principesche prive di veri Stati, come i Trivulzio, i Borromeo, gli Orsini o i Colonna, cioè famiglie nobili che solo raramente riuscivano ad accasare le loro fanciulle con membri delle famiglie sovrane italiane. Detto ciò, è superfluo aggiungere che questa suddivisione dei circuiti matrimoniali era allora volentieri rispettata, pena il fallimento delle unioni stesse e della loro funzione politica: si pensi a Vincenzo II Gonzaga (1594-1627), ultimo duca di Mantova del ramo primogenito, che a lungo tentò, senza mai riuscirvi, di farsi annullare il matrimonio infecondo contratto imprudentemente con la cugina Isabella Gonzaga (1576-1627), appartenente al ramo cadetto di Novellara. Questo fu appunto un caso raro: i matrimoni sconvenienti furono pochi e al momento delle nozze il successo diplomatico era quasi sempre scontato. È altrettanto vero, però, che proprio queste unioni politiche potevano a lungo andare causare divergenze, coalizioni avverse — per esempio la continua
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cupidigia in materia matrimoniale dei Savoia suscitò la diffidenza dei principi italiani» (p. 219) — o guerre, e pertanto la loro reale efficacia diplomatica era messa in questione dagli stessi commentatori contemporanei.
Oltre alla politica matrimoniale, ciò che le casate italiane avevano in comune erano anche — si legge nella seconda parte del libro — i più diversi aspetti della vita familiare, fra i quali spiccava il «gioco di squadra» di ciascuna casata, con destinazioni simili per i fratelli del principe ereditario. In Italia, in verità, vigeva allora una sorta di mito famigliare: quello degli Asburgo d’Austria, fra i quali — a differenza degli stessi Asburgo di Spagna — proliferavano i rami cadetti. Le dinastie italiane emulavano questo sistema: ciò risultava proficuo a causa delle molteplici relazioni diplomatiche e di potere che i rami secondari potevano assicurare, nonché per la certezza successoria nel caso di una interruzione biologica del ramo primogenito. Per sostenere la dinastia, ma anche e soprattutto per soddisfare i cadetti privi di sovranità, dunque, pullularono a quel tempo — come li chiama qui Spagnoletti — i ruoli «ammortizzatori». Un incarico influente nella gerarchia ecclesiastica, per esempio, poteva non solo gratificare il secondogenito, ma suonava a volte come una vera promozione politica della famiglia, specialmente — si ricordi Ferdinando de’ Medici (1549-1609), figlio tredicenne di Cosimo I (1519-1574) — se si trattava della concessione da Roma del cardinalato. Gli appannaggi territoriali e la creazione di rami cadetti, ancora, appagavano i secondogeniti e soprattutto risolvevano il problema della successione — si pensi ai Gonzaga Nevers o ai Gonzaga Guastalla — senza per altro evitare del tutto il rischio di conflitti militari. Allo stesso modo, una carica governativa provinciale risultava sia gradita al cadetto sia utile alla dinastia. Ma soprattutto — ciò che più fa notare Spagnoletti — alcuni di questi figli minori delle casate sovrane italiane — terzogeniti, quartogeniti, ecc. — svolgevano dei compiti specifici che arricchivano l’iconografia dinastica: un comando militare all’estero — si ricordi Mattias de’ Medici (1629-1666), fratello di Ferdinando II (1610-1670) — apportava valore militare al capo della casata, ritratto spesso in veste militare ma normalmente assente dai campi di battaglia; un religioso in famiglia, magari in odore di santità — per esempio il francescano Annibale Gonzaga di San Martino (1546-1620), che fu vescovo di Mantova — contribuiva a rinvigorire l’aspetto mistico della sovranità e l’attaccamento della popolazione alla famiglia regnante.
Eppure, in questo sistema politico-dinastico generale non solo i cadetti avevano un ruolo complementare. Certo, questi ultimi potevano raggiungere l’alto incarico cardinalizio — ma mai in quest’epoca si dà un accesso al soglio pontificio, al quale dalla seconda metà del XVI secolo non ascese nessun membro delle dinastie sovrane italiane — e magari abbandonarlo quando la linea successoria era in pericolo, o svolgere il ruolo di
marriage broker per garantirla. Tuttavia d’importanza capitale per le famiglie sovrane erano anche — si legge — le figlie, sia nel ruolo di promesse spose e mogli, sia in qualità di madri. Oltre alla funzione politica delle nozze — che fra l’altro le donne non accettavano mai passivamente, mettendo a volte in difficoltà
«i negoziatori e le stesse relazioni tra due Stati» (p. 253) — aveva infatti carattere complementare l’azione pubblica della sovrana accanto al consorte regnante, soprattutto nell’ambito
«dell’assistenza, della creazione, organizzazione e gestione dello spazio sacralizzato e delle pratiche cultuali che vi inerivano» (p. 256). Un ruolo di primo piano nel sostegno dinastico ebbero le cosiddette reggenze, forme di governo al femminile che, alla scomparsa prematura del padre garantivano la successione del figlio primogenito in minore età. Alcune madri, come Maria Maddalena d’Austria (1589-1631), vedova di Cosimo II Medici, svolsero una politica propria e furono elogiate dai contemporanei; altre, come Maria Giovanna Battista (1644-1724) vedova di Carlo Emanuele II di Savoia, di fronte all’invadenza altrui — in questo caso il re Sole Luigi XIV di Borbone Francia (1638-1715) — non riuscirono appieno a dare continuità all’azione politica del proprio Stato.
Secondo Spagnoletti, altro elemento del sistema politico-dinastico italiano era l’idea della memoria famigliare, che serviva a garantire continuità e ordine. In Italia, a partire infatti dall’onomastica delle famiglie — e in particolar modo dalla ripetizione dei nomi lungo le generazioni, o dal loro accoppiamento per attestare particolari fedeltà, come quella agli Asburgo dell’Impero o a culture, come quella dell’antichità romana con nomi quali Orazio, Pompeo, Giulio, ecc. — si arrivava all’educazione di carattere prettamente storico dei principi ereditari, per coltivare in loro l’orgoglio della schiatta.
«Gli esempi di personaggi illustri […]
dovevano infiammare «gli animi generosi» e costituivano, meglio di tanti progetti educativi, la «viva schuola» alla quale dovevano guardare non solo i giovani principi, ma anche il sovrano regnante» (p. 309). In questo contesto si potrebbe far rientrare l’esaltazione delle radici famigliari tramite genealogie vertiginose: i Savoia si dicevano infatti discendenti dei sovrani sassoni, i Malaspina dalla
gens Martia, gli Este — ma qui i genealogisti si trasformavano in romanzieri — addirittura dal biblico Iafet. Chi, come casa Medici, non poteva invece nascondere l’origine umile, dichiarava di aver ereditato lo spirito di una repubblica, oppure — e meglio — si accontentava di rifarsi a illustri alleanze parentali contratte con casate di origine antica, ma in anni più recenti. In quest’ultimo caso — col quale venivano rafforzate le politiche matrimoniali predette — si metteva in risalto l’evoluzione araldica: le armi, modificandosi con il mutare dello
status, dei titoli, dei parentadi, rammentavano a tutti che anche quello delle dinastie era
«il tempo della storia più che del mito» (p. 333).
Tutto ciò, per la memoria e per l’identità di una dinastia — e dunque di un territorio — evidentemente non bastava ancora. Si ricorreva allora a
Pantheon in cui venivano sepolti i principi defunti, si promuovevano devozioni e si patrocinavano le canonizzazioni di santi locali, si praticava di frequente l’ostensione di reliquie per dare un’aura di sacralità al sovrano loro custode — le più eccezionali erano la reliquia del Sangue di Cristo conservata dai Gonzaga a Mantova o la Sacra Sindone custodita dai Savoia a Torino —, si richiedevano vescovi insigni per accrescere l’onorabilità della città, e altro. Lungi dall’essere un elemento
tabù, anche la morte, in un certo senso, aveva una sua funzione tutta politica: attribuirle infatti un carattere di normalità significava instillare
«[…]
nei sudditi l’idea che tutto potesse scorrere come prima» (p. 347), ossia l’idea di un ordine garantito a lungo dalla durevolezza della dinastia. E dunque, nonostante la drammaticità delle malattie dei sovrani che si traducevano in calamità per gli Stati, i decessi avvenivano serenamente, nella tranquillità della popolazione. La tragicità compariva soltanto quando a morire era un figlio unigenito, e la successione — così come la pace — appariva compromessa.
Gabriele Maspero