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a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale





RECENSIONI



AURELIO MUSI (a cura di), Alle origini di una nazione. Antispagnolismo e identità italiana(Atti del convegno di studi omonimo, Maiori (Salerno), 29/31-5-2002), Guerini e Associati, Milano 2003, pp. 448.


Le guerre d’Italia (1494-1559) e la conseguente prevalenza nella Penisola della Casa d’Asburgo, prima nel suo ramo imperiale poi in quello «spagnolo», hanno condizionato a lungo il giudizio storico sull’Italia dei secoli XVI e XVII.

Quel periodo è stato definito delle «preponderanze straniere» (1) ed è stato letto in termini non solo di ritardo istituzionale rispetto alle altri parti d’Europa, ma anche di decadenza civile e morale, che avrebbe inizio appunto con l’egemonia acquistata nel Paese dalla Corona spagnola e che proseguirebbe con la Controriforma e con il Barocco.

Il paradigma storiografico della «decadenza» era fondato su una proiezione anacronistica dell’idea dell’unità e dell’indipendenza nazionale, cioè su una visione della storia italiana come sequenza di «occasioni mancate» verso l’unificazione politica, e assumeva un significato dialettico rispetto al successivo «risorgimento»: «[...] il mito del Risorgimento — spiegava negli anni 1960 lo storico Luigi Bulferetti (1915-1992) — postulava la leggenda della «decadenza» dalla quale risorgere» (2). «Le esigenze polemiche dell’epoca illuministica e del Risorgimento, che si cumularono le une sulle altre — aggiunge Giuseppe Galasso, nel 1979 —, avevano [...] da gran tempo preparato ed elaborato l’opinione riferita poi, in una delle sue più classiche formulazioni, dal Croce nel 1915» (3).

Francesco De Sanctis (1817-1883) nella sua complessiva ricostruzione della vicenda culturale italiana userà la formula di «malgoverno papale spagnolo» (4) per attribuire la responsabilità della «decadenza» sia alla Chiesa cattolica, accusata di aver impedito l’unificazione della Penisola e di aver infiacchito il carattere degli italiani, sia alla «Spagna», nel cui dominio ravvisava una delle cause principali della mancata unificazione politica.

Sull’anti-spagnolismo, che fu in­­dubbiamente una componente, ben­ché non dominante, della cultura e del sentimento politico in Italia a partire dal secolo XVI, si è svolto a Maiori, dal 29 al 31 maggio 2002, un convegno di studi, organizzato dal Dipartimento di Teoria e Storia delle Istituzioni dell’Università degli Studi di Salerno, di cui sono stati pubblicati di recente gli atti (5).

L’animatore del convegno, nonché curatore della raccolta, Aurelio Musi, dopo una Prefazione (pp. 9-10), in cui ricorda che l’atteggiamento di opposizione alla Spagna «[...] ha costituito, nel corso dell’Ottocento, un potente mito negativo di fondazione nazionale» (p. 9), rappresentando uno dei puntelli dell’ideologia risorgimentale, illustra Fonti e forme dell’anti-spagnolismo nella cultura italiana tra Ottocento e Novecento (pp. 11-45). «L’antispagnolismo — esordisce lo storico campano — fu un concetto, un atteggiamento mentale, un’espressione assai significativa del rapporto fra cultura, società e politica, che coinvolse il senso comune storico e storiografico [...] nell’Ottocento romantico soprattutto in quei paesi in cui il trinomio patria-nazione-libertà ebbe bisogno, più che altrove, di costruire miti di fondazione dei nuovi Stati unitari e indipendenti» (p. 11). Esso presupponeva un’altra creazione concettuale, quella dello spa­gnolismo, inteso come malgover­no, oppressione di tutte le libertà e sostegno incondizionato, anche ar­ma­to, alla Controriforma, ma pure co­me dicotomia fra diritto e fatto, fra il piano della legislazione e il piano del­la pratica politica.

Musi distingue, poi, fra la costruzione del «tipo ideale», del modello ne­­gativo, che si costruisce intorno alla Spagna e alla cultura spagnola; la nascita dello «stereotipo», «ossia la fissità immutabile del “tipo ideale” nel “tipo antropologico”» (p. 13); e l’uso politico dello stereotipo stesso. Individua, quindi, recenti «forme di antispagnolismo rivisitato» (p. 42), che si distaccano dai toni più radicali della tradizione storiografica ma nella sostanza ne riprendono alcuni aspetti: una linea che si richiama a De Sanctis e che fa riferimento allo storico napoletano del diritto Raffaele Ajello, e un orientamento al quale possono essere riportati gli studi dello storico calabrese Rosario Villari, che ripropone il legame fra feudalesimo, parassitismo economico e presenza spagnola nel Mezzogiorno d’Italia. Di anti-spagnolismo rivisitato parla pure a proposito della produzione storiografica di Giuseppe Galasso, anche «[...] se, nel suo caso, la categoria va utilizzata con una dose elevata di equilibrio» (p. 45). Infatti, sono note le posizioni critiche dello storico partenopeo nei confronti della «leggenda nera» sulla Spagna cattolica, «[...] permeata di elementi ideologici che hanno fatto fortemente premio non solo sulla ragione storica, ma pressoché su ogni altra ragione [...] [e] costruita sulla scorta di due secoli di po­lemiche protestanti e illuministiche, liberali e nazionali, sociali e democratiche, massoniche e umanitarie» (6). Anche verso coloro che attribuiscono un ruolo «colonizzatore» alla Corona spagnola nei confronti degli Stati italiani la posizione di Galasso è netta: «Su questo punto è opportuno insistere. Nei varii paesi la qualità ereditaria e patrimoniale di «signori naturali» propria dei sovrani asburgici spagnoli o un graduale processo di adattamento e di amalgamazione avevano dato luogo nel corso di un paio di secoli non solo all’osservanza e al senso di appartenenza dinastica di cui si è detto, variamente ma ovunque sentiti sia nelle classi alte che in quelle popolari, ma avevano pure fatto della monarchia e della dinastia, al più tardi a partire dal regno di Filippo II [(1527-1598)], un binomio inscindibile e una grande realtà della vita civile e morale d’Europa. Pur nel declino della monarchia all’indomani delle paci di Westfalia [(1648)] e dei Pirenei [(1659)], questa base etico-politica non venne meno» (7). Quindi, prosegue, Galasso «[...] l’Italia dei secoli XVI e XVII fu lontana, in particolare, dal vivere il rapporto con la Spagna nell’ottica di un’oppressione straniera. [...] Nell’etica civile di quel tempo l’appartenenza di più paesi alla medesima corona e dinastia non configurava alcun problema di nazionalità oppressa. Se la sovranità regia era legittima, la coscienza pubblica e il sentimento politico non potevano trovarvi alcunché di incongruo col proprio orizzonte psicologico e culturale» (8).

Gli atti del convegno sono articolati in quattro parti: Tra Seicento e Settecento: i presupposti (pp. 47-160); Caratteri comuni e caratteri regionali dell’anti-spagnolismo (pp. 161-309); Il Novecento (pp. 311-368) e la Tavola rotonda (pp. 369-429).

Non è mia intenzione soffermarmi su tutte le relazioni, ognuna delle quali merita di essere letta con attenzione, quanto meno per la gran quantità di informazioni riportate, che non possono essere sintetizzate in poche pagine.

Un inquadramento generale è offerto dallo storico Marcello Verga nell’intervento su La Spagna e il paradigma della decadenza italiana fra Seicento e Settecento (pp. 49-81), che amplia la prospettiva d’indagine ad altri centri della cultura europea nel frangente in cui — fra gli ultimi anni del secolo XVII e i primi decenni del secolo XVIII — nasceva l’idea dell’Europa come alternativa alla Cristianità occidentale. Il motivo della decadenza dell’Italia e della Spagna segna un confine fra due aree differenti, «tra l’Europa della Riforma e della libertà d’opinione e l’Europa «nera» e in decadenza del papismo» (p. 51), divise anche geograficamente fra un’Europa del Nord e un’Europa mediterranea, «ed insieme tra un’Europa vera e propria ed un’Europa meno Europa, per indicare la quale si «inventò» la definizione di Europa orientale» (ibidem).       

Nell’area protestante, ma anche in alcuni ambienti francesi tendenti ad affermare la superiorità della cultura d’Oltralpe, si consolida sulla società italiana un giudizio negativo, che trova espressione nella letteratura di viaggio e nei periodici eruditi dell’Inghilterra e dell’Olanda, che nel primo Settecento saranno strumento centrale nella formazione dell’«opinione» europea. Non mancherà la reazione dei letterati italiani, che segnerà un momento importante del rinnovamento del dibattito italiano sul «buon gusto» e sul «genio della lingua», ma l’idea di una decadenza culturale sarà comunque fatta propria da personaggi come il sacerdote Ludovico Antonio Muratori (1672-1750), storico e letterato, e l’ex-gesuita Girolamo Tiraboschi (1731-1794), autore di una Storia della letteratura italiana, edita a Firenze fra il 1774 e il 1778, che ne daranno una interpretazione accettabile dai letterati e dai ceti colti della Penisola. In questo contesto saranno pochi e frammentari i riferimenti agli effetti negativi della presenza spagnola, almeno fino al se­co­lo XIX, quando l’egemonia spagnola sarà considerata da larga parte della cultura politica dell’Ottocento uno dei fattori più rilevanti della decadenza — «e il successo dei Promessi Sposi ne è un esempio precoce, ma assai significativo» (p. 78). Un’eccezione è rappresentata da una parte degli intellettuali napoletani, di cui parlano Giuseppe Ricuperati, che descrive L’immagine della Spagna a Napoli nel primo Settecento: Vico, Carafa, Doria e Giannone (pp. 83-111), ed Eugenio Di Rienzo, che si sofferma su L’anti-spagnolismo a Napoli da Genovesi a Filangieri (pp. 113-133). Questi distingue fra un anti-spagnolismo «politico», rappresentato soprattutto dal filosofo genovese Paolo Mattia Doria (1667-1746) e dallo storico e giurista pugliese Pietro Giannone (1676-1748), entrambi napoletani d’adozione, e un anti-spagnolismo «tecnico», proprio dei primi illuministi, come il sacerdote Antonio Genovesi (1713-1769), Ferdinando Galiani (1728-1787) e Giuseppe Maria Galanti (1743-1806), secondo i quali «[...] il paese iberico costituiva la summa di tutti i mali» (p. 127). Ad essi seguirà un anti-spagnolismo «spontaneo», cioè l’adesione a un luogo comune ormai cristallizzato nella vulgata storiografica nazionale e internazionale, la cosiddetta leggenda nera spagnola, che ebbe inizio in Italia con gli scritti del letterato marchigiano Traiano Boccalini (1556-1613) e dello scrittore modenese Alessandro Tassoni (1565-1535).

Anche la controversa valutazione della funzione svolta dalla Spagna nei territori d’Oltremare fu occasione di polemiche, prese in esame dall’americanista Francesca Cantù in Spagnolismo e antispagnolismo nella disputa del Nuovo Mondo (pp. 135-160). Gli scritti del domenicano Bartolomé Las Casas (1474-1566), sfruttati per la prima volta in chiave di denuncia dell’oppressione spagnola nelle Fiandre del tardo Cinquecento, nel contesto della rivolta religiosa e politica dei Paesi Bassi, vengono stampati a Venezia nel 1626 e utilizzati dalla Serenissima e dal Ducato di Savoia in funzione anti-asburgica durante la Guerra dei Trent’anni (1618-1648). «L’anti-spagnolismo che permeava tale disputa si radicava in un’opposizione previa e sistematica alla Spagna, cha agli occhi dell’Europa dei Lumi incarnava i principi di un ordine tradizionale, oscurantista e ripugnante alla ragione» (p. 145).

Per questo motivo Giovanni Muto, intervenendo su L’impero come impossibile identità comune (pp. 371-394), ritiene che gli scritti esplicitamente anti-spagnoli possono essere compresi pienamente solo all’interno della congiuntura in cui sono nati. è convinto infatti «[...] che l’anti-spagnolismo — come categoria del discorso politico — trovi la sua ragion d’essere nella specifica congiuntura che abbraccia un arco secolare dalla metà del XVI secolo alla metà del XVII» (p. 371), quando tramonta il sogno imperiale di Carlo V d’Asburgo (1500-1558) a causa di resistenze interne ed esterne, del dissesto della finanza pubblica castigliana e della diffusione di una significativa produzione di libelli volti a rappresentare la monarchia spagnola come un pericolo per l’intera Europa. Non mancano però gli sforzi posti in essere nel primo Seicento dalla cultura politica spagnola, e anche da autori di provenienza portoghese, per ricostruire un campo teorico di sostegno all’azione della monarchia. Costoro si mostrano capaci di restituire credibilità all’azione del potere politico e di difendere l’identità di gran parte della società spagnola proprio mentre entra in una crisi progressivamente crescente. «La difesa appassionata che nel crinale fra Cinquecento e Seicento la Spagna fece di sé stessa e del sogno di un’Europa vittoriosa sui turchi, unita politicamente dal trionfo della Pax Austriaca — nota Maria Antonietta Visceglia, nel suo Mito/antimito, spagno­lismo/antispa­gnolismi: note per una conclusione provvisoria (pp. 407-429) —, è un capitolo fondamentale della storia della cultura spagnola, forse però ancora poco indagato nella storiografia italiana» (p. 414).

Angelantonio Spagnoletti, che in­vita a Periodizzare l’anti-spagnolismo (pp. 395-405), prende in esame la consistente letteratura filo-spagnola in Italia, il cui utilizzo consente di discernere le varie fasi della presenza ispanica nella Penisola e di riconoscere le articolazioni di un periodo che la storiografia sabaudista ha considerato come un unico blocco temporale (9). In una prima fase, caratterizzata dalla presenza in Italia di grandi principi capaci di svolgere, all’interno del sistema imperiale, una politica che tutelava gli interessi nazionali, l’anti-spagnolismo non riesce a trasformarsi in opinione comune, mentre in una seconda fase, nella prima metà del secolo XVII, di fronte alle prime incrinature nel dominio ispanico, si verificano consistenti reazioni di rigetto che trovano espressione sia nella panflettistica sia nelle relazioni degli ambasciatori veneti alla corte di Madrid. In una terza e ultima fase, nella seconda metà del secolo XVII, cioè quando è più forte la pressione della Francia nei confronti della monarchia cattolica, l’anti-spagnolismo e il filo-francesismo convivono con atteggiamenti filo-spagnoli e anti-francesi. Questo filo-spagnolismo si nutriva nella consapevolezza che il sistema politico italiano era strettamente intrecciato a quello spagnolo e che la caduta della monarchia asburgica avrebbe determinato, come in effetti avvenne, la fine di numerosi Stati indipendenti della Penisola. Al contrario, le nuove dinastie e potenze insediatesi in Italia durante e dopo le guerre di successione vollero rimarcare la differenza nella progettualità e nella prassi di governo rispetto al passato e fecero ricorso all’anti-spagnolismo come elemento fondante della loro legittimità ed efficace supporto ideologico al riformismo illuminato del secondo Settecento.

«Se nella prima età moderna — osserva ancora Maria Antonietta Visceglia — l’anti-spagnolismo, con armi diverse — dalla satira alla trattatistica politica ­— si propone di delegittimare il potere spagnolo in Italia, nell’Ottocento appare una componente del sistema di simboli e miti che definiscono e strutturano la «nazione» italiana. L’anti-spagnolismo diviene cioè un tratto di un linguaggio emotivo che si trasforma in categoria di analisi anche nel passato storico dell’Italia moderna al quale si incorpora, e solo molto recentemente la riconsiderazione della cosiddetta fase del dominio spagnolo in Italia, da parte della storiografia, ha cominciato a prescindere da questo condizionamento» (pp. 428-429).

La svolta è illustrata innanzitutto da Gianvittorio Signorotto, nella relazione Dalla decadenza alla crisi della modernità: la storiografia sulla Lombardia spagnola (pp. 313-343), secondo cui fra le componenti che nei secoli XIX e XX alimentano il blocco pregiudiziale nei confronti della cosiddetta età della decadenza, l’anti-spagnolismo si rivela presto la più anacronistica, mentre più marcata è l’avversione risorgimentale e post-risorgimentale nei confronti del papato. Affermatosi con la forza di un luogo comune soprattutto con il romanzo di Alessandro Manzoni (1785-1873), esso sopravvive come una sorta di corollario del giudizio di ordine morale sui secoli XVI e XVII finché, negli ultimi decenni, con l’avvento di nuovi studi sull’età spagnola e anche di nuovi orientamenti della storiografia istituzionale, che hanno individuato la natura composita e pattizia delle formazioni politiche di Antico Regime, «[...] tramonta definitivamente» (p. 342).

Cesare Mozzarelli, uno dei primi studiosi a sottolineare l’esigenza di superare il «pregiudizio pubblicistico» (10) gravante sugli studi di natura politica e istituzionale e a segnalare l’irriducibilità delle antiche forme della politica alle categorie interpretative del presente, ci conduce Dall’anti-spagnolismo al revisionismo (pp. 345-368), cioè «dalla vaghezza onnicomprensiva d’una interpretazione generalissima [...] [allo] studio circostanziato di fonti archivistiche inesplorate, di realtà particolari, e di prospettive innovative» (p. 347). Gli studi di Domenico Sella (11) — ricorda lo storico mantovano — disarticolano lo schema interpretativo della decadenza e affrontano il rimosso periodo seicentesco, favorendo lo sviluppo di una nuova storia regionale, mentre Signorotto compie un grande sforzo di aggiornamento culturale e metodologico riguardo alla storia della Lombardia. Matura anche un nuovo filone storiografico spagnolo, rappresentato innanzitutto da studiosi come Luis Ribot Garcia e Pablo Fernández Albaladejo, che guarda alla Lombardia nella prospettiva di una storia che non è più spagnola o italiana, bensì pro­pria di un sistema imperiale. Vie­ne meno così l’attenzione quasi esclusiva a repubbliche e principati i­ta­liani indipendenti, studiati in contrapposizione ai domini spagnoli ma proprio per questo al di fuori di quel sistema reticolare interdipendente che caratterizzava tutti gli Stati della Penisola e che non può essere compreso senza far riferimento al ruolo degli Austrias. Si fa strada una duplice tendenza, a superare gli steccati delle storie nazionali e a leggere l’età moderna come Antico Regime, cioè nella specificità propria degli uomini di quella età e non come periodo di mera transizione alla modernità. «Mentre la soglia della modernità si sposta in avanti, in una zona sempre più prossima all’illuminismo e alla Rivoluzione — notava alcuni fa, in proposito, lo storico del diritto Luca Mannori —, il periodo tra Cinque e Settecento emerge ormai a tutto tondo come «antico regime»: un mondo caratterizzato da pratiche politiche nettamente «altre» rispetto a quelle con­temporanee, che chiedono di es­sere comprese semplicemente per quello che sono, liberandosi da ogni im­paccio teleologico, da ogni ingombran­te nozione di progresso storico, da ogni senso di continuità obbligata con la contemporaneità» (12).


Note


(1) Cfr. Antonio Cosci (1843-1883), L’Italia durante le preponderanze straniere. Narrazione storica dal 1530 al 1789, in Storia politica d’Italia scritta sotto la direzione di Pasquale Villari [1826-1917], vol. V, Vallardi, Milano 1875.
(2) Cfr. Luigi Bulferetti, Il problema della «decadenza» italiana, in Nuove que­stioni di storia moderna, 2 voll., Mar­zorati, Milano 1964, vol. II, pp. 803-845 (p. 803).
(3) Giuseppe Galasso, Il sistema degli Sta­ti italiani nell’epoca della «Decadenza», in Idem, Dalla «libertà d’Italia» alle «pre­ponderanze straniere», Ed. Scientifica, Napoli 1997, pp. 75-131 (pp. 76-77), con rif. a Benedetto Croce (1866-1952), La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza, Laterza, Bari 1949, p. 257.
(4) Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di Niccolò Gallo, Einaudi, Torino 1975, p. 811.
(5) Cfr. Alle origini di una nazione. Antispagnolismo e identità italiana, a cura di Aurelio Musi, Guerini e Associati, Milano 2003. Tutti i riferimenti fra parentesi nel testo rimandano a quest’opera.
(6) G. Galasso, Alla periferia dell’Impero. Il Regno di Napoli nel periodo spagnolo (secoli XVI-XVII), Einaudi, Torino 1994, pp. X e XI.
(7) Cfr. Idem, L’Italia una e diversa nel sistema degli Stati europei (1450-1750), in Id. e Luigi Mascilli Migliorini, L’Italia moderna e l’unità nazionale, vol. XIX della Storia d’Italia da lui diretta, UTET, Torino 1998, pp. 3-492 (p. 298).
(8) Ibid., p. 480.
(9) Sull’ampiezza di questa letteratura basterebbe ripercorrere il catalogo degli autori menzionati o passati in rassegna in un’opera finora poco considerata dagli studiosi, Francisco Elias de Tejada y Spínola (1917-1978), Nápoles Hispánico, 5 voll., Montejurra, Madrid e Siviglia, 1958-1964; trad. it. del primo e del secondo volume, a cura di Silvio Vitale, Napoli spagnola. La tappa aragonese (1442-1503) e Napoli spagnola. Le Decadi imperiali(1503-1554), entrambi Controcorrente, Napoli 1999 e Napoli 2003.
(10) Cesare Mozzarelli, Corte e amministrazione nel principato gonzaghesco, in Società e storia, anno V, n. 16, Franco Angeli, Milano 1982, pp. 245-262 (p. 250).
(11) Cfr. Domenico Sella, L’economia lombarda durante la dominazione spagnola, il Mulino, Bologna 1982, e Idem, Sotto il dominio della Spagna, in Id. e Carlo Capra, Il Ducato di Milano dal 1535 al 1796, vol. XI della Storia d’Italia, UTET, Torino 1984, pp. 3-151.
(12) Luca Mannori, Genesi dello Stato e storia giuridica, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, n. 24, Giuffrè, Milano 1995, pp. 485-505 (pp. 493-494).


Francesco Pappalardo





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