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a rivoluzione russa dell’Ottobre del 1917 — come noto — rappresenta uno degli avvenimenti-chiave di quel ventesimo secolo che, inaugurato all’insegna della massima frivolezza sulla scia della tanto ingenua e ottimistica, quanto fondamentalmente venata di ateismo pratico,
Belle Époque, ha poi visto l’esplosione radicale delle ideologie politiche dagli effetti più sanguinari. Anche e soprattutto per questo, perpetuarne la memoria storiografica, alimentandone il relativo "dibattito pubblico", in un senso o nell’altro, significa orientare sensibilmente la battaglia delle idee che ancora oggi sui libri di testo scolastici di storia, come nelle aule dei Parlamenti, si richiama — almeno in parte — a quei fatti.
Con la sua ultima fatica in materia il professor Ettore Cinnella, contemporaneista, per molti anni docente di Storia dell’Europa Orientale presso l’Università di Pisa, ordina le ricerche di una vita e chiarisce ulteriormente aspetti del comunismo sovietico tratteggiati in altri lavori — soprattutto in La tragedia della rivoluzione russa, uscito per la Luni Editrice di Milano-Trento — ma spesso non adeguatamente approfonditi per non appesantire volumi principalmente divulgativi, pensati per un pubblico non necessariamente specialistico.
La Russia verso l’abisso è quanto mai significativa perché lo storico — formatosi alla fine degli anni 1960 presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, dove ha avuto come collega di studi Massimo D’Alema, mai peraltro addottoratosi — ha svolto anni di ricerca presso l’Archivio Centrale del Partito Comunista a Mosca, nonché studiato di svariate biografie critiche di Karl Marx (1818-1883). Cinnella parte poi da un punto di vista insospettabile in quanto non è pregiudizialmente viziato da alcuna riserva politica o ideologica rispetto alla materia oggetto del suo studio.
Nei dettagli, il lavoro si apre con una introduzione metodologica e consiste di tre corpose parti tematiche (Dal Febbraio all’Ottobre 1917, pp. 25-152; I bolscevichi al potere, pp. 154-245 e Il comunismo militaresco, pp. 248-378). Oltre alla consueta panoramica prospettica sulla successione cronologica degli avvenimenti di Russia — compiuta qui peraltro su un’ampia documentazione di prima mano consultata in originale —, il volume offre una costante comparazione storica con la cosiddetta "prima" rivoluzione, quella fallita del 1905, nonché include i profili biografici di alcuni dei protagonisti principali.
Relativamente al primo punto, Cinnella afferma che "le differenze sono talmente grandi" che sarebbe a dir poco fuorviante vedere in quell’insurrezione d’inizio secolo ""la prova generale del 1917", come vuole un’antica leggenda pubblicistica" o, parimenti, "un conato rivoluzionario prematuro e mal riuscito, come molti ancora oggi pensano" (p. 15). Al contrario, alla vigilia del 1917 la Russia "[…] era un immenso vulcano in procinto di esplodere, [proprio] perchè non era stato risolto nessuno dei problemi politici e dei drammi sociali che avevano generato il sommovimento del 1905" (p. 16). Soprattutto, "la vera e sconvolgente novità della rivoluzione del 1917 è l’estenuante conflitto bellico, in cui l’impero zarista era coinvolto da due anni e mezzo" (p. 17), cosicché la Prima Guerra Mondiale (1914-1918), che di per sé non era certo un evento specificamente russo, finì con l’abbattersi sul Paese "[…] ingigantendo e acuendo i mali di cui [esso] soffriva" (ibidem).
Insomma, se oggi a livello storiografico appare pacifico che la Grande Guerra rappresentò veramente uno spartiacque fra due mondi — decretando, fra l’altro, la fine di quattro imperi, alcuni dei quali plurisecolari —, relativamente alla Russia occorre tenere presente che le ripercussioni del conflitto furono "[…] ancora più tragiche perché vennero ad intrecciarsi con i cronici mali interni e con i mali di un potere bacato e anacronistico. Quando si studia il terremoto rivoluzionario del 1917, bisogna saper distinguere nei soggetti politici e nei movimenti sociali, al di là delle apparenze, i caratteri tipicamente russi dalle novità generate dalla guerra" (ibidem). Per Cinnella, infatti, la radicalizzazione delle masse urbane fu cagionata — in ultima analisi — proprio dagli effetti immediati della guerra in corso e "dalle nuove e terribili sofferenze che esse ora pativano in aggiunta alle antiche privazioni" (p. 17), determinate soprattutto dalla scarsità di generi alimentari disponibili. Resta vero che la rivoluzione — quando scoppiò — colse di sorpresa le stesse forze estremiste. Come ebbe a scrivere il socialista rivoluzionario Sergej Dmitrieviĉ Mstislavskij (1876-1943), testimone diretto degli eventi: "La rivoluzione trovò noi, membri del partito, immersi nel sonno come le vergini folli descritte nel Vangelo" (cit. a p. 40). Sorta di fatto spontaneamente come rivolta per il pane, senza la guida dei partiti socialisti, la protesta poté in breve raccogliere l’esperienza di molti tra lavoratori, operai e agitatori rivoluzionari che non avevano dimenticato i fatti del 1905 e, anzi, operavano da tempo in clandestinità aspettando soltanto il momento più propizio per intervenire. Secondo Cinnella la sollevazione popolare del febbraio del 1917 fu autonoma e mantenne il suo carattere autoctono: per la sua riuscita, tuttavia, risultò decisivo l’appoggio delle unità militari che fraternizzarono con gli operai, rendendo così l’ammutinamento di massa un fenomeno esteso e non più circoscritto a singoli situazioni o contesti locali. Non a caso, "il riconoscimento ufficiale dei diritti dei militari fu uno dei primi atti del soviet di Pietrogrado. La celebre ordinanza n. 1, promulgata il primo marzo 1917, garantiva ai soldati e ai militari russi il pieno esercizio delle libertà civili e politiche e autorizzava tutti i reparti militari ad avere un proprio organo rappresentativo" (p. 43). Come noto, però, l’idillio finì ben presto, complici l’aumento della tensione produttiva per le necessità belliche e il brusco peggioramento della già precaria situazione alimentare. Saranno queste in effetti le premesse che porteranno appena qualche mese più tardi i bolscevichi al celebre assalto del Palazzo d’Inverno.
Il resto, come si suol dire, sarebbe già storia nota, ma lo studioso dedica comunque i capitoli conclusivi a sfatare alcune "leggende rosa" sul mito dell’Ottobre Rosso che ancora permangono. Per esempio, "taluni sostengono che, con tutte le sue colpe ed errori, il regime comunista ebbe almeno il merito di mettere ordine nel caos della rivoluzione, riorganizzando alla meglio la macchina amministrativa e l’apparato produttivo [...] bloccando le forze centrifughe e disgregatrici che stavano dissolvendo lo Stato russo" (p. 319). Ora, "sull’esito centralizzatore dell’azione di governo dei bolscevichi non possono esservi dubbi, ma occorre aggiungere che esso porterà, nel lungo periodo, alla rinascita (sotto nuove spoglie) dell’anacronistico impero russo e alla ripresa in grande stile del vecchio imperialismo zarista. Quanto ai risultati della politica economica del nascente potere sovietico, abbiamo già mostrato quanto disastrosi essi fossero e come causassero lo sfacelo delle strutture produttive e la regressione del paese ad uno stato di primitiva barbarie" (p. 319).
Concretamente, la rozza ideologia statalistica, l’improvvisata e frettolosa sperimentazione, l’incessante proliferazione di organi decisionali nonché le croniche disfunzioni amministrative "[…] assestarono il colpo di grazia ad una economia dissanguata dal terribile sforzo bellico e sconvolta dalla tempesta rivoluzionaria" (p. 320), cosicché il dissesto economico ereditato dai bolscevichi fu da essi persino aggravato. Il proletariato di fabbrica, che il regime bolscevico "[…] proclamò classe dominante e dai cui ranghi provennero molti nuovi dirigenti subì anch’esso i devastanti del degrado industriale e della ruralizzazione del paese. Quegli anni, in cui la propaganda bolscevica magnificò il ruolo della nuova classe dominante nella Russia sovietica, videro l’impoverimento materiale e la disgregazione sociale del proletariato urbano" (ibidem). Insomma, quella comunista alla lunga si rivelò una tirannide "assai più efferata" dello zarismo che condusse infine il Paese per mano direttamente verso la catastrofe — prima — economica e — poi — politica. E, soprattutto, una tirannide che anni più tardi si cercherà di esportare anche in Occidente, nel mondo libero, dove l’eco dei suoi effetti devastanti — quello che Cinnella definisce, con espressione certo non nuova, ma da fin troppi studiosi nel frattempo già frettolosamente accantonata, "la lunga notte del comunismo" —, a quasi un secolo di distanza, sotto più fronti, non è ancora del tutto cessato.
Quella dello storico lucano — è nato a Matera nel 1947 — è un’opera in definitiva da avere e da collocare sullo stesso scaffale ideale che negli ultimi anni si è arricchito di volumi preziosi di autori tanto eterogenei nell’impostazione metodologica iniziale, quanto fondamentalmente convergenti nelle conclusioni pratiche, come Enzo Bettiza, Viktor Zaslavsky (1937-2009) e Vittorio Strada. A questo volume seguirà a breve un prossimo studio, dello stesso autore, "[…] incentrato sull’ascesa di Stalin al potere e sul regime totalitario da lui plasmato e dominato" (p. 21).