Il libro di Alberto Mario Banti —
Il Risorgimento italiano, Laterza, prima edizione 2004 —, ripubblicato in terza edizione quest’anno, è una buona occasione per introdurci nelle celebrazioni che hanno già cominciato a ricordare il centocinquantesimo anniversario della fondazione dello Stato italiano (1861-2011).
Di questo, e non solo di Risorgimento, infatti si tratta e si deve ricordarlo in ogni occasione: nel 1861 nasce lo Stato nazionale italiano per iniziativa di una minoranza ideologicamente motivata in senso nazionalistico e liberale, sulla scia di quanto accaduto in Francia con la Rivoluzione del 1789 e penetrato all’interno della Penisola grazie all’esercito francese, guidato da Napoleone a partire dal 1796.
Banti lo ricorda fin dall’introduzione: gli unici due elementi che facevano e fanno dell’Italia una nazione sono la tradizione letteraria e il cattolicesimo, ma non c’entrano con il Risorgimento. Infatti, allora, «nel 1861, gli italofoni (cioè coloro che parlano l’italiano per le comunicazioni quotidiane) oscillano tra il 2,5 e il 9,5% del totale della popolazione della penisola; a quella stessa data solo il 22% della popolazione dichiara di saper leggere e scrivere, quindi di essere almeno in grado di capire l’italiano» (p. VI). Il cattolicesimo — «in sé e per sé, la cattolicità rende gli abitanti della penisola parte di una comunità sovranazionale» (ibidem) — non è contrario all’amore della patria certamente, ma non può sostituire la fede con la nazione, come invece pretendeva l’ideologia nazionalista (1).
1. Il Triennio Giacobino
Ciononostante, se il Risorgimento si è attuato con la costruzione dello Stato-nazione, ciò è avvenuto attraverso un processo politico-culturale.
La periodizzazione, nel libro di Banti, mi sembra corretta e rispondente alla realtà. Essa comincia con il Triennio repubblicano (1796-1799), che è anche il titolo del primo capitolo, ossia con il periodo che vede la vittoriosa conquista militare della Penisola da parte dell’esercito guidato da Napoleone Bonaparte (1769-1821) e l’instaurazione di una serie di repubbliche «giacobine», che appunto sono fondate — ma non rette esclusivamente — dalla componente ideologica più oltranzista del processo rivoluzionario in corso. Questa scelta cronologica restituisce un po’ di attenzione al fenomeno delle insorgenze popolari italiane contro la dominazione giacobina e francese, che accompagna il triennio e che è stata vistosamente trascurata dalla storiografia italiana, almeno fino al 1996. Fenomeno che, oltretutto, è una ottima occasione per riflettere sul vero «comune sentire» degli italiani dell’epoca, osservando la vastità geografica e l’unanimità delle insorgenze, nonché il numero cospicuo degl’insorgenti. Come noto, il nostro Istituto è stato fra i pionieri di uno studio sistematico e di una lettura appropriata del fenomeno.
Anche il secondo capitolo, dedicato alla dominazione napoleonica (1800-1815), mette in luce l’importanza avuta da tale periodo sul successivo Risorgimento, anche se mostra come il Regno d’Italia e il Regno di Napoli murattiano abbiano generato «tendenze antifrancesi», sia per l’alta imposizione fiscale, sia per la leva obbligatoria, sia per i ripetuti furti, in particolare di opere d’arte. Ma anche in questo caso, la periodizzazione favorisce una riflessione che va ben oltre le intenzioni e lo stesso testo di Banti.
Infatti, appare ben strana una rivoluzione nazionale che vuole unire un Paese e renderlo indipendente dalla dominazione straniera, ed è così profondamente debitrice nei confronti di un tiranno straniero, che ha «usato» l’Italia, mentre la invitava a diventare una nazione. E questa dipendenza appare ancora più incomprensibile oggi, quando si vedono le piazze e le vie più importanti delle città italiane dedicate all’imperatore côrso, mentre altri popoli, i russi, i tirolesi e gli spagnoli, per esempio, celebrano invece la grande insurrezione che seppero opporgli.
2. La Restaurazione
Il libro di Banti, dopo queste due prime tappe, si sviluppa secondo una periodizzazione più tradizionale. Nell’affrontare il periodo successivo alla Restaurazione del 1815, lo studioso analizza la prima fase a prevalenza «settaria», quando la massoneria, per la sua eccessiva compromissione con Napoleone, viene sostituita, come avanguardia intellettuale e politica, dalla Carboneria e da altre società segrete. Gli anni 1820-1848 sono segnati da una strategia insurrezionale, che fallisce, anche se riesce a diffondere semi d’ideologia e a coinvolgere migliaia di militanti, molti dei quali organizzati nella Giovane Italia, la società segreta fondata dall’ex carbonaro Giuseppe Mazzini (1805-1872). In questi anni, dai tentativi rivoluzionari del 1820-21 al fatidico Quarantotto, i progetti rivoluzionari si definiscono meglio e gli attori del processo successivo già si delineano.
3. Il 1848
Nel 1848 fallisce il progetto cattolico, detto «neo-guelfo», che consisteva nel tentare di unificare l’Italia senza fare la Rivoluzione, cioè senza contrapporsi alla Chiesa e al Papa e dunque senza recidere le radici cristiane del Paese, coinvolgendo altresì gli Stati pre-unitari del Sud e del centro d’Italia in una confederazione. La causa del fallimento formalmente è la decisione di Papa Pio IX (1792; 1846-1878), sulle prime favorevole al tentativo, di non fare entrare le sue truppe in guerra contro l’impero austriaco: il 29 aprile 1848, egli terrà infatti un celebre allocuzione in cui si rifiuterà di trasformare la Santa Sede in una delle parti belligeranti nella guerra austro-piemontese del 1848-1849.
In seguito a questa decisione i ruoli si semplificano e si chiariscono: da una parte tutte le forze rivoluzionarie, che finalmente possono manifestare abbastanza apertamente il risvolto anticristiano delle loro ideologie settarie, dall’altra la Santa Sede, più favorevole allo status quo e all’Austria: anche se una minoranza di fedeli cattolici soffrirà per questa decisione, la maggior parte di essi rimarrà nell’obbedienza.
Il 1848, la prima guerra d’indipendenza, persa duramente dal Regno sabaudo, sembra un fallimento per la Rivoluzione. È invece l’inizio della vittoria. Con il successore di re Carlo Alberto (1798-1849), Vittorio Emanuele II (1820-1878), il Piemonte entra decisamente in una prospettiva favorevole non solo all’Unità ma anche a una unità di tipo rivoluzionario. La sua politica, sotto la guida delle due persone più importanti, forse, per l’intero Risorgimento: il nuovo re e il conte Camillo Benso di Cavour (1810-1861), ormai è subordinata in ogni sua espressione alla movimento nazionale e liberale italiano.
4. L’Unità
Il decennio successivo al Quarantotto vede il Piemonte divenire il riferimento obbligato per le sorti del Risorgimento, attirando anche Garibaldi nella propria orbita e lasciando Mazzini isolato nella sua prospettiva repubblicana e insurrezionalistica.
L’unificazione si compie così con la seconda guerra d’indipendenza — la guerra austro-franco-sarda — del triennio 1859-1861, che è materia del settimo capitolo dell’opera di Banti. In questo periodo si svolge la cosiddetta impresa «dei Mille», quando Garibaldi porta in dote al Regno sabaudo il Mezzogiorno della Penisola, grazie alla collaborazione della Francia, che sconfigge l’Austria in grandi battaglie avvenute nella pianura Padana orientale, e a quella più o meno occulta dell’Inghilterra, grazie anche alla disorganizzazione, all’incompetenza e al tradimento della classe dirigente borbonica, in particolare di quella militare.
Alla fine, dunque, è la componente monarchico-sabauda a fare il Risorgimento, grazie soprattutto al «lealismo di Garibaldi», come ricorda Banti (p. 117)
Il Regno d’Italia viene così proclamato nel marzo 1861 e sarà guidato da una piccolissima minoranza, la cosiddetta «destra storica», cioè la parte più «moderata» del fronte liberale — alternativa a quella democratico-repubblicana — che aveva fatto la Rivoluzione risorgimentale, cooptando i seguaci di Garibaldi al servizio dell’espansione sarda e costringendo Mazzini alla clandestinità. Banti ricorda come quando quest’ultimo muore, nel 1872 a Pisa, egli viveva da clandestino sotto falso nome. Nonostante che quindicimila persone accompagnino la salma dell’«Apostolo» alla sepoltura, le istituzioni tacciono, al contrario di quanto faranno dieci anni dopo, quando morirà Garibaldi.
Tuttavia, il neonato Regno è privo di consenso sociale. I plebisciti che avevano sancito le annessioni al Piemonte degli Stati pre-unitari sono un insulto alla democrazia e alla trasparenza; alle elezioni del 1861 partecipa meno del 2% della popolazione, mentre ottantacinquemila sono gli insorti che, secondo Banti, sono in armi contro lo Stato nel mezzogiorno, dove danno vita a una guerra civile feroce, il cosiddetto «brigantaggio», che segna l’inizio della «questione meridionale».
La «questione istituzionale» invece appare immediatamente, non soltanto per la scelta di imitare il modello di Stato francese, centralistico e fondato sulle prefetture, ma anche per il rifiuto di decentralizzare nei termini pur limitati, auspicati da alcuni esponenti della «destra storica», come Marco Minghetti (1818-1886). Infine la «questione cattolica», che lacera il Paese fino alla prima guerra mondiale, sulla quale i Patti Lateranensi del 1929 «metteranno una pezza» giuridica, ma che sostanzialmente rimane aperta, anzitutto proprio nella memoria storica degli italiani.
5. L’Italia liberale
I regimi che si succederanno alla guida dell’Italia cercheranno di riconciliare il pantheon, alquanto diviso, della nazione, mettendo anche Mazzini fra i padri della patria, con Cavour, Vittorio Emanuele II e Garibaldi. Poi, dopo i moti popolari del 1898, cercheranno di allargare il consenso sociale, ponendo fine al sogno elitario giacobino, cercando invece di coinvolgere le masse, cattoliche e socialiste. Infine, cercheranno sempre di «fare gli italiani», piegandoli ai diversi progetti ideologici che si succederanno alla guida del Paese, che si chiamino «destra storica», prima, «sinistra storica», poi, quindi fascismo, infine gramscismo, fino al recente appello a un maldefinito «patriottismo costituzionale».
Ma sono tutti progetti che falliranno, sì che oggi, in qualche modo, siamo tornati al punto di partenza, cioè alla ricerca di un’identità collettiva che in parte c’è sempre stata, anche prima del Risorgimento, e in parte non è mai nata, tantomeno dopo il 1861.
6. L’apparato critico
Banti dedica le ultime cento pagine del libro a una ricostruzione storiografica ampia e accurata e alla pubblicazione di 46 documenti.
Un’osservazione che nasce spontanea nel lettore che abbia un minimo di dimestichezza con la recente rilettura cosiddetta «revisionistica» del Risorgimento è che questa storiografia è completamente assente: Banti si limita a citare l’opera di Lucy Riall, che peraltro poco o nulla ha a che fare con il cosiddetto revisionismo.
Negli ultimi quindici anni, viceversa, sono uscite opere significative di studiosi come Francesco Pappalardo, Angela Pellicciari, Massimo Viglione, Oscar Sanguinetti, Roberto de Mattei, mons. Luigi Negri, Sandro Petrucci — per citarne solo alcuni —, la cui esistenza che un sito come il nostro contribuisce a far conoscere, sia in tema di insorgenze, sia per quanto riguarda appunto il Risorgimento.
Uno storico che voglia essere tendenzialmente completo nella sua analisi dovrebbe tenere conto anche di questi contributi, soprattutto se numerosi, anche per criticarli, se lo ritiene, così come certamente avrebbe potuto fare il lavoro di Banti, il quale si conferma, nonostante qualche apprezzabile risvolto, spiacevolmente lontano da ogni prospettiva di pur obbligatoria revisione della versione «canonica», ormai oleografica e stantia, del processo risorgimentale.