Pubblicata dall’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, l’opera dei tre studiosi di storia militare è l’unica esistente, dopo quella ottocentesca del generale Ferdinando Augusto Pinelli (1810-1865), che si propone di raccontare in sintesi organica e completa la Guerra delle Alpi, un conflitto finora ricordato soltanto dalla tradizione dinastica sabauda o da quella della montagna piemontese, ma volutamente trascurato per motivi «politici» dalla storiografia ufficiale. Questa guerra — come si legge nella prefazione di Massimo de Leonardis e nell’introduzione degli autori — rappresenta il primo scontro ideologico dopo la pace di Westfalia del 1648: tanto che nell’opinione della storiografia «democratica» italiana si trattò niente di più che di combattere dalla «parte sbagliata». C’era appunto la Rivoluzione da un lato, e dall’altro il vecchio ordine del Regno sardo.
Un conflitto che vede un antico Stato italiano opporsi alla Francia rivoluzionaria non certo per convenienza, come spiegano bene Ilàri e i colleghi: perché, se al tempo la posta in gioco fosse stata di soli interessi materiali, probabilmente re Vittorio Amedeo III (1726-1796) avrebbe volentieri stretto alleanza con Parigi contro Vienna, dato l’isolamento diplomatico in cui si trovava il suo regno e accertata l’indifferenza generale europea riguardo la perdita di Nizza e della Savoia. Invece no, non fu così nemmeno a guerra ormai perduta, quando nel Consiglio della Corona qualcuno propose un ribaltamento di fronte:
«Il re tolse la seduta riservandosi di decidere. Più tardi ricevette [Ignazio di]
Revel [1760-1835]
. Volle spiegargli che la sua coscienza gli vietava di allearsi con i «briganti» regicidi, gli ingiunse di limitarsi a negoziare puramente e semplicemente la pace e gli affiancò per maggior sicurezza l’intendente Tonso» (p. 303).
In estrema sintesi, la narrazione degli scontri può essere così semplificata: l’aggressione di Parigi nel 1792 e la resistenza sarda; lo sfondamento francese nella Riviera Ligure con la conseguente difesa in profondità di sardi e austriaci; infine le ritirate dei due eserciti contro-rivoluzionari. Il libro si apre con la descrizione dell’avanzata delle truppe francesi in Savoia e nel Nizzardo, condotta senza incontrare nessuna convincente opposizione sarda. Di fronte alla Rivoluzione, di fatto, la strategia difensiva del Piemonte aveva assunto un carattere del tutto diverso rispetto al passato. Mentre circa cinquant’anni prima, durante la guerra di successione austriaca, la difesa sabauda si era schierata in profondità, ora essa si disponeva «a cordone», con un assetto meno dinamico ma più prudente. Giocavano in questa scelta non solo i confini naturali, idonei a una resistenza di questo tipo, ma anche la subordinazione politica al desiderio di Vienna, che non voleva esporre a rischio la Lombardia, e anche la vacillante coesione politica interna, messa in discussione dalle teorie rivoluzionarie. Proteggersi in questo modo era insomma meno azzardato, ma anche meno elastico e risolutivo; e in definitiva non portò a risultati entusiasmanti. Vienna invece, per un motivo o per l’altro, a dispetto dei sardi, adottò la strategia opposta:
«Nel 1792 fu l’Austria ad adottare la difesa in profondità, almeno sul fronte italiano: ma solo perché lo spazio ceduto, prima al di là e poi al di qua delle Alpi, era quello dell’odiato Piemonte» (p. 42).
Dopo una parte iniziale dedicata alla situazione diplomatica internazionale e al primo attacco francese, splendidamente riuscito, il libro focalizza l’attenzione sul teatro di operazioni del Tirreno:
in primis sul tentativo della marina francese di conquistare la Sardegna partendo dalle isole di San Pietro e di Sant’Antioco, fallito grazie alla fermezza dei volontari e dei popolani cagliaritani; in secondo luogo, sull’occupazione di Tolone in Francia, attuata dall’ammiraglio inglese Samuel Hood (1724-1816), alleato con casa Savoia, nonché sulla sua sconfitta da parte di un capo-battaglione di nome Napoleone Bonaparte (1769-1821); da ultimo, sul ripiegamento dei britannici dalla Corsica (1794), isola francese trasformata in un regno subordinato a Londra dopo essere stata teatro di una guerra d’indipendenza guidata da Pasquale Paoli (1725-1807). Quello che viene esposto è un quadro tutto sommato slegato dalla descrizione delle operazioni militari terrestri: gli autori spiegano infatti di essersi attenuti alla tradizione storiografica inglese sperando di non sacrificare troppo l’interdipendenza dei due settori di guerra. Si tratta di una scelta che permette loro di non trascurare i dettagli e lo sviluppo delle singole imprese militari, anche navali degli alleati — inglesi, spagnoli e napoletani — contro la Francia.
Vero è che la cronaca dei fatti terrestri, che dal quarto capitolo in poi diventa cronologica e circostanziata, assume nell’opera importanza notevole: gli studiosi ammettono di aver sacrificato la sintesi strategica del conflitto per privilegiare la spiegazione analitica delle azioni belliche, riportando nel testo avvenimenti anche minuti. Si va dalla citazione meticolosa dei nomi dei soldati piemontesi che per primi varcarono i parapetti delle ridotte francesi, guadagnandosi la medaglia d’oro, a quella dei caporali che salvarono la vita ai loro tenenti o che caddero onorevolmente o che comunque si distinsero. Ricca di informazioni, perciò, l’esposizione rende leggermente più faticosa al lettore la comprensione della globalità della guerra, che pure non è affatto sottovalutata, ma pare rivolta a chi di storia militare sa già qualcosa.
Tantissime notizie, dunque, si addensano lungo il corso del volume e qualche nota nel corpo del testo sarebbe stata utile per meglio orientarsi. La bibliografia in fondo al libro, il fornitissimo indice dei nomi e ben sedici mappe giovano senza dubbio invece a chi per la prima volta affronta lo studio. Pregevoli anche le riflessioni di Ilàri e dei colleghi, sempre pronti a dare il giusto rilievo ai singoli fatti narrati. Come, per esempio, nel caso della battaglia dell’Authion — una cima fortificata sulla destra della strada che scende dal Colle di Tenda, ora in territorio francese—, dove un’accanita resistenza dei sardi nel 1793 ferma l’offensiva dei repubblicani scatenata per le pressioni politiche parigine: una epopea sabauda mai celebrata in seguito per ragioni ideologiche e una vera e propria dimostrazione di come la frenesia politica «giacobina» fu spesso per i militari francesi un ostacolo, e non un aiuto per la vittoria.
La politica fu anche allora vista come un freno, un intralcio, una «seccatura» dalla strategia e dalla tattica militare, sia nel campo francese che in quello contro-rivoluzionario: le prove fornite da Ilàri e colleghi a questo riguardo sono numerose. Nello stesso anno della battaglia dell’Authion, l’anno migliore della guerra per i sardi, le operazioni finiscono per esempio in fiaschi militari con tanto di accuse vicendevoli dei generali degli eserciti alleati. Interessi di basso profilo avrebbero infatti causato il temporeggiamento del generale austriaco Joseph de Vins (1732-1798) e le offensive divergenti dei duchi d’Aosta e di Monferrato, così come l’atteggiamento poco chiaro di Vienna — interessata solamente alla difesa delle piazzeforti lombarde — avrebbe minato i buoni rapporti, anche squisitamente militari, con Torino.
I francesi, a un certo punto, decidono di non attaccare più sui monti — dove i piemontesi sono abbarbicati con la difesa a cordone — e di affrontare gli austro-sardi in Liguria: lo fanno, per la verità, anche perché non hanno più viveri per poter svernare su quelle posizioni. Questa scelta, anche in conseguenza delle tensioni fra gli alleati, consente ai francesi di sfondare il fronte a Loano, nella Riviera Ligure di Ponente. Alla buona riuscita della campagna contribusce anche il fatto che Napoleone Bonaparte diviene allora generale in capo dell’armata d’Italia e subito inizia a guidare le sue truppe esattamente come gli si comanda da Parigi, cioè con obiettivo Vienna, e non Torino. Anche per questo, la figura del Côrso viene assai ridimensionata dai tre studiosi per quanto riguarda le sue abilità belliche: nel 1796, dinanzi alla nuova difesa austro-sarda in profondità, egli s’incunea tra le due armate nemiche, consapevole del pericolo di essere schiacciato tra il generale sabaudo Michelangelo Alessandro Colli Marchini (1738-1808) — uno dei pochi personaggi ritratti in positivo — e quello asburgico Jean Pierre de Beaulieu (1725-1819). Secondo Ilàri, Crociani e Paoletti, sarà appunto responsabilità del generale imperiale se di nuovo i francesi avanzeranno, a causa della sua sciagurata e anticipata ritirata ad Acqui, perché preoccupato solo della Lombardia, che a ogni modo, poco dopo, perderà.
Il Regno di Sardegna avrebbe quindi perso la Guerra delle Alpi, secondo quanto si desume dal testo, sostanzialmente a causa dell’appoggio militare incerto degli austriaci, o meglio per le incomprensioni strategiche sorte fra gli alleati. Tuttavia, sebbene nel volume non venga trattato ampiamente, il tema delle risorse economiche fu allora tutt’altro che ininfluente: alcuni passi del testo delineano la situazione svantaggiosa dell’antico Stato italiano, tanto in crisi da dovere organizzare un prelievo fiscale straordinario, da dover vendere i beni ecclesiastici — una volta ottenuta la dispensa pontificia —, infine da dover chiedere di continuo contingenti di truppe al Regno di Napoli — anch’esso membro della prima coalizione anti-francese —, che spesso non raggiungono nemmeno i settori di combattimento. E, anche se in un secondo tempo, sembrerebbe gravare sul Piemonte, come propongono Ilàri e i colleghi, pure l’ipoteca di quello che chiamano lo
«stay behind» giacobino — ossia la rete clandestina dei comitati rivoluzionari delle città piemontesi —, di cui in Italia è ispiratore Antoine Christophe Saliceti (1757-1809) —, davvero efficace. Mentre la rivoluzione in Italia riportava un consenso popolare limitatissimo, le insorgenze anti-giacobine e anti-francesi nei territori occupati erano scoppiate su scala amplissima già alla prima avanzata francese, ma venivano giudicate un avvenimento conservatore, una semplice ribellione alle requisizioni, agli stupri e alle prevaricazioni, così che in definitiva nessuno pensò di utilizzarle per una possibile riconquista contro-rivoluzionaria. Sbagliando, naturalmente: perché da come si legge nel libro, proprio quei contadini volontari dal 1792 al 1796 ebbero la capacità di disturbare notevolmente le retrovie rivoluzionarie.
Gabriele Màspero