a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale
inserito il 13 settembre 2009
RECENSIONI
RAPHAËL STAINVILLE, Grande Male. Medz Yeghern: Turchia 1909. Un testimone del massacro degli Armeni, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2008, 192 pp.
Talvolta persino l’esperienza personale di un pellegrinaggio può generare, è il caso di dire davvero «misteriosamente», un contributo che può rivelarsi importante per i più vivi dibattiti storiografici del presente. Questo è accaduto a Raphaël Stainville, giovane giornalista del quotidiano francese Le Figaro che nel corso di un pellegrinaggio da Parigi a Gerusalemme, facendo sosta in Turchia, ha scoperto in un antico monastero, oggi tenuto da alcune coraggiose suore italiane, un inedito manoscritto d’altri tempi. L’anno, per la precisione, è il 1909 e le pagine ingiallite, vergate in fretta ma in modo piuttosto dettagliato, narrano i massacri perpetrati dai Turchi a danno degli Armeni ad Adana, città di provincia della Cilicia, nell’Anatolia sud-orientale, da parte di un testimone del tempo. Il libro-cronaca, composto di quattordici capitoli, si presenta così come un originale reportage in cui la narrazione della vicenda storica e la presentazione del documento riscoperto fortuitamente a un secolo di distanza si alternano a considerazioni sul presente della Turchia e sulla «questione armena» che, per uno dei tanti paradossi di cui la storia recente è piena, appare talora saldamente ancorata al 1909, come cristallizzata nel tempo, in un dramma di cui non è dato scorgere la fine.
«Mercoledì di Pasqua. 14 aprile. Ore undici del mattino. Colpi di fucili, colpi di revolver partirono da ogni punto della città. Sparavano. Sparavano dalle terrazze, dalle finestre, dai minareti. Le pallottole piovevano fitte […] da ogni parte risuonava il lugubre grido: "Askna giaurs, askna!" ("Uccidete gli infedeli, uccideteli!")» (p. 18). Così ha inizio la cronaca dell’anonimo testimone del tempo che il giornalista, dopo lunghe ricerche, delle quali dà altresì conto nel corso della narrazione, identifica in padre Jacques Rigal, missionario francese della Compagnia di Gesù. Ma che cosa era accaduto per scatenare nella piccola e tranquilla Adana una simile ondata di violenza? Il manoscritto riferisce che pochi giorni prima un giovane carpentiere armeno, uscito armato perché aveva già subìto attacchi personali in precedenza, vistosi aggredito, aveva finito per uccidere due dei suoi aggressori. In un contesto sociale già fortemente eccitato dal ritorno del mito della Grande Turchia l’episodio costituì l’ideale casusbelli per un nuovo attacco alla già vessata minoranza religiosa armena che con la sua compattezza etnica e spirituale rompeva la tanto desiderata omogeneità culturale turca. Grazie a questo pretesto e dando adito alle continue voci di presunte rivolte armene, alimentate ad arte dal governo ultranazionalista dei Giovani Turchi (autoproclamatosi peraltro espressamente come l’incarnazione in Turchia degli ideali rivoluzionari di liberté, egalité, fraternité), civili e militari turchi si diedero a efferatezze inaudite che in quei giorni sconvolsero gli stessi osservatori internazionali. Così, la cronaca di padre Rigal parla per esempio delle «gesta» dei bachi-bouzouks – i cavalieri dell’antico esercito turco, arruolati in tempo di guerra – descrivendone in modo impressionante, con chirurgica precisione, da una parte l’odio militante e dall’altra gli irriferibili atti criminali. Le descrizioni tradiscono la disperazione di chi non può far nulla eppure sa che deve scrivere perché domani potrebbe anche non esserci più, anch’egli vittima «collaterale» di una carneficina indiscriminata. La violenza sugli uomini armeni, più temuti e quindi sgozzati senza pietà come animali sacrificali, non appare però certamente inferiore a quella perpetrata sui bambini «scorticati vivi» (p. 34) dinanzi ai genitori incatenati, alle ragazze violentate e poi «sventrate a colpi di coltello» (p. 63), o alle svariate torture irridenti imposte ai prigionieri, alcuni gambizzati, altri decapitati. Non stupisce quindi che un religioso utilizzi per definire quanto accade davanti ai suoi occhi il riferimento in assoluto simbolicamente più spaventoso: è «l’inferno» (p. 64). Nonostante ciò, ammette il cronista, «ci sono dettagli ancora più orrendi […] che una penna casta non può raccontare e che io rifiuto di scrivere» (p. 65).
Ma il manoscritto assume importanza nelle querelle storiografiche presenti anche perché padre Rigal fa riferimento al fatto che in quegli stessi giorni le autorità turche erano certamente al corrente di analoghe notizie provenienti da Hadjin, Akbès, Tarso, Osmania, Marsina dove erano in corso altri eccidi di massa fornendo in tal modo nuove prove alle già numerose testimonianze di connivenza che pesano sulla classe dirigente turca e, per estensione, su ampie fasce della popolazione di allora. Né, d’altronde, il massacro di Adana sarà il primo in ordine cronologico perché pochi anni prima c’erano stati già i «massacri del sultano rosso», il califfo Abdul-Hamid, avvenuti, fra il 1894 e il 1896, che avevano fortemente decimato la minoranza armena. Il 1909, ad Adana e altrove, segna la seconda tappa di questo genocidio. L’ultima, quella decisiva, avverrà come noto nel corso della Prima Guerra Mondiale (1914-1918) quando, essendo le principali potenze europee impegnate al fronte, il regime dei Giovani Turchi avrà finalmente mano libera per risolvere una volta per tutte, come pure si esprimeranno cinicamente alcuni dei suoi dirigenti, la fastidiosa «questione armena», quella cioè di un popolo che vuole rimanere a tutti i costi cristiano e rifiuta decisamente sia l’islam che l’ideologia panturchista. Anche la testimonianza di padre Rigal evidenzia infatti la discriminante religiosa – non soltanto nazionalistica – e quindi il carattere fondamentalmente anticristiano della persecuzione: le cronache raccontano come i perseguitati di turno, adulti, anziani o bambini che fossero, venissero posti uno dopo l’altro dinanzi a una radicale alternativa: o l’apostasia oppure la morte. Tuttavia, il valore del popolo armeno sarà testimoniato anche in questa circostanza: nonostante la salvezza della vita più volte prospettata a fronte di torture agghiaccianti, la stragrande maggioranza rifiuta l’apostasia finendo «crocifissa su tavoli, assi, porte» (p. 65).
Le vecchie pagine ritrovate da Stainville riportano così l’obiettivo della storia su un evento drammatico, il primo genocidio del Novecento, perennemente oscurato e che tanti vorrebbero rimuovere in vista dell’ingresso della Turchia nell’Unione Europea. I tragici eventi di Adana, invece – questo il senso della seconda parte del libro –, illuminano significativamente anche il presente e danno ragione dei tanti paradossi presenti oggi all’interno dello Stato turco. Così, anche un piccolo particolare di vita quotidiana come il fatto che, mentre si trovava in Turchia per completare le ricerche, Stainville non abbia «mai sentito una sola campana suonare» (p. 69) denota già di per sé le tinte fosche che contornano l’odierna Turchia, che pure si dichiara formalmente laica. Eppure, nel Paese che accolse la prima evangelizzazione della Chiesa primitiva e che vide nascere l’apostolo delle genti (San Paolo), le chiese (le poche rimaste) esistono ancora, pur nascoste dai minareti, ma pubblicamente tacciono, come se fossero rimaste prigioniere di un passato che non passa. Chi vuol diventare cristiano, oggi, chiede il battesimo «sotto il sigillo del segreto» (p. 89). Il Paese che meno di un secolo fa contava più di un milione di cristiani ora ne conta infatti poche migliaia, osservati con superficialità e trattati come uomini che non possiedono valore né dignità: derisi, umiliati, ghettizzati. Prima di quel mercoledì di Pasqua del 1909 la stessa Adana contava circa novecento famiglie armene, oggi in quel che resta delle case più volte distrutte e altrettante ricostruite sono rimasti appena ventotto uomini e sessanta donne.
Riflettendo poi sulle tante chiese trasformate ancora in questi ultimi anni in moschee, sugli espropri delle icone e degli oggetti di culto, sulla confisca di svariati beni immobili appartenenti alle comunità cristiane, Stainville azzarda, non senza qualche ragione, a questo punto, la denuncia nella Turchia odierna di una vera e propria «cristianofobia istituzionale» (p. 164). Le suore e i religiosi dal canto loro non possono neanche mostrare pubblicamente la croce, che sono invece costretti a portare nascosta sotto la veste, come qualcosa di cui vergognarsi, mentre la polizia locale sorveglia tutte le loro attività, fino alla paranoia. Lo dimostra l’ultima testimonianza del libro, quella di un convertito cristiano che per anni ha lavorato in polizia ed è riuscito a leggere i «rapporti sugli infedeli». Dopo aver visto per anni diari di pedinamento e centinaia di fotografie scattate segretamente, confessa con amarezza: «tutti i cristiani di Adana sonoschedati. Anche i missionari e le suore» (p. 184).
Al termine del complesso reportage le lontane ombre dei crimini del secolo scorso sembrano così confondersi con le tante inquietudini del presente di un popolo che lotta per l’affermazione della propria identità, costantemente in bilico fra laicità e fondamentalismo, in un Paese dai mille volti in cui a sollevare la spinosa questione-armena resta oggi solo qualche manoscritto del passato.
Omar Ebrahime
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