Francesco Pappalardo, in questo lavoro su Giuseppe Maria Garibaldi (1807-1882), legge la figura di uno dei massimi artefici dell’unificazione della Penisola italiana, proponendo a riguardo una tesi inedita: le gesta politico-militari dell’«Eroe dei Due Mondi» si riducono a un mito fondato «su una trasfigurazione fantastica della sua personalità» (p. 18) e strettamente dipendente dall’ideologia liberale che ha animato il Risorgimento italiano.
Pappalardo vede infatti in Garibaldi uno dei pochi personaggi che è stato oggetto insieme
«dei miti del
Risorgimento e dei miti sul
Risorgimento» (p. 17) e ritiene che la leggenda creatasi attorno alla figura del nizzardo sia nata nel 1834, quando i cospiratori che tentavano un’azione insurrezionale a Genova — progettata da Giuseppe Mazzini (1805-1872) e poi fallita — attribuirono a Garibaldi — che in realtà era stato solo
«spettatore imprudente» del moto (p. 21) — un ruolo da protagonista del tentativo stesso. Sarà poi la propaganda anglo-sassone — a giudizio di Pappalardo — a consolidare il mito di Garibaldi, sia in seguito agli avvenimenti della Repubblica Romana (1849) — alla quale anche il nizzardo offrì il suo contributo —, ma soprattutto in occasione della «spedizione dei Mille», quando
Garibaldi affida allo scrittore francese Alexandre Dumas (1802-1870)
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il manoscritto delle sue Memorie
, gli consegna un lasciapassare per la Sicilia e gli fa attraversare l’isola con un fotografo, che immortalerà uno alla volta quasi tutti i Mille» (p. 26).
Dopo aver spiegato così i motivi e le modalità della formazione del mito di Garibaldi, Pappalardo sottolinea che, per comprendere la personalità dell’«eroe dei due mondi», bisogna mettere a fuoco sia la sua
«ostilità al cattolicesimo» (p. 31), sia il
credo socialista, che Garibaldi condivide in pieno, aderendo alla Prima Internazionale, da lui considerata, significativamente,
«come modello di società anticlericale» (p. 38). La formazione giovanile di Garibaldi avviene nel periodo della Restaurazione, quando in Italia, accanto alla
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scelta, spesso obbligata, dei sovrani restaurati di mantenere in vita sistemi di governo introdotti nell’età napoleonica» (p. 42), si sviluppa l’attività propagandistica e organizzativa di laici e di religiosi — come il padre Gioacchino Ventura di Raulica (1792-1861) o Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa (1761-1838) — che invece
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intendono dare un carattere di maggior profondità e incisività alla Restaurazione» (p. 42). Tuttavia — fa notare l’autore —
«da questi cenacoli non si sviluppa una struttura laicale organizzata, soprattutto a causa del persistente giansenismo e regalismo del ceto colto, della tradizione giurisdizionalistica ancora viva nelle maggiori corti» (p. 43); intanto, la fermezza anti-rivoluzionaria dei sovrani non riesce a impedire che i sovversivi ripieghino sulla cospirazione — fondando società segrete e provocando i moti rivoluzionari del 1820-1821 e del 1830 —, né che si diffonda l’ideologia del nazionalismo, teorizzata fra gli altri da Mazzini, il quale pensava che
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l’avvento delle nazioni avrebbe non soltanto inaugurato un nuovo ciclo politico, ma anche dato l’avvio a una nuova era religiosa, contraddistinta dalla fine dell’individualismo e dall’inizio di una concreta associazione fra tutti gli uomini» (p. 53).
In questi anni di lenta trasformazione, Garibaldi intraprende la carriera di marinaio nella flotta mercantile e, per sfuggire a una epidemia di colera scoppiata in Italia, decide di recarsi nell’America Meridionale, dove — in Brasile e in Uruguay — prende parte a diverse azioni bellico-rivoluzionarie contro i governi legittimi, in seguito alle quali Mazzini lo invita a fare ritorno in Italia, perché vede in lui
«il comandante idoneo per l’esecuzione dei suoi progetti insurrezionali» (p. 75).
Attorno alla metà del secolo — sottolinea Pappalardo —, mentre l’unità politica e l’indipendenza italiane
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non sono concepite, se non da alcune minoranze, né come una priorità, né come una missione nazionale» (p. 78), noti pensatori cattolici — come l’abate Antonio Rosmini Serbati (1797-1855) e il padre gesuita Luigi Taparelli d’Azeglio (1793-1862) — teorizzano soluzioni al problema dell’unificazione nazionale che non comportino la rottura con la tradizione politica e religiosa del popolo italiano. Rispetto alla prospettiva neoguelfa, propugnata soprattutto dall’abate Vincenzo Gioberti (1801-1852) e consistente nel tentativo di realizzare l’unificazione della Penisola nella forma di federazione tra i legittimi sovrani e sotto la guida morale del Papa, le frange più estremiste del fronte rivoluzionario miravano invece a realizzare un’unificazione nazionale di tipo costituzionale-democratico, che avrebbe dovuto ottenere il consenso del beato Papa Pio IX (1846-1878) — da poco eletto al soglio pontificio —, pur senza rinunciare ai principi nazionalistici di fondo.
In questo frangente storico, Garibaldi accoglie favorevolmente la notizia dell’uccisione di Pellegrino Rossi (1787-1874), primo ministro di Pio IX, a opera di un estremista democratico e appoggia il governo rivoluzionario repubblicano instauratosi a Roma dopo la fuga del Pontefice a Gaeta, e riesce a mettersi in mostra, quando prende parte alla difesa della città dall’attacco delle truppe francesi di Napoleone III (1808-1873), accorse in aiuto del Papa. Dieci anni più tardi, quando la guida del progetto di unificazione italiana è ormai passata nelle mani di Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861), Garibaldi fu scelto da quest’ultimo per portare a termine un colpo di mano nel Granducato di Toscana, al fine di provocare l’intervento dell’Impero asburgico e l’ingresso in guerra di Napoleone III a fianco del Regno di Sardegna. Allo scoppio del conflitto — la cosiddetta seconda guerra d’indipendenza —, Garibaldi riceve il grado di maggiore generale dell’esercito sabaudo e il comando del corpo di volontari denominato Cacciatori delle Alpi, ma, dopo alcune battaglie vittoriose, viene sconfitto dagli austriaci in Valtellina.
Appena un anno dopo la conclusione della guerra (1860), però, Garibaldi torna all’attenzione dell’Italia e del mondo, perché i capi della sinistra radicale al parlamento subalpino — fra i quali il siciliano Francesco Crispi (1818-1901) — gli affidano il comando di un’operazione militare, appoggiata anche dagl’inglesi, volta a conquistare il Regno delle Due Sicilie attraverso la provocazione di un moto rivoluzionario in Sicilia. Pappalardo sostiene che Garibaldi, dopo essere stato facilitato sia dalla presenza nel porto di Marsala di navi da guerra britanniche — che impedirono alle unità napoletane di aprire il fuoco contro i garibaldini che sbarcavano —, sia, durante l’intera campagna, dall’atteggiamento arrendevole, se non proditorio, dei generali borbonici, entra a Napoli sotto il patronato di Liborio Romano (1793-1867), ambiguo ministro di polizia del re Francesco II (1836-1894), quasi senza sparare un colpo di fucile.
Il libro si concentra anche sul ruolo giocato da Garibaldi come «educatore» del neonato Regno d’Italia, nel più ampio contesto della politica pedagogica inaugurata dalla Destra storica, mirante a costruire uno Stato centralista e a ridimensionare la presenza della Chiesa all’interno della società: oltre all’idea secondo la quale l’avviamento alle armi avrebbe dovuto costituire uno dei cardini della formazione della gioventù, l’azione «pedagogica» di Garibaldi si concretizza in battaglie parlamentari e propagandistiche in funzione anticattolica, animate dalla massoneria, della quale era alto dignitario.
L’ultima azione militare di Garibaldi sul suolo italiano sarà a servizio del cosiddetto «mito della Terza Roma» — la Roma di Mazzini e del popolo, dopo quella dei Cesari e dei papi —, ma s’infrange il 3 novembre 1867 a Mentana, nei pressi di Roma, quando il suo tentativo di conquistare la Città Eterna con il tacito accordo del governo italiano viene bloccato dai volontari cattolici inquadrati nella cosiddetta Legione d’Antibes, accorsi in difesa del Pontefice. Nel 1870, dopo la breccia di Porta Pia e la fine del potere temporale del Papa, Garibaldi mette la sua spada a servizio della Francia in guerra contro la Prussia; a conflitto concluso, oltre a guardare con favore alla Comune di Parigi del 1871, egli
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nutre la speranza di una terza e decisiva ondata rivoluzionaria che avrebbe dovuto assicurare un ordinamento definitivo e pacifico ai popoli europei» (p. 236), e in quest’ottica, nel 1879, organizza a Roma una grande assise dei gruppi e delle società democratiche e radicali.
Nel 1882, alla vigilia della morte, in occasione del settecentesimo anniversario dei Vespri Siciliani, manda da Palermo un messaggio, in cui rivendica alla città il diritto di cacciare il Pontefice dall’Italia. Muore nell’isola di Caprera il 2 giugno 1882, dopo aver rifiutato ogni conforto religioso.
Il volume di Pappalardo suscita almeno due motivi d’interesse. Da un lato, si legge con la facilità di un romanzo storico — che indaga a volte anche nelle pieghe più nascoste della formazione e della personalità di Garibaldi — e permette di gettare nuova luce sulla figura dell’«eroe dei due mondi» dall’altro, fornisce un’ampia contestualizzazione del «mito di Garibaldi» all’interno dei cambiamenti sociali e politici del Risorgimento italiano, che può rivelarsi utilissima per chiunque voglia disporre di una sintesi e di un tentativo di interpretazione di uno dei nodi storici più importanti della storia italiana.
Giuseppe Bonvegna