Il termine «Stato» si presenta oggi tanto profuso a piene mani, in maniera quasi incontrollata, nella prosa mediatica e scientifica, quanto poco e maldefinito. Tutto è Stato, tutto si attende dallo Stato, tutto si rimette alla volontà dello Stato.
Ma che cos’è lo Stato?
Lo si confonde non di rado con l’autorità o con l’attività politica o con il potere o con la nazione o con l’amministrazione della cosa pubblica. Quanti sono per esempio oggi in grado di distinguere tra forma dello Stato – monarchia o repubblica, cioè forma personale e forma impersonale – e forma del governo – democratico, aristocratico, monocratico –, tra forma e modo di reggere una società, ossia – potremmo dire – fra regnum e regimen?
Così pure, un altro atteggiamento che si riscontra diffusamente è quello di concepire lo Stato contemporaneo, odierno, come un dato di natura, come una realtà creata, al pari del mare, delle stelle, delle piante, ecc.
Oppure, quando si è consapevoli che lo Stato contemporaneo è frutto di un processo di sviluppo, con mentalità storicistica o progressistica si concepisce questo sviluppo come un’evoluzione inarrestabile, fatale, deterministica, dal «meno» al «più», da forme «primitive» a forme «avanzate» e, quindi, sempre più perfette. In quest’ottica, oggi, davanti allo Stato «nazionale e democratico» moderno, ci troveremmo di fronte alla forma più compiuta concepibile di un’organizzazione della politica.
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A questa realtà – lo Stato moderno – e alle problematiche che ho per sommi capi indicato ha rivolto per anni il suo interesse di studioso e di cittadino il professor Gianfranco Miglio (1918-2001), scomparso non molti anni or sono.
Docente all’Università Cattolica di Milano, Miglio è stato un eminente cultore di diritto costituzionale e di scienza politica, nonché un intellettuale di enorme erudizione e dalle idee originali e controcorrente. Nonostante la sua militanza partitica nella Lega Nord negli anni Novanta, sarebbe un errore ridurre la sua figura a quella di ideologo leghista e il suo pensiero, profondo e caratterizzato da un forte realismo – ma non in senso machiavelliano – e la sua personalità – scevra da convenzionalismi o da servitù verso categorie «politicamente corrette» – a quelli di un teorico del federalismo «nordista».
Le sue multiformi e vivaci concezioni lo hanno condotto a formulare ipotesi di lavoro e tesi politologiche inedite e innovative, che hanno avuto presa su studiosi più giovani – per esempio Pierangelo Schiera, Lorenzo Ornaghi, Vittorio Emanuele Parsi, Alessandro Campi, Emilio Bussi –, che, pur avendole necessariamente rielaborate, le illustrano oggi felicemente.
Grande conoscitore in particolare – quindi non esclusivamente – degli storici e dei teorici della società e della politica di area germanica – da Otto von Gierke e Otto Hintze a Max Weber, da Rudolf Gneist a Walter Goetz, da Otto Brunner a Carl Schmitt, da Lorenz von Stein a Rudolph Smend, da Ludwig von Mises a Friedrich von Hayek, che, fra l’altro, ha contribuito a far conoscere al mondo scientifico italiano – ha sempre appoggiato le sue tesi su di un’amplissima base dottrinale e informativa, così come, sotto il profilo del metodo, ha privilegiato – ma, anche in questo caso, senza renderlo unico – l’aspetto storico-comparativo rispetto a quello logico-deduttivo.
Il suo pensiero politologico – per quello storico è debitore in particolare a Ettore Passerin d’Entereves –, ispirato soprattutto da quello di Schmitt, si può – con non pochi rischi… – riassumere nell’ampia coscienza della storicità del modello di Stato contemporaneo, nella riscoperta della ricca trama di costituzioni, diritti, istituzioni e corpi in cui si concretizzava e si diluiva la vita politica prima dell’avvento della modernità – pronosticando altresì la crisi dello Stato e il ritorno ad assetti «simili» a quelli medievali nel futuro del mondo –, l’obbligazione politica e il contratto-scambio come elementi caratterizzanti di ogni gruppo politico.
Sotto il profilo storico le sue tesi si sono appuntate soprattutto su una critica delle modalità di edificazione dello Stato unitario in Italia: riguardo all’estensione alla Penisola, dalle Alpi alla Sicilia, dei medesimi ordinamenti sabaudi, ebbe per esempio a dire che si era tentato di «far indossare a un gigante il vestito di un nano»… Egli tuttavia non si limitava alla critica, ma elaborò – e si fece latore in veste di deputato al Parlamento – a più riprese progetti di «ingegneria costituzionale» in senso federalistico per ovviare alle carenze e alle disfunzioni sempre più gravi e paralizzanti che riscontrava nell’apparato politico e amministrativo pubblico in Italia.
L’attività di Miglio si dunque è sempre caratterizzata per l’impegno pratico, per lo sforzo «militante» con cui ha costantemente cercato di divulgare le dottrine a lui care non solo nel mondo strettamente accademico, ma in tutti quegli ambiti in cui potessero tradursi in progetti di riforma, in indicazioni anche operative, in formazione di persone, in segnalazione di esperienze innovative e alternative.
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Gianfranco Miglio, nel quadro della sua corposa produzione scientifica, è anche autore di un breve e denso saggio – 85 paginette, comprese le 40 pagine d’introduzione – intitolato Genesi e trasformazioni del termine concetto Stato (*), uscito nel 1981 e riedito l’anno scorso.
Il libretto, nonostante la sua esiguità, contiene «in pillole» molte delle tesi di Miglio e ha il merito di sgombrare in poco spazio il campo da molti dei preconcetti e degli equivoci evocati in esordio.
Per prima cosa fa emergere con chiarezza, ricostruendo in parallelo la storia del termine «Stato» e delle realtà politiche con esso nel tempo identificate, come in realtà l’organizzazione politica che vige oggi venga da lontano, sia il prodotto di un ben identificabile – anche se non sempre ben spiegabile – processo storico-culturale e conosca un «prima» e forse conoscerà un «dopo»: di questo, a suo avviso – scrive nel 1981 – si vedrebbero già i primi germi… Assente in senso politico nella cultura antica e romana – che prediligono termini come respublica, civitas, potestas, imperium – lo Stato per lungo periodo designa al massimo la condizione, lo status di un gruppo.
Ma fra 1250 e 1350, quando il sistema feudale inizia a declinare – almeno come rapporto obbligante fra due uomini o due famiglie – e si profila la civiltà «moderna», si assiste a una svolta e il termine inizia ad assumere un senso decisamente politico. E il massimo fattore di questo cambiamento, in una società divenuta sempre più urbana, sarà – in questo Miglio offre uno spunto di ricerca assai utile – la prima istituzione davvero moderna: l’Università, che fornirà nuovi quadri concettuali e personale preparato a nuovi compiti. Il senso di «stato» muterà dapprima in quello di «ruolo del principe», ossia di quell’insieme di competenze e di funzioni autoritative concentrato nella figura del signore, poi, nelle monarchie del XV e XVI secolo, finirà per designare l’apparato a più diretto servizio del sovrano: i cancellieri, i giureconsulti, gli ambasciatori, la forza armata. Un po’ più tardi significherà più in ampio le strutture della «corte» e ancor più tardi i corpi intermedi fra il sovrano e il popolo in cui, nella società «per ceti», studiata soprattutto da Otto Brunner, il potere politico si distribuisce e si articola e dove i gruppi restano definito proprio dalla condizione politica a essi allegata; infine, l’amministrazione del regno. E quello delle relazioni politiche che ricalcano le nervature che collegano i gruppi sociali è uno degli aspetti caratterizzanti del mondo che, dopo la Rivoluzione, sarà chiamato «antico regime».
Con il 1789 «stato» inizierà invece a designare qualcosa mai visto prima: un che di autonomo e d’impersonale, regolato da un diritto pubblico uniforme, in cui i corpi intermedi titolari di potere politico sono scomparsi e a ergersi di fronte il sovrano rimane solo l’individuo nudo, forte solo delle dichiarazioni di uguaglianza e dell’ordinamento giuridico consuetudinario o, più spesso, positivo. E sarà questo lo «Stato di diritto».
Dal Lehnstaat (Stato feudale), allo Ständestaat (Stato cetuale), al Rechtstaat (Stato di diritto) Miglio mostra come si dipani il «filo rosso» dello Stato moderno – vero motivo conduttore della modernità politica, se non della modernità tout court –, che si afferma dapprima aggredendo i corpi intermedi e concentrando tutto il potere nella persona del sovrano, fino al relativo parossismo designato come «assolutismo», più o meno «illuminato» che sia. Poi, distrutti i corpi intermedi, volendo abbassare anche il sovrano, riduce il potere a entità impersonale e giuridica, cui spetta il monopolio della politica e dell’esercizio della forza ad intra e ad extra. I totalitarismi del Novecento, allorché lo Stato ridurrà a sé stesso – in misura minore, nel caso del nazionalsocialismo, o maggiore, nel socialismo reale – la società, spingeranno questa traiettoria fino al suo estremo storico, che nel 1945 e nel 1989 finirà tuttavia per esaurirsi.
Lo Stato odierno, democratico e nazionale, del Welfare e dei partiti, versione aggiornata dello «Stato moderno» – l’espressione è considerata da Miglio come una tautologia, nel senso che «Stato» è tout court l’organizzazione del potere tipica della modernità, per cui l’aggettivo «moderno» risulta pleonastico – affacciatosi alla storia cinque secoli fa, è divenuto uno smisurato apparato che pretende di soddisfare in tesi tutti i bisogni dell’uomo contemporaneo e drena risorse sempre più ampie dalla società. Ma, avverte Miglio, per la sua dimensione e per la complessità della realtà «sottostante» e la dilatazione straordinaria della sfera dei diritti individuali – mi permetto di chiosare – non ce la fa più. Reti di poteri pre-statali o paralleli allo Stato o su base territoriale ridotta – e magari antica –, riaffiorano de facto e alla prassi imperativa degli esordi si sostituisce sempre più spesso la negoziazione o la contrattazione fra gruppi ed esigenze diverse e disarmoniche. È una intuizione, che, formulata all’inizio degli Ottanta, si rivela – nonostante qualche remore espressa dal prefatore – non poco acuta: è un dato di esperienza – lo si è visto soprattutto con il secondo governo di Silvio Berlusconi – che oggi il potere reale non si ritrovi solo nell’esecutivo o nel legislativo, ma conosca molteplici centri: dalla magistratura alle organizzazioni sindacali – fautori di una «concertazione» al di fuori da qualunque quadro legislativo –, dai «poteri forti» industriali e finanziari al decisivo potere mediatico e culturale.
Riguardo al secondo aspetto segnalato all’inizio, Miglio evidenzia come l’evoluzione storicamente rilevabile dal feudalesimo alla società cetuale allo Stato burocratico ottocentesco, al Welfare State odierno non sia stato inevitabilmente un progresso ineluttabile, ma solo il frutto della mutevole necessità di rispondere a esigenze «forti» storicamente e ineluttabilmente determinatesi. Così come del bisogno di dar seguito a progetti egemonici di cui si sono rivelati latori e agenti gruppi politici ben individuabili. Dunque, nessuna «fatale sorte e progressiva» bensì, come in ogni aspetto del divenire storico, la composizione di interessi, la risposta a spinte sociali, la mediazione: il prodotto di disegni umani.
Infine, il saggio di Miglio ribadisce il nesso che esiste fra Stato e società e che oggi si è perso abbondantemente di vista oppure si è invertito tout court, sottolineando come la seconda preesista «ontologicamente» al primo e quest’ultimo abbia ragion d’essere solo quando svolge una funzione positiva verso la società.
In conclusione, un lavoro ampiamente condivisibile sotto il profilo scientifico, tanto nella sua pars destruens quanto, almeno in gran parte, nella sua pars construens, per esempio quando individua fra gli agenti del cambiamento di senso e di realtà della parola «Stato» i giureconsulti romanisti del secolo XIII e allorché individua e spiega le cause che hanno animato e reso possibile quello sviluppo verso lo «Stato moderno-contemporaneo» sopra descritto.
L’unico rilievo che mi pare di dover fare è che il carattere «mitico» e convenzionale che Miglio rileva nel concetto moderno di «Stato» sia predicato – ma senza approfondire – anche del Sacro Romano Impero. Se l’asserto appare senz’altro accettabile in termini fattuali, in quanto l’impero sacro e romano è rimasto in larga misura un ideale, quasi sempre disatteso nella realtà storica, meno d’accordo si può essere quando si accoppiano le due realtà, Stato e Impero, senza eccezioni. Soprattutto dal momento che lo Stato, nella prospettiva «tecnica» migliana, appare più che altro come un artifizio «ideologico», costruito «machiavellicamente» – nel senso di «amoralmente» – da gruppi di potere per perpetuare appunto il loro potere. L’impero cristiano, oltre a essere in diversi momenti – per esempio sotto Carlo Magno o Ottone III o Carlo V – una istituzione ben incarnata, attiva ed efficace, è stato viceversa davvero un modello autentico, non solo un mito, e frutto non di egoismi ma dell’altrettanto concreta – in quei tempi – dilatazione «cattolica» dell’ideale evangelico ed effettivo «luogo» – una magistratura «universale», estensibile cioè in tesi a ogni angolo della terra – dove attraverso la forza del diritto – ma anche delle armi – i popoli evangelizzati trovavano protezione dalla minaccia esterna e dirimevano pacificamente le loro troppo frequenti contese intestine.