A cinquant’anni dalla morte di Eugenio Pacelli (1876-1958), asceso al soglio pontificio nel 1939 con il nome di Pio XII, si moltiplicano gli interventi dei
mass media e gli studi scientifici. Fra questi ultimi va segnalata l’opera del giovane storico Alessandro Angelo Persico, allievo di Agostino Giovagnoli, docente di Storia Contemporanea all’Università Cattolica di Milano, che firma la
Prefazione (pp. IX-XVII). Persico non presenta documenti nuovi ma ricostruisce il complesso dibattito storiografico sviluppatosi intorno alla figura del Pontefice, che si è ampliato progressivamente fino a toccare molti aspetti della storia della Chiesa cattolica nell’età contemporanea, dal rapporto con gli ebrei alla questione del comunismo e all’atteggiamento verso la modernità.
Dopo un capitolo introduttivo su I papi del Novecento fra ecclesiologia e storia (pp. 1-64), Persico illustra l’origine delle polemiche sul Pontefice, Dal «Pastor angelicus» al «papa del silenzio» (pp. 65-126), partendo da un’affermazione della storica ebrea Anna Foa, secondo cui «[...] in un contesto apologetico "la leggenda rosa" è nata nel mondo ebraico, quella "nera" all’interno dello stesso cattolicesimo» (p. 77). Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, infatti, mentre eminenti personalità del mondo ebraico riconoscono il valore dell’azione pontificia a favore del popolo di Davide, alcuni cattolici dissidenti — primo fra tutti il modernista don Ernesto Buonaiuti (1881-1946) — sollevano dubbi sulla figura di Pio XII, che rappresenterebbe il punto di arrivo di un processo involutivo della Chiesa cattolica. A queste voci minoritarie si affiancano le critiche di esponenti del mondo laicista e anticlericale, come lo storico e uomo politico Gaetano Salvemini (1873-1957) e il polemista radicale Ernesto Rossi (1897-1967), che individuano nell’insegnamento del Pontefice i tratti caratteristici di una Chiesa intollerante e chiusa al confronto con la società. Su queste prese di posizione polemiche s’innesta la propaganda socialcomunista, volta ad affermare la tesi di una collusione vaticana con il nazionalsocialismo in funzione antisovietica.
È significativo, tuttavia, che la polemica sui «silenzi» di Pio XII sia nata, in tempi diversi, da due lavori non scientifici: l’opera teatrale del drammaturgo tedesco Rolf Hochhuth Il Vicario, del 1963, che provoca una netta cesura rispetto al passato e una vera e propria personalizzazione della questione Chiesa-Olocausto intorno alla figura del Papa, e l’opera del giornalista inglese John Cornwell, Il Papa di Hitler. La storia segreta di Pio XII, del 1999, fantasiosamente argomentata ma in grado di suscitare un enorme impatto emotivo, sebbene cinque anni dopo sia stata rinnegata dal suo autore, secondo cui, alla luce dei documenti emersi in seguito, Pio XII avrebbe avuto una libertà d’azione così limitata da rendere impossibile ogni giudizio.
Ma, a partire dalla prima rappresentazione berlinese de Il Vicario — osserva Persico nel terzo capitolo, Gli anni Settanta: la nascita dei grandi nodi storiografici del dibattito (p. 127-190) —, per almeno un ventennio l’attenzione degli studiosi e dell’opinione pubblica è rivolta al solo Pontefice: si sviluppa così «l’idea di una Chiesa "antisemita", legata per due millenni a una tradizionale teologia antiebraica, il cui ineluttabile destino ha trovato pieno compimento con il pontificato di Pio XII» (p. 137). Più cauto, ricorda Persico, è il giudizio della storiografia, che con Renzo De Felice (1929-1996) sostiene in quegli anni come l’antigiudaismo cristiano sia stato un elemento portante della reazione cattolica contro la modernità e debba essere calato nel contesto più generale di opposizione allo Stato laico e liberale. Dopo la Rivoluzione francese del 1789, quando la Chiesa si trova impegnata in un conflitto senza precedenti contro il laicismo anticlericale e la modernità secolaristica, riaffiorano nella popolazione pregiudizi antigiudaici, senza però che il magistero cattolico smentisca l’insegnamento costante dei Pontefici in materia.
Negli stessi anni viene evidenziata una presunta cesura con Papa Giovanni XXIII (1958-1963), presentato dai mezzi d’informazione come il Pontefice di una Chiesa che aspirava a rientrare in contatto con il mondo. In particolare, lo storico triestino Giovanni Miccoli legge la storia della Chiesa contemporanea come il perdurare di un modello storico, quello intransigente, per difendere il quale l’istituzione ecclesiastica, dopo il Risorgimento, prima avrebbe cercato un compromesso con i governi liberali, quindi si sarebbe alleata con i regimi autoritari, ritenuti più affini ideologicamente. In questa direzione viene individuata anche una parziale discontinuità fra Pio XI (1922-1939) e il suo successore, appunto Pio XII, che non avrebbe condiviso la posizione antitotalitaria del primo. Infine, dopo il Concilio Vaticano II alcuni studiosi sottolineano la distanza fra il magistero «preconciliare» e le «novità» del Concilio. Fra questi, il gesuita Giacomo Martina considera l’evento come l’inizio di un nuovo corso nella storia della Chiesa, «[…] i cui caratteri devono però essere osservati alla luce di un continuo progresso e miglioramento verso una completa accettazione della libertà politica e di coscienza» (p. 184).
Nel dibattito de Gli anni Ottanta: dalla guerra al pontificato, dal politico al papa, da Pio XII alla Chiesa (pp. 191-245), l’attenzione di una parte della storiografia si sposta dal Papa alla Chiesa e si verifica un ampliamento della «questione pacelliana», sia con un interesse nuovo verso gli anni del dopoguerra, sia con un’attenzione maggiore per il progetto storico del Pontefice. Uno sforzo per inserire la figura di Pio XII nella complessità della storia contemporanea è stato compiuto da Andrea Riccardi, che con il volume Pio XII, da lui curato per Laterza nel 1984 — frutto di un convegno tenutosi a Bari nel 1982 — ha sottolineato quanto sia importante studiare non soltanto i primi sei anni del pontificato di Pio XII, quelli «bellici», ma tutto il lungo periodo successivo. Secondo Riccardi dopo la guerra Pio XII sceglie d’instaurare un rapporto diverso con i fedeli, scavalcando le classi politiche: «In una cornice politico-sociale in cui la verità proclamata dalla Chiesa cattolica non rappresentava più l’unica offerta spirituale disponibile, il papa si proponeva come maestro e guida, punto di riferimento morale per affrontare i problemi internazionali e nazionali di un mondo sconvolto» (p. 229). In quella fase, ritiene Riccardi, alla Chiesa sarebbero mancate le categorie culturali per comprendere la crisi in atto e dunque la reazione si sarebbe concentrata principalmente sul piano politico con una mobilitazione sempre meno percepita e lo scivolamento verso toni apocalittici. Ma ciò risponde solo in parte alla realtà: se è vero che il più grande problema della Chiesa italiana in quegli anni — secondo il giudizio unanime dei suoi responsabili — è la persistenza della questione comunista, è anche vero che non manca la consapevolezza dei pericoli rappresentati dalla crescente mentalità secolarizzatrice, sottolineati prima da L’Osservatore Romano, nel 1958, in una serie di articoli non firmati sull’«offensiva scristianizzatrice» (5 maggio 1958) allora in corso, poi dall’intero episcopato italiano con la lettera al clero su Il laicismo, del 25 marzo 1960.
A partire dagli anni 1990 — Dagli anni Novanta ad oggi: Pio XII fra antisemitismo cattolico, Shoah e mito della cristianità (pp. 247-331) è il titolo del quinto capitolo — l’attenzione degli storici si concentra sempre più sul rapporto fra Chiesa cattolica, antisemitismo e teorie razziali moderne. «Questione ebraica» e dibattito su Pio XII si sovrappongono ed è molto difficile distinguere fra i due temi nonché occuparsi di altri aspetti del pontificato. Si diffonde l’opinione secondo cui il razzismo europeo, pur rifiutando i fondamenti religiosi dell’antigiudaismo cristiano, ne abbia recuperato alcuni stereotipi, mentre la presunta rassegnazione ecclesiale verso la persecuzione degli ebrei confermerebbe lo schema che vede questa acquiescenza come la conseguenza di una mentalità ecclesiocentrica radicata nel cattolicesimo dell’ultimo secolo. È questa un’interpretazione diventata centrale nella lettura fatta da Miccoli della «questione ebraica» fra le due guerre mondiali.
Il mito della cristianità, per riprendere il titolo di un’opera dello storico Pietro Scoppola (1926-2007), avrebbe costituito un modello teologico e sociale e rappresentato un paradigma di lettura dal quale la Chiesa non sarebbe riuscita a emanciparsi neanche di fronte al manifestarsi di uno sterminio di massa. Non tutti gli studiosi, però, sono concordi nel ritenere il «silenzio» del Pontefice e della Santa Sede un problema culturale di lungo periodo, come emerge, per esempio, dalle critiche dello storico Luigi Matteo Napolitano e dello scrittore Andrea Tornielli alle tesi di Miccoli. Proprio la scarsa attenzione alla ricostruzione di Tornielli Pio XII. Un uomo sul trono di Pietro (Mondadori, Milano 2007) — citata peraltro da Benedetto XVI il 9 ottobre 2008 nell’omelia per la Messa in occasione del cinquantenario della morte di Pio XII — costituisce una lacuna dell’opera di Persico.
Quanto all’applicazione della cristianità quale categoria storiografica, diviene fondamentale per gli intellettuali cattolici progressisti, in particolare per Daniele Menozzi e Giuseppe Alberigo (1926-2007), studiosi di storia della Chiesa, dimostrare la sua infondatezza storica, oltre che teologica: l’ideologia della cristianità affonderebbe infatti le sue radici non in un fatto storico, ma in un mito, sviluppatosi durante l’età della Restaurazione al fine di ricuperare l’egemonia della Chiesa sulla società, trasformandosi, da Papa Gregorio XVI (1832-1846) fino a Papa Pio XII, in strumento ideologico di controllo e di condizionamento della vita della Chiesa e dell’azione dei laici nella società. Invece, secondo altri, come il filosofo Vittorio Possenti, resta attuale l’idea di cristianità, «intesa come incarnazione del messaggio evangelico in un determinato periodo storico all’interno di strutture politico-sociali» (p. 363).
In realtà, nell’immediato dopoguerra, la Santa Sede è mossa, più che da un progetto concreto di ampio respiro, da alcune preoccupazioni pressanti, come quella nei confronti del socialcomunismo, e dall’esigenza di rafforzare il cattolicesimo sia in Italia sia nel contesto internazionale, nella consapevolezza che si stava affrontando uno scontro di civiltà, nel quale era in gioco la libertà della Chiesa stessa. In questo contesto non vengono espresse preferenze verso una particolare forma istituzionale ma si opera perché gli ordinamenti rispettino l’identità cattolica del paese. Menozzi ha evidenziato che Pio XII non intendeva riproporre pedissequamente il modello medioevale di società cristiana, ma cercava di adattarlo al particolare contesto storico; la contrapposizione alla cultura moderna non condusse né al rifiuto degli strumenti da essa elaborati, né alla rinuncia a operare nel quadro dei suoi ordinamenti politici e giuridici. Ma, nel contesto della politica italiana, dove lo scontro con il comunismo ha rappresentato lo sfondo in cui la Chiesa ha dovuto operare, «vi era un distanza fra l’idea degasperiana [Alcide De Gasperi (1881-1954)] di "civiltà cristiana" e i richiami pacelliani alla "cristianità"» (pp. 321-322) a causa di una divaricazione di orizzonti, che non erano solo orizzonti politici.
Dopo aver esaminato nei capitoli conclusivi Storici e storiografie (pp. 333-376) e Il dibattito storiografico fra tribunalizzazione della storia e discussione teologica (pp. 377-407), Persico conclude che dalla metà degli anni 1990 è sempre più evidente il divario fra la ricerca storica e l’offerta mediatica, conseguente a quella «tribunalizzazione» della storia che ha contraddistinto il rapporto fra ricerca e memoria nel secolo XX. Ma «[...] il nodo centrale dell’interpretazione del papato contemporaneo è rimasto in molti casi legato all’ermeneutica del Vaticano II. Non è un caso, perciò, se anche il discorso su Pio XII ha continuato a essere influenzato da diversi orientamenti ideologici [...]. I progressi futuri della storiografia sul pontificato pacelliano dipendono, perciò, anche dalla possibilità di superare l’orizzonte del dibattito teologico ed entrare definitivamente su un terreno propriamente storico» (p. 407).