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olti sono i saggi, le memorie e i libri che hanno trattato degli ultimi tempi della monarchia in Italia e, in generale, delle vicende di Casa Savoia. Il volume di Aldo A. Mola
Declino e crollo della monarchia in Italia si distingue in quest’ambito sia per il rigore storico-scientifico, sia per la
verve polemica. Mola è autore di numerosi saggi sull’epoca giolittiana, sulla monarchia italiana, sulla massoneria e su singoli protagonisti del Risorgimento. In questo lavoro egli confronta criticamente le varie tesi emerse su questo importante nodo della storia italiana, ne illustra e ne spiega i dati — affidabili — a disposizione, frutto del cospicuo lavoro di scandaglio bibliografico da lui fatto, ma anche di sue personali ricerche archivistiche e del reperimento di documentazioni inedite giacenti in fondi privati, proponendone una nuova e plausibile interpretazione.
Condividendo la lezione di metodo appresa da Renzo De Felice (1929-1996), lo storico piemontese rifiuta di addossare a re Vittorio Emanuele III (1869-1947) le responsabilità dell’affermarsi del regime dittatoriale di Benito Mussolini (1883-1945), come pure ridimensiona il ruolo della monarchia nell’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania nazionalsocialista e ne giustifica sostanzialmente la condotta dopo l’armistizio del 1943.
Prendendo le mosse dalle conseguenze del referendum istituzionale e delle elezioni per l’Assemblea Costituente del 2-3 giugno 1946, Mola rivisita la storia d’Italia, dall’Unità ai nostri giorni, in una narrazione che registra l’intreccio continuo fra le vicende della dinastia e quelle del Paese, rappresentate e interpretate dalle forze politiche che si sono alternate al potere. In questo excursus, Mola attribuisce ai vari protagonisti — uomini di cultura e singoli statisti del tempo —, precise responsabilità circa gli accadimenti più importanti e drammatici, conseguendo nel contempo dei «guadagni» storiografici dai quali non si potrà prescindere per gli ulteriori sviluppi e gli approfondimenti.
1. I brogli e il «gesto rivoluzionario»
Alcide De Gasperi (1881-1954), la mattina del 4 giugno 1946, confessò al ministro della Real Casa Falcone Lucifero che la vittoria della repubblica gli pareva improbabile. Alle ore 21 la situazione era completamente ribaltata: secondo lo statista trentino, la repubblica era in vantaggio di 2.000.000 di voti (pp. 65-66). Anche il ministro dell’Interno Giuseppe Romita (1887-1958) comunicò a circa duecento giornalisti che il vantaggio per la repubblica era in questi termini (p. 25). La Corte Suprema di Cassazione, il 10 giugno, fece pubblicamente sommare i dati pervenuti, che confermarono nella sostanza i dati già comunicati dai membri del governo. Si trattava comunque di risultati ancora incompleti. Mancavano gli esiti di numerose sezioni e bisognava pronunciarsi sui numerosissimi ricorsi (circa 21.000). Il governo, lo stesso giorno, aveva attribuito al Presidente del Consiglio, De Gasperi, le funzioni di Capo dello Stato. Umberto II definì tale decisione «un gesto rivoluzionario» (p. 4) ma, temendo che la sua presenza potesse favorire dei disordini nelle piazze, lasciò l’Italia e si trasferì in Portogallo.
La Corte fu chiamata a dirimere subito la questione dell’interpretazione del comma 5 dell’articolo 2 del Decreto Legislativo Luogotenenziale 16 marzo 1946, n. 98, che disciplinava la consultazione. Il referendum sarebbe stato vinto dalla forma istituzionale che avesse ottenuto la «maggioranza degli elettori votanti». Che cosa si doveva intendere per «elettori votanti»? Fu stabilito, con significativa divisione interna alla Corte, che «votante» non è — come lascia intendere il senso comune — colui che si reca a votare, ma chi «esprime un voto valido» (p. 7). Il 18 giugno vennero comunicati i risultati: «i voti […] a favore della repubblica sono12.717.923 e quelli a favore della monarchia 10.719.284 […] i voti nulli sono complessivamente in numero di 1.498.136» (p. 134). Se la maggioranza fosse stata calcolata sulla base dei votanti — e non dei voti validi —, la distanza fra i due schieramenti sarebbe stata di 250.251 voti su un totale di 24.935.343 elettori (voti validi più voti nulli), cioè l’1% a favore della repubblica, una media di sette voti per seggio (cfr. p. 14, pp. 134-135 e p. 332).
Per lo storico Franco Malnati, si trattò di una «grande frode» (cit. a p. 22). Tale affermazione tuttavia non trova, secondo Mola, riscontro nei fatti. L’attribuzione dei poteri di Capo dello Stato al Presidente del Consiglio in carica non fu che un «trucco» escogitato al momento da Alcide De Gasperi, Palmiro Togliatti (1893-1964) e Pietro Nenni (1891-1980). Non si trattò di «una sola e colossale manipolazione», ma un di «verminaio di errori materiali […] un mare di dati sospetti o addirittura inesistenti o spacciati per buoni» (p. 23), «una miriade di trucchi perpetrati un po’ dappertutto: 10 voti qui, 100 là, 500 altrove» (p. 69).
2. Gli esclusi dal referendum
Più di 3.500.000 elettori vennero esclusi a priori dal referendum: quelli della Venezia Giulia e della provincia di Bolzano, i prigionieri di guerra, i fascisti «epurati», i rifugiati e i residenti all’estero; 1.500.000 elettori risultarono non reperibili nella distribuzione dei certificati elettorali. In sostanza oltre il 10% degli elettori «fu privato del diritto di dire la sua» (p. 42). Abnorme fu poi la predisposizione dei certificati elettorali: ne furono stampati 80.000.000.
La grafica della scheda elettorale fu un altro elemento che giocò a favore della repubblica: la stella di Casa Savoia scomparve dal simbolo della monarchia; la faccia di donna coronata presente nel simbolo della repubblica poteva essere scambiata per quella della regina! (cfr. p. 71 e p. 379)
3. Le proteste e le denunce (4-13 giugno 1946)
Romita, nelle sue memorie, affermò che ci furono pressioni per abbattere la monarchia e che, a un certo punto, «saltarono fuori due milioni di voti di vantaggio a favore della repubblica». Il «miracolo» avvenne nel pomeriggio del 4 giugno. Il leader comunista Togliatti, ministro della Giustizia, dichiarò: «Avevamo un solo scopo: quello di fare la repubblica» (pp. 65-66). Anomalie e «trucchi» costituirono il fondamento delle «decine di migliaia di denunce e proteste» (p. 69). Tuttavia la Cassazione stabilì che «i contenuti di denunce e proteste sottoposte al suo esame esulavano dalle sue competenze. Perciò i brogli la passarono liscia» (ibidem).
4. La «verifica» (13-18 giugno 1946)
Furono comunque ricontrollati i 35.000 verbali di seggio. I dati confluiti erano lacunosi e incompleti. Le modalità di controllo furono imprecise e inadeguate. In definitiva l’esito comunicato dalla Corte Suprema non era veritiero (cfr. pp. 120-136). Il referendum sancì la vittoria di alcuni partiti che volevano «[…] il controllo assoluto del potere […], sulla base di un patto: il colpo di spugna sul passato di chi […] maggioritario alla Camera» (p. 136), nel 1924, non ostacolò l’ascesa al potere di Mussolini pur avendone la possibilità. Il «partito della rimozione concordata» (popolari, socialisti e democratici) stabilì che già dal 1922 in Italia vigeva un regime dittatoriale e che la colpa di tutto ciò era di re Vittorio Emanuele III (cfr. p. 136).
5. Il referendum: un voto sulla storia d’Italia
Per lo storico liberale Luigi Salvatorelli (1888-1974), il referendum doveva essere una sorta di «giudizio di Dio» sui Savoia. Veniva così riproposta la lettura storica di Adolfo Omodeo (1889-1946) e dei marxisti: la monarchia unificò l’Italia con l’inganno e la forza, soggiogando i sudditi inermi; «generali prezzolati» e «politici corrotti» determinarono la conquista del Sud; «i briganti […] alfieri del popolo» vennero brutalmente repressi; gli inermi milanesi furono massacrati dal generale Fiorenzo Bava Beccaris (1831-1924) nel 1898. L’assassinio di re Umberto I (1844-1900), nel 1900, e l’attentato a re Vittorio Emanuele III, nel 1912, ne furono le logiche conseguenze. La gestione della crisi del governo di Luigi Facta (1861-1930) nel 1922 costituì «uno dei capi d’accusa fondamentali» contro Vittorio Emanuele III (cfr. pp. 137-149). Si volle dimenticare che i parlamentari — e fra questi il liberale Giovanni Giolitti (1842-1928) e il cattolico Filippo Meda (1869-1939) — «[…] trattarono […] con Mussolini per ottenerne l’ingresso al governo» (p. 152) e che il duce formò il governo «in ossequio alla volontà del Parlamento» (ibidem). Alla Camera, su 535 deputati, i fascisti erano solo 32 e i popolari 107; in Senato i fascisti erano 2.
6. La diarchia (1923-1930)
Secondo lo Statuto, il monarca «[…] non aveva titolo per dirimere i conflitti tra governo e opposizione»: «il re regna ma non governa». Altri svolsero ruoli decisivi: De Gasperi «[…] elogiò l’insediamento del governo Mussolini» (p. 159); la Camera dei Deputati, «[…] gettò le basi» per la permanenza del fascismo al potere «a tempo indeterminato»: la nuova legge elettorale (il cosiddetto «listone») fu approvata dal parlamento (cfr. pp. 158-162). Nonostante l’«Aventino» — cioè, nel 1925, l’auto-esclusione dal parlamento dei deputati dell’opposizione —, l’assemblea continuò l’attività legislativa (cfr. pp. 157-171). Nel 1928 in Italia non si era ancora insediato «un regime a ideologia unica». Lo testimoniano alcuni fatti: la nomina di numerosi senatori non fascisti fra i quali il liberale piemontese Luigi Einaudi (1874-1961), il monarchico Enrico De Nicola (1877-1959), il filosofo liberale Benedetto Croce (1866-1952). La stipulazione dei Patti Lateranensi (11 febbraio 1929), preceduta dal dibattito in parlamento, non fu da tutti condivisa; la riforma della legge elettorale del 1928 fu approvata dalla stessa maggioranza uscita dalle elezioni del 1924 (cfr. pp. 171-186).
7. Il consenso e l’entrata in guerra (1930-1942)
Agli inizi degli anni 1930 Mussolini mieteva successi interni e riconoscimenti all’estero; gli attentati al duce e ai reali rafforzarono il regime. Gli italiani non si riconobbero mai in coloro che predicavano la violenza contro il regime, fra cui il movimento Giustizia e Libertà (cfr. pp. 190-192). La guerra in Etiopia del 1935-1936 e le sanzioni imposte all’Italia dalle potenze europee determinarono una grande «mobilitazione dell’opinione pubblica»; molti antifascisti rientrarono in Italia per «[…] riconciliarsi con Mussolini». Non mancarono però attriti fra regime e monarchia: l’opposizione del re all’inserimento dell’immagine del fascio littorio nella bandiera; il giuramento di fedeltà al regime e non solo al sovrano; l’attribuzione della carica di primo maresciallo dell’Impero sia al duce che al re (cfr. pp. 193-197 e p. 206). Quando furono promulgate leggi «per la difesa della stirpe», il re «[…] fu lasciato solo». In Italia l’antisemitismo «[…] era parola straniera»: all’epoca erano iscritti al Partito Nazionale Fascista 10.370 ebrei. Il decreto fu approvato sia dalla Camera bassa (coi voti favorevoli dei 351 presenti), sia dalla Camera alta (con votazione segreta, ebbe il consenso di 154 dei 164 presenti; erano assenti 250 «patres», fra cui Croce). Pur non condividendolo, il re firmò (cfr. pp. 200-201). Alla vigilia del secondo conflitto mondiale, il sovrano voleva che l’Italia si mantenesse neutrale. Il 10 giugno del 1940, il «culto feticistico della guerra» — così si esprime Mola — ebbe il sopravvento. Il re approvò l’intervento, convinto delle brevità delle operazioni belliche e dell’importanza di sedersi da vincitori al tavolo delle trattative di pace (cfr. pp. 207-212).
8. L’armistizio, la luogotenenza (1943-1945)
Re Vittorio Emanuele III, all’inizio di giugno del 1943, si consultò con «con esponenti dell’antifascismo» per porre fine all’alleanza coi nazisti (p. 213). Minoritario alla riunione del Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio 1943, sfiduciato poi dal re, il duce venne «fermato […] dai carabinieri». L’incarico di formare il governo conferito al maresciallo Pietro Badoglio (1871-1956) fu ritenuto «soddisfacente» dalle «correnti antifasciste». Eppure alla monarchia furono imputati le stragi e le deportazioni di militari italiani fatte dai tedeschi nell’estate del 1943, dopo l’armistizio con gli alleati siglato a Cassibile, in Sicilia, il 3 settembre 1943. Non si riconobbe l’impossibilità per l’Italia di dichiarare immediatamente la fine dell’alleanza con la Germania e di mantenere il governo in Roma: «i tedeschi erano già distribuiti su tutto il territorio nazionale [ed erano] molto motivati a battersi» (p. 222). Il governo e i reali furono costretti a trasferirsi nella Puglia meridionale (cfr. pp. 223-227).
Badoglio invitò il re a passare la corona al nipote Vittorio Emanuele, «assistito da un reggente». Scese il gelo fra il sovrano e il maresciallo: Vittorio Emanuele III non poteva abdicare; significava ammettere di aver commesso «reati di Stato» (p. 236). Il senatore Enrico De Nicola avanzò una proposta che fu accolta: la nomina di Umberto, principe di Piemonte, quale luogotenente del Regno, lasciando al sovrano regnante il titolo e la corona. Il re decise di trasferire i poteri al figlio «dopo la liberazione di Roma». Nell’attesa fu creato, su basi politiche, il secondo governo Badoglio (cfr. pp. 240-242).
9. La «defascistizzazione», l’epurazione e la luogotenenza di Umberto
L’esecutivo si occupò anche delle sanzioni contro il fascismo. Milioni di italiani erano stati fascisti convinti o avevano appoggiato il duce, Badoglio e Croce compresi. Ettore Casati (1873-1945), alto magistrato che fece carriera sotto il regime ed era stato ministro della Giustizia nel primo governo Badoglio, approntò una legge che intendeva punire «gli illeciti commessi per instaurare e conservare il regime fascista». Fu introdotta l’aberrazione giuridica della retroattività della pena. Il 26 maggio 1944, il governo emanò infatti una norma che puniva con la pena di morte coloro che «[…] promossero o diressero l’insurrezione armata del 28 ottobre 1922» e con l’ergastolo chi aveva svolto attività «meno rilevante» (p. 255). Liberata Roma, Vittorio Emanuele III, il 5 giugno 1944, firmò da Ravello, in provincia di Salerno, l’atto di nomina del luogotenente generale, non essendogli stato permesso di raggiungere la Capitale. Non godendo del pieno gradimento delle Nazioni Unite, Badoglio fu costretto alle dimissioni. L’uomo politico demo-liberale Ivanoe Bonomi (1873-1951) costituì il nuovo governo «sotto stretta sorveglianza» degli anglo-americani (p. 257) e fece approvare il decreto-legge che demandava al popolo la scelta della la forma di governo e di una «[…] nuova costituzione, eleggendo un’Assemblea a suffragio universale diretto e segreto». L’atto governativo, conferendo la sovranità in modo esclusivo «al popolo italiano», di fatto, cancellava lo Statuto (cfr. pp. 255-259). Con la nomina dell’azionista toscano Carlo Sforza (1872-1952) ad Alto Commissario per le sanzioni contro il fascismo si intensificava l’opera di «defascistizzazione» e di epurazione.
Finita la guerra civile con l’esecuzione di Mussolini, la fucilazione dei gerarchi fascisti e la resa del capo dell’esercito fascista repubblicano, maresciallo Rodolfo Graziani (1882-1955), a Umberto non fu permesso d’«[…] incontrare liberamente la popolazione», né di «[…] lanciare un proclama agli italiani» (p. 275).
10. Il crepuscolo (1946-1948)
Con l’abdicazione di re Vittorio Emanuele III (9 maggio 1946) e la partenza di Umberto da Roma (13 giugno 1946), la repubblica si affermò «con la forza dei fatti compiuti» (p. 283).
Il trattato di pace di Parigi (10 febbraio 1947), ritenuto «mortificante» per l’Italia (p. 287), determinò un’accorata protesta da parte del governo, perché esso costringeva «quarantacinque milioni di esseri umani» a vivere «congestionati su un suolo che non li può nutrire». Erano in sostanza le stesse considerazioni fatte da Mussolini per giustificare l’espansionismo italiano e la dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940 (cfr. pp. 288-292)!
De Gasperi, avendo bisogno dei voti dei monarchici per «[…] ancorare l’Italia a occidente», attuò un preciso disegno politico: fece approvare la legge che vietava il soggiorno sul territorio nazionale «agli ex re Vittorio Emanuele e Umberto di Savoia e ai loro discendenti maschi»; i monarchici avevano «[…] votato il re, lo stato, la legge, non un partito. Volevano ordine. Si sarebbero schierati con chi glielo avesse garantito», cioè con il partito democratico cristiano (pp. 294-295). La questione monarchica infiammò ancora gli animi in seno alla Costituente. Il monarchico Luigi Filippo Benedettini (1898-1978) propose di modificare nel seguente modo l’art. 131 della bozza presentata: «La forma istituzionale è subordinata alla volontà della nazione liberamente e democraticamente espressa». Su proposta del generale ed esploratore Umberto Nobile (1885-1978), comunista, che «[…] copiò pari pari dalla carta della repubblica francese», l’articolo fu così enunciato e approvato: «La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale» (p. 306).
11. L’epilogo
Umberto II, raggiunta la famiglia in Portogallo, si stabilì a Cascais. La regina Maria Josè (1906-2001), nel 1947, si trasferì in Svizzera, nelle vicinanze di Ginevra. Il 28 dicembre 1947, Vittorio Emanuele III morì ad Alessandria d’Egitto.
Umberto II, nel gennaio del 1960, quando seppe che il figlio Vittorio Emanuele intendeva sposarsi senza il suo assenso, gli inviò una lettera per fare presente: «la tua decisione di oggi ti apre o chiude per sempre la prospettiva della successione a ogni mio diritto» (p. 310). Infatti le regie patenti, emanate da re Vittorio Amedeo III (1726-1796) nel 1780 e ribadite nel 1782, stabilivano: «Non sarà lecito a Principi del Sangue contrarre matrimonio senza prima ottenere il permesso Nostro o dei reali nostri successori» (p. 311). Vittorio Emanuele sposò Marina Ricolfi Doria, in violazione delle regie patenti.
Umberto II morì il 18 marzo 1983 e volle essere sepolto nell’abbazia di Hautecombe, in Savoia e «[…] fece chiudere nel proprio feretro il regio sigillo» (p. 322).
Per «accuse avvilenti» (p. 307), nell’estate del 2006, Vittorio Emanuele venne arrestato, nei pressi di Lecco. La monarchia tuttavia «[…] non risultò annientata dalle dichiarazioni sui propri impulsi rese da Vittorio Emanuele di Savoia ai magistrati» (p. 307). Dal 18 marzo 1983, il titolare della successione era «Amedeo di Savoia, duca d’Aosta, principe ereditario e capo della Casa di Savoia», il quale, il 7 luglio 2006, in accordo con la Consulta dei senatori del Regno, «[…] ricordò il proprio rango di capo della Casa» (p. 323).
Il volume di Mola si conclude con la cronologia degli avvenimenti, a partire dal 4 marzo1848, giorno in cui Carlo Alberto di Savoia-Carignano (1798-1849), re di Sardegna, promulgò lo Statuto del Regno e con la storia dello stemma della repubblica, evidenziandone gli influssi culturali, anche massonici: «Una stella per tutti gli usi: lo stemma della repubblica» (p. 337).
Secondo l’opinione di Mola, il referendum doveva essere annullato, sia per l’infinità di irregolarità e di brogli registrati ai seggi, sia per i «trucchi» messi in atto da chi aveva deciso che la repubblica doveva vincere: De Gasperi, Togliatti e Nenni. Costoro condizionarono fortemente la proclamazione dell’esito finale della consultazione referendaria, predisponendo l’opinione pubblica ad accettare un verdetto «pilotato» attraverso l’anticipazione arbitraria di risultati del tutto parziali e incompleti — Romita lasciò scritto nelle sue memorie di aver vissuto in quei giorni «le ore peggiori della sua vita» (cit. a p. 66) —, conferendo il titolo provvisorio di Capo dello Stato al Primo ministro, esautorando in tal modo il sovrano prima dell’ufficializzazione dei risultati, esercitando indebite pressioni sulla Corte di Cassazione, al fine di ridefinire, in modo funzionale al successo repubblicano, la «maggioranza dei votanti». Mola, in conclusione, porrebbe pure la parola fine alla querelle dinastica in seno ai Savoia: sulla scorta delle leggi interne del Casato e, conseguentemente, della volontà, anche se mai pubblicamente esplicitata, di Umberto II, Amedeo di Savoia, V duca d’Aosta sarebbe l’attuale capo di Casa Savoia.